L’uomo come essere biologicamente incompleto

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Transcript della presentazione:

L’uomo come essere biologicamente incompleto

L’uomo può essere definito come il primate che emerse in quella determinata fase dell’evoluzione in cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo sviluppo del cervello raggiunse il massimo. Fromm (1973)

Ha pertanto bisogno di stabilire dei nuovi legami affettivi con i suoi compagni, senza i quali soffrirebbe di un forte isolamento e smarrimento. Ha bisogno di rimettere radici (Fromm 1973). L’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte alla soluzione di un eterno problema: il problema di come superare la solitudine e raggiungere l’unione (Fromm 1956).

Un’intera tradizione di pensiero (che parte da J. G Un’intera tradizione di pensiero (che parte da J. G. Herder e giunge fino a Geertz), sostiene che l’uomo è un essere biologicamente incompleto. Per riferirsi a questa caratteristica dell’uomo, oggi si usa anche il termine neotenia, mutuandolo dalla biologia, per riferirsi alla minor specializzazione dell’uomo rispetto ad altri animali e alla conseguente maggior adattabilità ambientale.

L’azione quasi-meccanica dell’istinto animale nell’uomo si allenta: l’istintualità umana non è autosufficiente, tanto che il piccolo dell’uomo ha bisogno di molte più cure e per molto più tempo di tutti gli altri animali. La psicoanalisi di Freud è basata sulla differenza fra la «pulsione» e l’ «istinto». Quest’ultimo allude a qualcosa di interamente predeterminato; la pulsione, pur avendo un sostrato biologico, è più indeterminata, più plasmabile, sublimabile ha bisogno di «oggetti» da «investire» (→ investimento oggettuale). Freud la chiama «libido»: la libido evolve e si struttura lungo il percorso di vita. Freud riconobbe l’esistenza di tappe particolarmente importanti lungo tale percorso, tappe che appartengono ai primi anni di vita (fase orale/anale/genitale)

Erich Fromm distingue le «pulsioni» dalle «passioni»: infatti, a suo parere, anche gli animali hanno «pulsioni» (fame, protezione, sessualità, attaccamento); le «passioni» sono invece tipicamente umane perché rappresentano le risposte al dilemma fondamentale della vita umana: Le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate nei suoi bisogni istintivi, ma nelle specifiche condizioni dell’esistenza umana, nel bisogno di trovare, dopo la perdita della correlazione dello stadio preumano, una nuova correlazione tra l’uomo e la natura (Fromm, 1955)

La differenza risiede nel fatto che l’animale vive le pulsioni come qualcosa che sono tutt’uno con il suo appartenere all’ordine naturale. Invece l’uomo si «stacca» dalla natura: è, sì, ancora parte della natura, ma anche separato: non angelo, non animale.

Tale mancanza di autosufficienza del funzionamento istintuale umano richiede che l’uomo trovi all’esterno – nei rapporti sociali, nella cultura (intesa in senso lato) – una dimensione dove poter trovare dei criteri per risanare la rottura dell’impulso, per sapere come agire e chi è.

La cultura è la seconda natura dell’uomo. (Remotti 2000). La cultura è necessaria, secondo tale concezione, perché l’uomo non è dotato di un corredo istintuale che, al pari di quello degli animali, possa indirizzarlo e guidarlo: egli ha bisogno della cultura per sapere cosa deve fare. Se non riuscisse a mettersi in rapporto con un sistema capace di dare senso alla sua esistenza sarebbe un essere paralizzato (E. Fromm 1941).

Il patrimonio culturale acquisisce uno status oggettivo, costituisce un corpus di valori e conoscenze che dialoga con i meccanismi mentali degli esseri umani, strutturandoli. Ogni volta che un elemento culturale si è prodotto entra a far parte della «cultura»: non viene perso, ma capitalizzato: la cultura arricchisce le possibilità di scelta dell’uomo fornendogli un patrimonio non solo di strumenti mentali e tecnologici, ma anche di significati e di visioni del mondo, che costituiscono una «esternalizzazione” dei loro processi mentali, una ricchezza oggettivamente presente a cui le menti degli individui possono attingere (Wilson- Keil, 1999).

