Questione della lingua da Dante a Manzoni

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Transcript della presentazione:

Questione della lingua da Dante a Manzoni Armando Rotondi Letteratura Italiana Università di Napoli “L’Orientale” a.a. 2014-2015

La lingua è un’istituzione sociale e perciò artificiale È legata al patrimonio collettivo e pertanto non è modificabile da parte del singolo Sistema coordinato di segni e quindi governata da un codice La parola, prerogativa dell’uomo, essendo la prima istituzione sociale, nasce e si modifica per cause naturali La lingua è strumento collettivo di comunicazione verbale Linguaggio è strumento individuale Il linguaggio è il pensiero nel suo farsi e nel suo esprimersi

Wittgenstein: lingua come città, dedalo di piazze e strade Wittgenstein: lingua come città, dedalo di piazze e strade. Lingua come le città in continua trasformazione. Lingua quindi come fenomeno dinamico.

Linea Jireček

Interpretazione riduttiva della questione della lingua, considerata come un dibattito sulle varie denominazionifiorentino, toscano, lingua comune o italiano, cioè equiparata a un’oziosa disputa nominalistica, si può ricordare il parere di Antonio Gramsci: “Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (Quaderni del carcere, Quaderno 29, 3)

Gramsci, in questa riflessione, si riferiva soprattutto alle tesi di Alessandro Manzoni, che collegava al dibattito della prima metà del Novecento. Affermava inoltre che il De vulgari eloquentia di Dante era da intendere come un atto di politica culturale-nazionale (pur nel senso che la parola nazionale aveva al tempo di Dante), e che «un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la quistione della lingua’che da questo punto di vista diventa interessante da studiare». Essa, nell’interpretazione di Gramsci, era consistita nella «reazione degli intellettuali allo sfacelo dell’unità politica» e «alla disintegrazione delle classi economiche e politiche», al fine di «conservare e anzi rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento)».

Il lungo dibattito attorno alla norma e all’identità dell’italiano, quale si è concretizzato nella trattatistica, da Dante in poi (in questa forma la materia è stata trattata in Vitale 1978, che è il riferimento specifico più autorevole; si veda anche Marazzini 2009) su temi quali: i destini dell’italiano, i suoi caratteri costitutivi, il suo ruolo di lingua ufficiale o nazionale, la lingua nella scuola, i rapporti con i dialetti, con le lingue di minoranza o con le lingue straniere. Le relazioni tra italiano e fiorentino La definizione della norma linguistica (anche le questioni di grafia e i tentativi di riforma ortografica; ortografia) La distanza maggiore o minore che si vuole interporre tra scritto e parlato (lingua parlata; lingua scritta) L’uso della lingua antica o la preferenza per la modernità L’adozione o il rifiuto di novità lessicali Il rapporto tra uso letterario e uso corrente della lingua (➔ storia della lingua).

La questione della lingua non è esclusiva dell’Italia. Francia: nel Cinquecento il tentativo di vantare la (supposta) vicinanza del francese al greco, dove l’Académie française assunse la funzione di istituto garante e custode della lingua, Grecia: la questione della lingua si è sviluppata nel confronto tra la katharèvousa, la lingua «pura», arcaica, simile al greco antico, e la lingua popolare, la dimotikì, esito normale della koinè ellenistica. Lo scontro tra i fautori delle due diverse soluzioni è stato talora molto forte, fino al prevalere della lingua popolare, per decisione politica, nel 1976, al momento della proclamazione della nuova Repubblica.

Dante Data di inizio, può esser giudicato discutibile l’inserimento nella questione della lingua delle teorie di Dante esposte nel De vulgari eloquentia, non per la pertinenza dei contenuti, innegabile, ma per la semplice ragione che l’opera non suscitò un dibattito, in quanto non risulta abbia avuto interlocutori, almeno fino al XVI secolo. Illustre perché illumina i dotti che lo adoperano e a sua volta è illuminato dalle loro opere (illustrare in latino significava anche "illuminare", "dare luce"), ma qui può anche voler dire "purificare" (da lustrum), cioè "muovere gli animi", secondo la metafisica neoplatonica della luce; insomma "illustre" perché raffinato dai rozzi vocaboli, accenti e costruzioni dei volgari municipali, nonché reso chiaro, perfetto e di urbana finezza. Cardinale perché è il punto di riferimento di tutta la famiglia dei volgari italiani (come la porta gira intorno al cardine, così i volgari italiani girano intorno al volgare illustre); un volgare è "cardinale" anche quando a livello locale gli girano attorno le minori parlate locali, i volgari municipali. Aulico perché, se in Italia ci fosse una corte regale (detta in latino aula) esso sarebbe il volgare parlato nel Palazzo; Curiale perché adatto all'uso di un'assemblea legislativa o senato o tribunale, quell'insieme di funzionari che lavorano sotto la guida di un Principe; curiale perché proprio della "curia" italiana, cioè di quella comunità spirituale e civile, politicamente dispersa nelle sue membra, ma idealmente unita per ingegno culturale; “curiale” anche in quanto norma e misura di ogni locuzione, quindi "razionale".

