Linguaggi e formati del cinema e dell’audiovisivo a.a. 2010/2011.

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Linguaggi e formati del cinema e dell’audiovisivo a.a. 2010/2011

Nel maggio del 1959 vengono presentati al Festival di Cannes, e accolti generalmente con entusiasmo per la loro novità, I quattrocento colpi (Les quatre-cents coups) di Francois Truffaut e Hiroshima, mon amour di Alain Resnais. Da questa data viene fatto iniziare il nuovo corso del cinema francese degli anni Sessanta che si sviluppa raccogliendo indicazioni precedenti ma innestando processi di ampliamento non riconducibili a singole opere. I quattrocento colpi (Les quatre-cents coups) di Francois Truffaut, 1959.

La scelta dei due film-manifesto si rivela efficace. Data la loro originalità viene subito coniata una formula, nouvelle vague – “nuova onda”, mentre si avvia un'accorta campagna giornalistica attorno ai nuovi autori destinata a durare a lungo.

Si creano subito le opposte fazioni dei fautori e dei detrattori: i primi sottolineano l'aria diversa che arriva al cinema francese: l’attualità delle storie, il quadro di inquietudine generazionale che emerge, la rottura attuata sul piano dello stile e della narrazione ; i secondi ne sottolineano l'estraneità ai fatti storici (sono gli anni più bui della guerra francese in Algeria), il ripiegamento intimistico, il compiaciuto estetismo e la labilità culturale.

Per i giovani cinefili della nouvelle vague l’apprendistato naturale per approdare alla regia era recensire film degli altri come se ci si accingesse a girare i propri. Fare della critica non solo una disquisizione orale tra amici, ma un vero e proprio mestiere giornalistico trovò la sua locazione ideale nei Cahiers du Cinéma, la più autorevole rivista cinematografica francese fino agli anni Sessanta, che raccolse progressivamente tra i suoi collaboratori tutti i principali autori della nouvelle vague. Cahiers du Cinéma era un vero e proprio manifesto del movimento: ogni testo ed ogni recensione al suo interno costituiscono un programma e una definizione di un cinema prossimo venturo.

È in una serie di piccole frasi esemplari estratte dai Cahiers du Cinéma che emerge questa nuova concezione di cinema: “la bellezza è lo splendore del vero”, “il cinema è uno sguardo ad ogni istante talmente nuovo sulle cose, da trafiggerle”. Queste dichiarazioni di politica, o poetica, rivendicate con forza dalla nouvelle vague, sono frutto di una profonda esigenza di realismo che va a coincidere con una vera e propria rivoluzione rispetto alla concezione tradizionale di cinema.

I primi registi a riconoscersi nel movimento sono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Eric Rohmer, un gruppo di amici con alle spalle migliaia di ore passate al cinema, la conoscenza profonda di centinaia di film, la stesura di decine di articoli, e l’articolazione di centinaia di dibattiti alle porte della Cinémathèque Française: un luogo dove venivano proiettati quei “film maledetti”, secondo la definizione di Jean Cocteau, che per il fatto di disprezzare ogni regola, di essere “uno sgambetto al dogma”, erano diventati letteralmente invisibili. Si trattava per lo più di film di grandi cineasti europei allora largamente incompresi: Jean Renoir, Roberto Rossellini, Jacques Becker, e di registi americani del dopoguerra, Alfred Hitchcock e Howard Hawks su tutti.

Claud Chabrol Con Le beau Serge (1959) è stato uno dei primi fautori della possibilità di produrre film a basso costo e di creare meccanismi di rifinanziamento. Girato in economia, costato 46 milioni di vecchi franchi, il film ottiene il «premio di qualità» di 35 milioni. Con questi e gli incassi percepiti, produce I cugini (Les cousins, 1959), e poi, tra il 1959 e il 1962, film di Rivette, Rohmer, De Broca. Nei film citati, e nel seguente Donne facili (Les bonnes femmes, I960), si vanno precisando gli intenti chabroliani: usufruire delle maglie di un racconto, quasi sempre un «giallo», per esplorare ambigui grumi psicologici individuali e fornire un quadro della borghesia provinciale francese.

Alle volte sembra voler alzare il tiro, mirando a visioni generali dell'esistenza costretta ad ancorarsi alla fragilità delle apparenze, continuamente insidiata dal male. Tutta, o quasi, la produzione di questo autore sembra muoversi lungo tali linee, con evidenti diversità di esiti, tra autenticità, buona confezione e maniera, tra eleganza e ostentazione del nuovo, tra originalità di scrittura ed esilità di racconto. Discontinuo e non facilmente inquadrabile, Chabrol resta l'anima inquieta e contraddittoria della nouvelle vague.