L’interiorizzazione delle attività radicate socialmente e sviluppate storicamente è l’aspetto caratteristico della psicologia umana, il fondamento del salto qualitativo dalla psicologia animale a quella umana. […] I processi psicologici, così come avvengono negli animali, di fatto cessano di esistere; essi sono incorporati in questo sistema di comportamento e sono ricostruiti culturalmente e sviluppati fino a formare una nuova entità psicologica. Vygotskij (1930-1935, p. 88)

l’uomo, quindi, «emerge» dall’indifferenziazione con la natura, diventa individuo, cosciente di sé, e solo: egli vive «in prima persona», non più come parte di un qualcosa, della Natura: egli è «individuato» e non può, neanche da ubriaco, cedere la propria individualità. Questa lo perseguita, come un dono, ma anche come un maleficio e una tortura.

L’uomo è costretto a diventare un «traditore» (Jung): deve tradire i rapporti di appartenenza; e come i traditori, si guarda sempre alle spalle Fromm interpreta la cacciata dal Paradiso terrestre come l’esito di un essere diventato consapevole di sé dell’uomo: egli ha mangiato dall’Albero della conoscenza e da quel momento diventa cosciente di sé, si vergogna della propria nudità e non può più restare nella beata, ma incosciente, appartenenza con tutte cose che si respira nel Paradiso terrestre.

L’uomo diventa inquieto perché, da un lato, non può abbandonarsi e appartenere totalmente, perché ciò gli farebbe perdere il suo essere individuo; dall’altro la sua separatezza gli crea disagio, senso di isolamento, paura. Ecco perché per Fromm la libertà è dono ambiguo che occorre accettare con coraggio: dà all’uomo autonomia, ma gli toglie sicurezza. Fuga dalla libertà (1941) è costruito attorno all’idea che gli uomini, inconsciamente, rinuncino alla libertà e si leghino a feticci o ideologie. → l’ambiguità dell’essere umano è che egli cerca contemporaneamente autonomia e appartenenza

L’uomo inizia a provare nostalgia per la Natura da cui proviene e la percepisce come una Grande Madre avvolgente. Se, come evidenzia Fromm, non vuole «impazzire» per la sensazione di separatezza deve ristabilire dei legami, delle appartenenze.

Ma l’appartenenza va ottenuta senza rinunciare all’individualità e alla separatezza; se appartenesse «troppo», cederebbe nuovamente la sua identità, si rifonderebbe nel tutto, come avviene nelle appartenenze tribali, fusionali, nell’adorazione di un’ideologia ecc.

Questo essere dentro e fuori dalla natura genera quella sensazione di innaturalezza del comportamento umano.

Se amassi i paradossi, potrei affermare che è naturale per l’uomo comportarsi in maniera innaturale. Róheim (1950, p. 498)

Dewey, nel suo Arte come esperienza (cap Dewey, nel suo Arte come esperienza (cap. 1), afferma che l’arte ambisce a ritornare all’istintività animale, all’essere un tutt’uno con l’esperienza che si va compiendo. Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare.

Pirandello affermava che l’uomo è come se avesse la “febbre” Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli danno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre; delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio (Pirandello, L’umorismo, 1908).

L’uomo si annoia e l’animale no O greggia mia che posi […] Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell'anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell'agio, ozioso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)

È nostalgia per un’appartenenza totale. Per G. Róheim, il complesso di Edipo non è un evento innato della psiche, ma un inevitabile processo umano che trova la sua ragion d’essere nel prolungamento della condizione infantile di dipendenza dalla madre. Infatti, il complesso edipico nasce dal conflitto tra la naturale tendenza a crescere ed il desiderio di restare, simbolicamente, nell’utero materno. È nostalgia per un’appartenenza totale. Di tale idee sono anche E. Fromm e C. G. Jung

Ha tuttavia senso parlare di La “simbiosi”, il “narcisismo primario”, la “fase autistica” del neonato su cui hanno insistito molti psicoanalisti oggi sono concetti non più sostenibili dalla moderna scienza psicologico-evolutiva. Ha tuttavia senso parlare di momenti “simbiotici” di fusione fantasticata tra rappresentazioni di sé e rappresentazioni dell’oggetto in situazioni d’intensa attivazione affettiva (Kernberg 2005, pp. 90-91).

→ la ricerca dell’ «oggetto totalmente soddisfacente»

Spiega G. Róheim: L’essere umano vuole crescere ma, contemporaneamente, non tollera “la separazione, sempre prematura, dalla madre” (1950, p 491). La cultura, freudianamente, è per Róheim un tentativo di attingere in maniera sublimata al soddisfacimento pulsionale; ma a tale dimensione se ne aggiunge un’altra, quella che richiama l’uomo al ricordo dei beati momenti dell’onnipotenza infantile e, inevitabilmente, ai connessi sentimenti di solitudine e di perdita: “il grande pericolo contro cui il genere umano ha sviluppato la cultura è la perdita oggettuale, l’essere lasciato solo al buio” (1943, p. 91).

