Dante Alighieri L’esilio nel Medioevo.

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Dante Alighieri L’esilio nel Medioevo

L'esilio di Dante inizia con la condanna del 1302, il papa Bonifacio VIII decide di inviare a Firenze Carlo di Valois, fratello del re di Francia, con l’intenzione nascosta di eliminare i guelfi bianchi dalla scena politica; Dante e altri due ambasciatori si recano dal Papa per convincerlo a evitare l’intervento francese, ma è ormai troppo tardi! Dante è già partito da Firenze quando Carlo di Valois entra nella città e sostiene il potere dei guelfi neri: il poeta non ritornerà mai più nella sua città natale, è condannato ingiustamente all’esilio. Per Dante l’esilio rappresenta un momento di sofferenza e di dolore e al tempo stesso uno stimolo per la sua produzione letteraria e poetica: lontano da Firenze può vedere in modo più nitido la corruzione, l’egoismo, l’odio che governano la vita politica, civile e morale dei suoi contemporanei.

CONVIVIO, TRATTATO I, CAP. III La pena dell’esilio CONVIVIO, TRATTATO I, CAP. III

Il III trattato è un elogio alla sapienza, la quale è per Dante la somma perfezione dell'uomo. In questo trattato vengono affrontati argomenti filosofici, argomenti per i quali si era appassionato dopo la morte di Beatrice con la lettura del De consolatione philosophiae di Boezio. L'amore nobile cantato dal sommo poeta nel trattato non è altro che un'allegoria dell'amore per la materia (filosofia). Inoltre viene trattata la canzone "Amor che ne la mente mi ragiona".

De vulgari Eloquientia, trattato I, capitolo VI 1. Quoniam permultis ac diversis ydiomatibus negotium exercitatur humanum, ita quod multi multis non aliter intelligantur verbis quam sine verbis, de ydiomate illo venari nos decet quo vir sine matre, vir sine lacte, qui nec pupillarem etatem nec vidit adultam, creditur usus. 2. In hoc, sicut etiam in multis aliis, Petramala civitas amplissima est, et patria maiori parti filiorum Adam. Nam quicunque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium 8 vulgare licetur, idest maternam locutionem, et per consequens credit ipsum fuisse illud quod fuit Ade. 3. Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus. Et quamvis ad voluptatem nostram sive nostre sensualitatis quietem in terris amenior locus quam Florentia non existat, revolventes et poetarum et aliorum scriptorum volumina quibus mundus universaliter et membratim describitur, ratiocinantesque in nobis situationes varias mundi locorum et eorum habitudinem ad utrunque polum et circulum equatorem, multas esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos. 4. Redeuntes igitur ad propositum, dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse. Dico autem ‘formam’ et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad constructionis prolationem: qua quidem forma omnis lingua loquentium uteretur, nisi culpa presumptionis humane dissipata fuisset, ut inferius ostendetur. 5. Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que ‘turris confusionis’ interpretatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebrei. 6. Hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie frueretur. 7 Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt

Spiegazione Trattato I, capitolo VI “De Vulgari Eloquentia” Tornando dunque all’argomento, affermiamo che insieme 4 con la prima anima fu concreata da Dio una ben determinata «forma» di linguaggio (e col termine «forma» mi riferisco sia ai vocaboli indicanti le cose, sia al costrutto formato con i vocaboli, sia alla formulazione del costrutto. Proprio di questa forma si servirebbe la lingua di ogni parlante, se per colpa dell’umana presunzione essa non fosse stata dispersa, come si mostrerà più avanti. Questa fu la forma del linguaggio parlato da Adamo; questa fu la forma del linguaggio parlato da tutti i suoi discendenti fino all’edificazione della torre di Babele — parola che viene interpretata come «torre della confusione» —; questa fu la forma del linguaggio ereditato dai figli di Eber, che da lui furono chiamati Ebrei. ] Dopo la confusione essa rimase a loro soltanto, perché il nostro Redentore, che secondo la natura umana doveva nascere da loro, si giovasse non della lingua derivata dalla confusione, ma di quella ricevuta come grazia. La lingua che le labbra del primo parlante formarono fu dunque l’ebraico. L’attività dell’uomo si svolge mediante moltissime e diverse lingue, e di conseguenza molte persone parlando non si capiscono meglio che se non usassero parole: ci conviene perciò cercare la lingua che si crede sia stata usata dall’uomo che non ebbe madre, che non prese latte, che non conobbe né l’età minorile, né l’adolescenza. In questa, come pure in molte altre questioni, Pietramala diventa una città grandissima, diventa la patria della maggior parte dei figli di Adamo. Infatti chiunque ha un modo di ragionare così brutto da credere che quello della propria nascita sia il luogo più piacevole esistente sotto il sole, costui stima anche più di tutti gli altri volgari il proprio volgare, cioè la propria lingua materna, e ritiene di conseguenza che sia lo stesso usato da Adamo. Noi invece che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare, noi, che pure prima di mettere i denti abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno e amiamo Firenze tanto da subire ingiustamente l’esilio per averla amata, noi poggiamo le spalle del nostro giudizio sulla ragione piuttosto che sul senso. Certo, in vista del nostro piacere, ossia della quiete del nostro appetito sensitivo, non esiste sulla terra luogo più ameno di Firenze. Noi abbiamo però consultato i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nel suo insieme e nelle sue parti, e abbiamo riflettuto fra noi sulle varie posizioni delle località del mondo e sui rapporti che esse presentano con entrambi i poli e col circolo dell’equatore: abbiamo pertanto compreso, e crediamo fermamente, che vi sono molte regioni e città più nobili e più piacevoli della Toscana e di Firenze, di cui siamo nativi e cittadini, e che molte nazioni e popoli si servono di una lingua più gradevole e utile di quella degli italiani.

All’amico Fiorentino (Epistola 12)    In litteris vestris et reverentia debita et affectione receptis, quam repatriatio mea cure sit vobis et animo, grata mente ac diligenti animadversione concepi; et inde tanto me districtius obligastis, quantum rarium exules invenire amicos contingit. Ad illarum vero significata responsio, etsi non erit qualem forsan pusillanimitas appeteret aliquorum, ut sub examine vestri consilii ante iudicium ventiletur, affectuose deposco. Ecce igitur quod per litteras vestras meique nepotis nec non aliorum quamplurium amicorum, significatum est michi per ordinamentum nuper factum Florentie super absolutione bannitorum quod si solvere vellem certam pecunie quantitatem vellemque pati notam oblationis, et absolvi possem et redire ad presens. In qua quidem duo ridenda et male preconsiliata sunt, pater; dico male preconsiliata per illos qui talia expresserunt, nam vestre lettere discretius et consultius clausulate nichil de talibus continebant. Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Aligherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylosophie domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cuiusdam Cioli et aliorum infamium quasi vinctus ipse se patiatur offerri! Absit a viro predicante iustitiam ut perpessus iniurias, iniuriam inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam sua solvat! Non est hec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam tale Florentia introitur, numquam Florentia introibo. Quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium ymo ignominiosium populo florentineque civitati me reddam? Quippe nec panis deficiet. All’amico Fiorentino (Epistola 12)