Jean-Luc Godard E’ il più radicale dei registi esordienti all'inizio degli anni Sessanta, rischiosamente teso a proporre una sorta di riscoperta, o rifondazione, del linguaggio cinematografico. Più nettamente che per altri, l'attività critica è stata per molti versi un'anticipazione della pratica che sarebbe venuta: «Frequentare i cineclub e la cineteca - ha scritto - significava già pensare in termini di cinema e pensare il cinema. Oggi, invece di scrivere una critica, faccio un film, salvo poi introdurvi la dimensione critica». La conoscenza del cinema è stata allora per lui da un lato un processo liberatorio per quello che si è andato depositando nella tradizione, dall'altro una spinta a sperimentare, a riscoprire potenzialità espressive, procedimenti di costruzione, capacità della tecnica.

Fino all'ultimo respiro (À bout de soufflé, 1960), l'opera di esordio, assume il peso di un film-manifesto. Vi si legge una concezione dell'«avventura» come dimensione esistenziale, il ritratto di un disordine generazionale, di una vocazione al nichilismo, al gesto esemplificativo e alla sconfitta. A colpire è però soprattutto l'aspetto stilistico. I personaggi, intesi come entità psicologiche, tendono a scomparire, lasciando spazio ai comportamenti, ai «quadri di vita» (Questa è la mia vita, Vivre sa vie, 1962); dietro c'è ancora il tessuto delle antinomie romantiche, il senso di un'autenticità perduta.

Francois Truffaut Probabilmente il più duttile degli autori della nouvelle vague, certamente quello con una produzione filmica assai diversificata sia pure attorno ad un nucleo tematico quasi costante. E’ anche l'autore che più ha mantenuto una predilezione per una costruzione «artigianale» del racconto, pur aprendosi al gusto, apparentemente diverso, della scompaginazione o dell'improvvisazione, quasi a dimostrare che tradizione e novità possono ben stare assieme. Truffaut descrive spesso l'itinerario di un personaggio, un suo percorso esistenziale. Il più rilevante di questi percorsi è incentrato sull'infanzia, sentita come stagione che si attraversa, ambiguamente tesa tra dolcezza, costrizione e fuga.

Ne I 400 colpi (1959), film di formazione, di educazione sentimentale, vengono sviluppati tutti i temi che saranno distintivi della filmografia di Truffaut, come quelli dell'infanzia, della solitudine, della malinconia. Il protagonista, Jean-Pierre Léaud, mostra tutta la sua fragilità, il suo infinito desiderio di amore e libertà. Il finale che chiude I 400 colpi, con gli occhi di Lèaud di fronte la macchina da presa, è il capolavoro nel capolavoro: il mare finalmente visto per la prima volta è alle spalle, la malinconia è dappertutto. È anche il film che apre la cosiddetta saga Doinel che seguirà attraverso cinque lungometraggi e nell'arco di vent'anni, dai 13 ai 33 anni, le avventure del protagonista, sempre magistralmente interpretato da Léaud.

Jacques Rivette È stato forse il più «cinephile» tra i suoi coetanei, e questo «atto di amore» lo si ritrova in tutto il suo cinema, caratterizzato da una marcata propensione autoriflessiva, come se l'interrogativo di fondo fosse costantemente rivolto alle ragioni e alle possibilità del proprio linguaggio, e più in generale del linguaggio della rappresentazione. Il film di esordio è Paris nous appartient (Parigi ci appartiene) iniziato nel 1958 e concluso nel Dietro trame e complotti che si intersecano, si dipana un'analisi dei rapporti tra i personaggi, del loro continuo dialogare, della loro tensione al sogno e all'utopia per cercare di contrastare l'ineluttabilità del destino.

Eric Rohmer (pseudonimo di Maurice Schérer) È il più «classico» degli autori ascrivibili alla nouvelle vague, il più attento a cercare la difficile convivenza tra regole del racconto e libertà della macchina da presa. I suoi film dei primi anni Sessanta anticipano temi e forme della produzione posteriore, che si svilupperà con costante regolarità. Il lungometraggio di esordio Il segno del Leone (Le signe du Lion,1959) dimostra ampiamente il suo intento di sondare le possibilità del linguaggio cinematografico: il regista segue il peregrinare del personaggio principale, alle prese con un'eredità casuale persa e poi ritrovata, e ne viene fuori una specie di monologo figurativo, volto a scoprire la città, a osservare dettagli significativi.

I due mediometraggi seguenti, La fornata di Monceau (La boulangère de Monceau, 1962) e La carrière de Suzanne ( La carriera di Susanna, 1963) ribadiscono come per il regista raccontare significhi rimettere assieme e organizzare aspetti e frammenti di vita quotidiana, personaggi comuni, lasciando spazio all'improvvisazione, o all'apparente improvvisazione, della recitazione. Dietro la storia c'è sempre una «lezione» etica, enunciata o più spesso fatta emergere dai fatti e dal loro collegamento, in una sorta di “racconto filosofico”. Nelle narrazioni emerge una dimensione letteraria, restituita specialmente dai dialoghi, ma soprattutto un occhio cinematografico, attento a descrivere Ambienti, a cogliere spazi e ad esplorare la città.