In tale visione concettuale, la natura umana si trova in “una situazione conflittuale fra due tendenze, regressione e maturazione” (p. 511); ciò costituisce l’aspetto “tragico” dell’uomo.

Cedere alla regressione significherebbe rinunciare all’identità, al compito di umanizzazione che ognuno porta con sé; significherebbe ridiventare l’uomo tribale, l’uomo fuso con la Natura, rinunciare alla libertà. → Per Fromm l’alternativa è: produttività o fuga dalla libertà? Accettare la sfida a cui l’essere umano si trova di fronte per progredire verso la costruzione di una dimensione propriamente umana, basata sulla solidarietà e sulla produttività a tutti i livelli (emotivo, cognitivo, artistico ecc.) oppure legarsi a dei feticci, regredire verso forme simbiotiche di appartenenza?

L’uomo deve ‘inventare’ la sua umanità, deve escogitarla e crearla dal nulla; nascendo si assume l’onere di ‘diventare’ umano. Scrive Francesco Remotti. Diventare umani è un compito a cui gli esseri umani non possono sottrarsi: l’umanità non è data e garantita biologicamente: esige invece di essere costruita culturalmente. Essa non è un presupposto, se non in minima parte: è invece un telos, una meta, un qualcosa che va cercato (e non è detto che venga raggiunto): più radicalmente un qualcosa che va inventato (Remotti 2000).

Jung parla in tal senso di processo di individuazione per significare il mai concluso percorso dell’uomo verso una maggiore individuazione ↓ l’uomo non deve assumere acriticamente i valori della cultura, della comunità di appartenenza, ma distaccarsene e diventare «individuo» Carl Gustav Jung (1875-1961), fu allievo di Sigmund Freud. Destinato a succedergli nella direzione della società psicoanalitica, elaborò dagli anni ‘10 una propria visione della psicodinamica dell’essere umano, basata non su una spinta pulsionale di carattere sessuale, ma su un’energia che conduce l’uomo verso livelli via via più elevati di integrazione e ampiezza psichica e spirituale (processo di individuazione). L’uomo di Freud si può capire guardando al «da dove»; quello di Jung al «verso dove»

Anche le potenzialità della natura umana – che per Jung giacciono nell’inconscio collettivo, dimensione transpersonale abitata da archetipi (percorsi universali della psiche a forte valenza emotiva) – non possono essere vissute «impersonalmente», ma «personalmente», incluse in un «progetto» personale (individuazione), necessariamente problematizzate. → il processo di individuazione conduce l’uomo, allora, ad emergere dall’inconscio per conquistare il proprio Sé.

Tale emergere si configura, in Jung, come un assumere e integrare a livello cosciente quei contenuti mentali che appartengono alla dimensione inconscia universale, nella quale sono presenti i simboli condivisi da tutti gli uomini, che per Jung sono gli archetipi. L’uomo «individuato» è un uomo «onnilaterale», per usare un termine di Marx

All’inizio l’uomo esiste in quanto parte di una collettività, di una appartenenza tribale, è «tutt’uno con» Levy-Bruhl: partecipation mistique: stato originario di incoscienza e quindi di indifferenziazione (Jung 1928, p. 125) → all’inizio l’uomo ha una sola identità, ovvero quella data dall’inconscio collettivo.

Il percorso dell’uomo consiste nell’affrancarsi da questa appartenenza universale, acquisendo una propria personalità separata e autonoma. Se rinuncia a questo percorso, resta in balia degli archetipi: diventa come l’ubriaco che non riesce a vincere il vizio dell’alcool, come il giocatore che si brucia con la sua stessa passione, l‘ammalato di potere che distrugge le relazioni della propria vita…

Infatti, per Jung i contenuti della psiche collettiva (gli archetipi) hanno natura bivalente: bene/male, forza/debolezza, calma/imprudenza ecc. Questi entrano in contraddizione quando inizia lo sviluppo personale della psiche (Jung 1929, tr. it. p. 56): l’animale non si rende conto della sua bontà o della sua cattiveria: agisce questi sentimenti e basta! L’uomo, che diventa consapevole di sé, sa cos’è il bene e cos’è il male.

Albero della Conoscenza del Bene e del Male Lucas Cranach detto il Vecchio (1472 –1553)

Una società che impedisca l’emergere dell’individualità espone l’individuo al rischio della rimozione dell’individualità nell’inconscio, che da lì agisce come tendenza alla distruttività e all’anarchia. Il primitivo inizia la separazione dal collettivo creando attorno a sé un involucro che può essere definito Persona. In realtà l’attribuzione della Persona è un processo collettivo, in quanto il collettivo aveva bisogno di questa figura → La Persona è un’individualità apparente: in realtà è un ritaglio nel collettivo avvenuto in virtù di certe condizioni (si fa un certo lavoro, si occupa un certo posto, …). La Persona, in definitiva, non è nulla di reale.

L’individuo che si sottrae al proprio percorso di individuazione diventerà più meschino, limitato, più razionalista di prima. …non si può dire che questo risultato debba forzatamente essere una sciagura per tutti gli uomini, perché ve ne sono fin troppi che per la loro notoria inettitudine prosperano meglio in un sistema razionalistico che nella libertà. Quest’ultima è una delle cose più difficili (Jung 1929, p. 76)

Il mito dell’eroe Colui che ha il coraggio di intraprendere il proprio percorso di individuazione è un Eroe che intraprende un viaggio che lo allontana dall’Appartenenza primitiva, simbolizzata dalla Grande Madre. La Grande Madre è il simbolo dell’origine, del grembo materno e dell’inconscio che contiene in sé gli opposti. Esistere, all’interno della Grande Madre, significa esistere pigramente nell’inconscio (Neumann 1949, p. 35), in una dimensione in cui prevale l’inerzia e la volontà di restare nell’inconscio.

Ma, come si è visto, Jung riteneva che esistesse anche una forza altrettanto potente quanto quella che lega l’individuo al grembo materno, ovvero la spinta ad individuarsi, ad emergere dal tutto indistinto dell’inconscio. ↓ Quando l’Eroe assume la decisione di separarsi dalla Grande madre per individuarsi, egli avvertirà ciò che abbandona con una grande nostalgia, come le sirene che richiamano Ulisse con un canto di sovrumana dolcezza. In più, l’eroe è solo, impaurito, si sente piccolo e inerme…

Ma non appena decidesse di cedere alle lusinghe della Grande Madre, questa gli mostrerà il suo lato terribile e divoratore, che riaccoglie a sé i suoi figli ma a patto di distruggerli. → La Grande Madre è anche la Grande Madre Terribile che vuole ringhiottirsi il nascente Io, la balena che inghiotte Giona. Così, Ulisse si lega per bene all’albero della nave.

La distruttrice dea Kali

Il percorso di individuazione ci fa affrontare: la nostra Ombra, ovvero gli aspetti “peggiori” della nostra personalità che abbiamo rimosso nell’inconscio personale; La nostra Anima/Animus, che da potenze estranee alla nostra coscienza debbono diventare delle funzioni psichiche; Il Vecchio Saggio/la Grande Madre (rispettivamente per i maschi e per le femmine), che rappresentano la ricchezza del mondo inconscio; Infine incontriamo il Sé, che è la tappa finale del percorso di individuazione, che rappresenta la grande conciliazione degli opposti.

Mandala (simbolo del Sé)

Funzione trascendente: è l’unione degli opposti, che consente di conseguire una coscienza più elevata.

Vi è una costante circolarità fra bisogni di individuazione e bisogni di appartenenza: Si va per il mondo ma poi si torna a casa; la nostra società molto «individualizzata» nutre un «sogno di appartenenza» (Baumann); Se gli altri non ci capiscono si prende un cane che lui, sì, ci ama e ci capisce; Si litiga con il compagno/a e poi si fa la pace; …

L’uomo ha bisogno sia di individuarsi (realizzare i propri scopi, i propri impulsi, prendersi le proprie soddisfazioni) sia di appartenere: individuandosi si esiste in quanto di realizzano scopi; appartenendo si esiste e basta, in un sacro silenzio; l’individuazione ha a che fare con la soddisfazione, è il versante «maschile»; l’appartenenza ha a che fare con il rilassamento ed è il versante «femminile» «Femminile» e «maschile» sono «funzioni» e non un’esclusiva appartenenza di donne o uomini

Ai suoi occhi adesso la vita appariva come un’ombra, il giorno come un’ombra bianca. La notte, la morte, l’inazione, il silenzio: questo era “essere”. La vitalità, l’irrequietudine, il desiderio: questo era “non essere”. E il sommo di tutto era appunto quello sciogliersi nel buio, identificandosi nell’essere Supremo […] Forse è questa la morte: addormentarsi nello stupore […] Potersi liberare dalla propria individualità, di quelli che sono i nostri sforzi, la nostra volontà! Vivere così, abbandonati a questa specie di sonno cosciente! Dev’essere molto bello. Sarà questa l’altra nostra vita, la nostra immortalità. D.H. Lawrence (Figli e amanti)

L’individuazione comporta una crescita costante e non è mai completa: ogni essere umano ha il compito di rimetterla in discussione e allargare il proprio sguardo, includendo nuovi aspetti dell’essenza umana, fin quando non avrà compreso tutte le potenzialità umane, realizzando così una sorta di appartenenza ideale con il genere umano, non scartando niente di ciò che è umano.

Sono uomo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo. (Publio Terenzio Afro, 195 a.C. – 159 a.C., commediografo latino)

…in qualsiasi cultura, l’uomo ha tutte le potenzialità; egli è, nel contempo, l’uomo dei primordi, l’animale del sacrificio, il cannibale, l’idolatra, e un essere dotato di disponibilità per la ragione, l’amore e la giustizia. Ma allora il contenuto dell’inconscio non è né il bene, né il male, né il razionale, né l’irrazionale: è tutte queste cose insieme; è quella parte dell’uomo che corrisponde alla società di cui fa parte. La coscienza rappresenta l’uomo sociale, le limitazioni contingenti poste dalla situazione storica, in cui un individuo è gettato. La non-coscienza rappresenta l’uomo universale, l’uomo per intero, radicato nel cosmo; essa rappresenta, nel contempo, la sua parte vegetativa, animale e spirituale; ne rappresenta infine il passato sino agli albori dell’esistenza umana e il futuro sino al giorno in cui l’uomo diverrà pienamente umano e in cui la natura sarà umanizzata nella misura in cui l’uomo a sua volta risulterà «naturalizzato». Erich Fromm (1960, p. 113)

http://fidest.wordpress.com/tag/radici/ Perché dunque ti spaventi? Agli uomini accade ciò che accade all’albero. Quanto più in alto e più nella luce vuole ascendere, con tanta più forza le sue radici si spingono dentro la terra, verso il basso, nel buio, bel profondo, - nel male. Nietzsche (Così parlò Zarathustra)

conscio crescita, formazione inconscio

T.S. Eliot, East Coker (da: Quattro Quartetti) […] La casa è il punto da cui si parte. Man mano che invecchiamo Il mondo diventa più strano, la trama più complicata Di morti e di vivi. Non il momento intenso Isolato, senza prima né poi, Ma tutta una vita che brucia in ogni momento E non la vita di un uomo soltanto Ma di vecchie pietre che non si possono decifrare

C’è un tempo per la sera a ciel sereno Un tempo per la sera al paralume (La sera che si passa coll’album delle fotografie). L’amore si avvicina più a se stesso Quando il luogo e l’ora non importano più. I vecchi dovrebbero essere esploratori Il luogo e l’ora non importano Noi dobbiamo muovere senza fine Verso un’altra intensità Per un’unione più completa, comunione più profonda Attraverso il buio, il freddo, la vuota desolazione, il grido dell’onda, il grido del vento, la distesa d’acqua Della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio

Donald Winnicott Vero Sé, creatività e sviluppo del soggetto (Playmouth 1896 – Londra 1971) Vero Sé, creatività e sviluppo del soggetto

Winnicott utilizza il concetto di Vero Sé non rifacendosi ad una concezione metafisica o a una teoria dell’anima (pur non essendo concetti che si escludono!) → il concetto di Vero Sé contiene un’idea di per sé evidente, cioè che l’individuo è agente, intenzionale: il Vero Sé è la spontaneità originaria del soggetto.

Il Vero Sé contiene il senso del Sé, la certezza di esistere e di essere reali, di poter essere se stessi, creativi e spontanei; ad esso appartiene la percezione di una continuità della propria esistenza. al centro di ciascuna persona, c’è un elemento segregato, e questo è sacro ed estremamente degno di essere preservato (Winnicott).

Per Winnicott rappresenta quindi la creatività originaria del soggetto.  La creatività corrisponde al naturale senso di espansione di sé che si sperimenta in quanto si è vivi. Quando siamo creativi ogni cosa che facciamo aumenta il senso di essere noi stessi (Winnicott 1970). Senza questo piano, per W., non c’è nulla. Felice è colui che è sempre creativo nella sua vita personale come pure nei rapporti con i partner, con i figli, con gli amici ecc. (1970, tr. it. 1986, p. 41)

Essere creativi significa essere “soggetti” a pieno titolo Essere creativi significa essere “soggetti” a pieno titolo. Essere soggetti significa esistere anche indipendentemente dallo stimolo esterno. Se il nostro sentirci vivi dipendesse esclusivamente da stimoli esterni, cessato lo stimolo cesserebbe anche la sensazione di sentirsi vivi.  L’essere creativi di cui parla Winnicott allude proprio al sentirsi vivi anche quando non c’è lo stimolo che proviene dal mondo esterno.

“Fuori dalla mia finestra c’è una pianta, e il sole, e razionalmente so che deve essere uno spettacolo piacevole, per chi lo può vedere. Ma questa mattina per me tutto ciò non ha senso. Non riesco ad esserne partecipe e ciò mi rende profondamente conscio del fatto di non sentirmi reale” (Winnicott 1970).

Il mondo. questo grosso essere assurdo. [ Il mondo... questo grosso essere assurdo. [...] Scoprire che il mondo non ha senso, che è assurdo, provoca la nausea. [...] L'essenziale è la contingenza [= la non necessità delle cose]. Voglio dire che, per definizione, l'esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C'è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c'è alcun essere necessario che può spiegare l'esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un'apparenza che si può dissipare; è l'assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare... ecco la Nausea [...] La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt'uno col caffè, son io che sono in essa [...] Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste - ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi é indifferente. E' strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: é una cosa che mi mette paura. E' cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è allora che è cominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. (Sartre, La Nausea)

La creatività riguarda l’ “essere” sé stessi, e viene prima del “fare”.

Laddove il vero Sé sia stato traumatizzato, esso non deve più essere ritrovato e ferito di nuovo. Si sviluppa un falso Sé a difesa del vero Sé. Questo falso Sé può funzionare perfettamente, eppure sta all’opposto della salute psichica perché sorge dalla negazione del vero Sé.

Cos’è la salute mentale? La salute non è sinonimo di tranquillità. La vita di un individuo sano è caratterizzata da paure, sentimenti conflittuali, dubbi e frustrazioni, come pure da elementi positivi. La cosa fondamentale è che si senta di stare vivendo la propria vita, assumendosi le responsabilità di quanto si fa, il merito del successo e la colpa del fallimento. In tal caso si può dire che l’individuo è passato dalla dipendenza all’autonomia.

Essere e sentirsi reali sono le caratteristiche della salute Essere e sentirsi reali sono le caratteristiche della salute. Soltanto quando l’essere è acquisito (cioè quando sentiamo di essere noi stessi) possiamo procedere verso altre mete. Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi reali. Ma a quale prezzo? In quale misura essi negano la verità che di fatto esiste il pericolo di sentirsi non reali, posseduti, di non essere se stessi, di precipitare all’infinito, di non avere una direzione, di essere separati dal proprio corpo, annientati, di essere un nulla, di non avere un luogo in cui stare… (D. Winnicott, Il concetto di individuo sano)

Lo sviluppo della creatività: fra onnipotenza e principio di realtà La vita creativa che corrisponde alla possibilità di non essere continuamente uccisi o annientati dalla compiacenza verso o dalla reazione a un mondo che fa violenza all’individuo; si tratta di riuscire a vedere ogni cosa in modo sempre nuovo. L’esperienza dell’onnipotenza è qualcosa di più di un controllo magico, ma include l’aspetto creativo dell’esperienza (Winnicott 1963)

Le fotografie dei grandi cacciatori che, come H Le fotografie dei grandi cacciatori che, come H. Hemingway, si fanno immortalare di fianco a un leone massacrato, ci danno un’idea degli sforzi estremi che un essere umano può compiere nel tentativo di trionfare sull’oggetto percepito oggettivamente (Winnicott)

Essere creativi significa, afferma Winnicott, “mantenere qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare il mondo”.  in ogni atto creativo c’è sempre una porzione di “onnipotenza”

Ma l’essere creativi implica incontrare il mondo, la realtà esterna.

Inizialmente è la madre che si adatta ai bisogni del bambino per consentire che egli compia esperienze che sono coerenti con i suoi stati mentali. La madre, con la sua capacità empatica è capace di dare qualcosa di buono al bambino che, al suo livello, può solo fantasticare e “allucinare” degli oggetti: il bambino è solo con le sue illusioni, la madre conosce la realtà e può far sì che la fantasia del piccolo si connetta con la realtà. Ella, infatti, basandosi sulla sua intuizione, può fornire al bambino quegli oggetti che egli sta allucinando.

Winnicott parla a tale proposito di “presentazione d’oggetto”. Dobbiamo supporre che il bambino abbia dei guizzi creativi in base ai quali cerca il contatto con la realtà; non essendo “organizzato” non riesce a contattare il mondo. Allora la madre, intuendo le volontà nascenti del piccolo, gli fornisce quegli oggetti che il bambino sta “allucinando”. Il bambino, cioè, è solo con le sue fantasie, la madre conosce la realtà e può far sì che la fantasia del piccolo si connetta con la realtà. Ella, infatti, basandosi sulla sua intuizione, può fornire al bambino quegli oggetti che egli sta allucinando.

L’esperienza del piccolo risulterà arricchita di elementi reali ed egli stesso inizierà a sentirsi reale. Il suo essere e sentirsi reale, che sta alla base della salute psichica, dipende dunque dal fatto che le connaturali tendenze alla crescita e all’espansione del suo Sé hanno trovato un ambiente favorevole e degli oggetti che corrispondevano alle sue fantasie.

Più in generale, la madre, insomma, supporta l’Io del bambino: calandosi al suo livello, gli consente di credere che le esperienze che compie possano trovare un corrispettivo nella realtà esterna, protegge l’Io del bambino e supporta l’evoluzione della sua identità (”preoccupazione materna primaria”).  L’ “essere” viene garantito al bambino dalla madre.

Approfondimento: l’aggressività e «l’uso di un oggetto» L’aggressività è un modo per esteriorizzare l’altro troppo intimo: per separarci dobbiamo aggredirlo! Finché non acquisiamo la capacità di usare le persone («oggetti») restiamo loro legati nella maniera della dipendenza totale. Siamo tutt’uno con loro, non sono esterne, sono parte del Sé: il nostro Sé dipende ancora da loro. Non abbiamo raggiunto la capacità di amare. Per amare qualcuno, questo qualcuno deve essere altro da noi! …non è possibile per me accettare come scontato il fatto che il primo impulso, nel rapporto del soggetto con l’oggetto (percepito oggettivamente, non come soggettivo), sia distruttivo ((Winnicott, 1971)

L’oggetto transizionale L’oggetto transizionale consente di mantenere interrelate due aree altrimenti separate, quella della realtà interna e quella della realtà esterna. L’oggetto transizionale compare tra i quattro e i dodici mesi. Il bambino ha bisogno di investire un oggetto del potere transizionale, tali che rappresentino un ponte tra la realtà interna e quella esterna. Si colloca tra la “creatività primaria e la percezione obiettiva basata sull’esame di realtà”. Anche se non tutti i bambini vi fanno ricorso, la presenza dell’oggetto transizionale è un indice sicuro di una potenziale capacità di elaborare l’onnipotenza e la separazione.

L’oggetto transizionale viene quindi progressivamente dimenticato. Può rimanere nell’adulto nella consapevolezza di mantenere un “luogo di riposo”, ove lasciar fluttuare la mente e giocare con le proprie idee. Oppure come spazio del gioco, della creatività, del sentimento religioso, ma anche della perdita del sentimento affettuoso, dell’assuefazione alla droga, dei rituali ossessivi. W. distingue a tal proposito l’oggetto transizionale dall’oggetto feticcio o oggetto tossico. Quest’ultimo mantiene il soggetto in uno stato di continua dipendenza, distoglie da sé e dalla realtà esterna.

Comunicare o non comunicare? (Winnicott 1963) Nell’ambito della salute esiste un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sé. Ritengo che tale nucleo non comunichi mai direttamente con il mondo degli oggetti percepiti e che l’individuo sappia che questo nucleo non deve entrare in comunicazione con la realtà esterna né venirne influenzato. Sebbene le persone sane comunichino e amino comunicare, è anche vero che ogni individuo è un essere isolato che non comunica in modo permanente, in permanenza sconosciuto e mai realmente scoperto. […] Al centro di ogni persona c’è un elemento incomunicabile, inviolabile, che è sacro e va preservato. Le esperienze traumatiche, che portano all’organizzazione delle difese primitive, rappresentano una minaccia al nucleo isolato, la minaccia che venga scoperto, modificato e che ci si metta con esso in contatto. La difesa consiste in un ulteriore occultamento del Sé nascosto… Essere stuprati o essere mangiati dai cannibali sono cose di poco conto rispetto alla violazione del nucleo del Sé mediante la comunicazione che si insinua attraverso le difese. …possiamo capire l’odio che la gente ha verso la psicoanalisi, la quale è penetrata assai nella personalità umana e costituisce una minaccia per il bisogno che l’individuo ha di restare segreto e isolato. Il problema è: come isolarsi senza doversi circondare di barriere?

Credo che, inerente in ogni tipo di artista, si possa scoprire un dilemma dovuto alla coesistenza di due tendenze: il bisogno urgente ricomunicare e il bisogno ancora più urgente di non essere scoperto. Ciò potrebbe spiegare la nostra impossibilità a concepire un artista che arrivi alla fine del compito che impegna totalmente la sua natura. (Winnicott 1963)

Forse non è stata data abbastanza attenzione al fatto che il mistico si ritira in una posizione in cui può comunicare segretamente con oggetti e fenomeni soggettivi, poiché la perdita di contatto col mondo della realtà condivisa è compensata da un vantaggio nel sentirsi reale (Winnicott 1963).

Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde provano perfino odio per l’immagine e il simbolo […]. Esistono fatti così delicati che si fa bene a coprirli e a renderli irriconoscibili sotto una grossolanità; esistono atti d’amore e di traboccante generosità, in seguito ai quali non c’è nulla di più consigliabile di prendere un bastone e picchiare di santa ragione il testimone oculare: e con ciò offuscare la sua memoria […] il pudore è ingegnoso. Non sono le cose peggiore quelle di cui ci si vergogna di più (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 40). Ogni profondo pensatore teme più l’essere compreso che l’essere frainteso (F. Nietzsche, idem, 290).

La parte principale della vita degli adulti, degli adolescenti, dei bambini e dei lattanti si svolge all’interno di quest’area intermedia, a metà strada fra soggettività e oggettività, fra sogno e realtà. La stessa civiltà può essere descritta a partire da questa visuale, dice Winnicott (1970). Nei fenomeni transizionali occorre accettare il paradosso ce collega la realtà interna a quella esterna. Non chiediamo mai dell’orsacchiotto del bambino (che è un simbolo della disponibilità materna) se è stato creato o se era già lì.

Negli adulti l’area transizionale è l’area degli interessi culturali, lavorativi, religiosi, politici, artistici ecc. Tutto è «transizionale» in quanto «abitiamo» la realtà non passivamente, subendola, ma in modo attivo, tentando di comprenderla dal nostro punto di vista: non ci sono «cose», ma le cose come sono per noi, pur restando che le cose qualcosa di reale, di altro da noi, non costruzioni soggettive.

Ad esempio, chi crea utilizza la propria spontaneità originaria, il proprio peculiare punto di vista, la propria prospettiva per «vedere» qualcosa dal proprio punto di vista; contemporaneamente si «connette» con la realtà: la creazione è, così, un qualcosa di «oggettivo-soggettivo» Anche l’umorismo può essere visto come un fenomeno transizionale in quanto chi ride si distacca per un attimo dal dato oggettivo e lo rilegge secondo la propria prospettiva; c’è un guizzo di onnipotenza nell’umorismo, un qualcosa di «antidepressivo», in quanto chi fa umorismo non accetta di essere passivo: pur stando dentro la realtà, la assume in modo soggettivo, la sovrasta e la sorpassa, pur stando dentro la realtà.

L’umorismo di Einstein che fa la linguaccia è il simbolo della libertà del creare, il richiamo ad esercitare la propria «onnipotente» prospettiva soggettiva, con libertà, ma anche con serietà, tendendo dell’ «oggettività» della realtà.

«Formarsi», nella prospettiva di Winnicott, significa modificare il proprio Sé adeguandolo alla realtà ma continuando a essere sé stessi. È abitare lo spazio «tra» soggettivo-oggettivo, uno spazio che Winnicott definisce appunto transizionale, di costante passaggio e dialogo fra le due dimensioni

Anche per Wilfred Bion è possibile «formarsi» apprendendo dall’esperienza. Così come per Keats al centro dell’imparare c’era il «cuore umano», per Bion è possibile apprendere se si riescono a sperimentare e trasformare le proprie autentiche emozioni. → Formarsi, per Bion, deriva dalla capacità di modificare i propri sentimenti senza sbarazzarsene