Dante Dante individua 14 dialetti (7 a destra e 7 a sinistra degli Appennini) Alcuni sono vivamente criticati (come il friulano, il milanese o il romanesco e lo stesso fiorentino di poeti come Bonagiunta e Guittone, rimasti troppo "municipali"). Altri giudicati più positivamente (come il siciliano dei poeti federiciani e il bolognese del Guinizelli, che sono riusciti ad allontanare, con scelte linguistiche raffinate, la lingua poetica dal parlato dialettale). Nessuno dei 14 dialetti è tuttavia ritenuto degno di incarnare il volgare illustre, cardinale, aulico e curiale ricercato, che può essere elaborato solo nell'ambito di un "corte ideale" nella quale si uniscano idealmente tutti i letterati italiani, portando i contributi migliori dal loro singolo dialetto.

Bembo Le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, pubblicate nel 1525, sono il libro in cui meglio si valuta il confronto fra le diverse teorie linguistiche che allora si fronteggiavano. La discussione sulla ‘lingua migliore’ aveva investito in precedenza il latino, e ciò costituisce una fondamentale premessa. Già nel Quattrocento, Paolo Cortese aveva avuto una disputa con il Poliziano, fautore di un modello stilistico eclettico che attingeva ad autori latini di varie epoche. Cortese, per contro, fissò alcuni punti della teoria dell’imitazione dello stile ciceroniano. Pietro Bembo, prima di essere protagonista della questione della lingua per l’italiano, discusse con Giovanni Pico della Mirandola sul modello da adottare per la lingua latina. Pico, allievo del Poliziano, era sostenitore di uno stile eclettico. Bembo, per contro, indicava due modelli a cui attenersi in maniera sostanziale, se non proprio esclusiva: Cicerone e Virgilio, l’uno per la prosa, l’altro per la poesia.

Bembo In riferimento alla lingua latina, la cosiddetta teoria dell’imitazione, poi applicata da Bembo al volgare. Indica come modelli Francesco Petrarca per la poesia e Giovanni Boccaccio per la prosa. Al terzo modello, cioè a Dante, Bembo rimproverava l’uso di un lessico basso, ovvero la caduta stilistica, che in Petrarca non si era verificata mai. Anche Boccaccio aveva adoperato, in certe parti del Decameron (per es. quelle dialogiche) un linguaggio meno elevato, ma Bembo invitava a considerare non i passi in cui c’era il rischio della mimesi di parlato, ma quelli in cui lo stile era più alto, come la cornice della raccolta. Inoltre ammetteva che la prosa potesse tollerare la varietà linguistica meglio della poesia.

Bembo Indubitabile è la propensione di Bembo per quello che oggi definiremmo il monolinguismo petrarchesco Concezione classicistica e arcaicizzante della lingua, contraria a ogni contaminazione col parlato e l’espressività popolare. Di fronte all’obiezione che in questo modo, staccandosi dalla contemporaneità e facendo riferimento al Trecento, si rischiava di parlare la «lingua dei morti», Bembo rispondeva che parlava con i morti chi si affidava alla lingua contemporanea, di per sé effimera, mentre la perfezione dei modelli antichi garantiva la comunicazione con i posteri, cioè la lunga durata temporale. Parlare, in questa accezione, significava trasmettere un messaggio letterario, secondo una rigida e austera concezione classicistica della lingua, per la quale la letteratura ‘alta’ è l’unico momento che meriti davvero attenzione e rispetto. Questa è la sostanza più profonda della teoria arcaicizzante di Bembo, fondata sul primato dell’imitazione del canone trecentesco delle Tre Corone. Nelle Prose venivano passate accuratamente in rassegna tutte le teorie linguistiche dell’epoca, per quanto con spirito di parte, allo scopo di far emergere come vincente la tesi fiorentinista arcaicizzante nella quale l’autore riponeva la massima fiducia. Le teorie con le quali si misurava erano tre: (a) quella della superiorità del latino; (b) quella detta cortigiana; (c) la fiorentinista o toscanista dell’uso vivente.

Giangiorgio Trissino, Il Castellano (1529) e Baldassar Castiglione, Il Cortegiano (1528): Ripresa parziale della proposta dantesca. Ricerca di una lingua per l'uomo di corte del tempo, lontana dal fiorentinismo letterario del Bembo. Proposta di una lingua mista, mélange delle lingue parlate nelle corti italiane del tempo. Niccolò Machiavelli, Discorso della nostra lingua (1524?); Pier Francesco Giambullari, De la lingua che si parla et scrive a Firenze (ca. 1552): Posizione "fiorentinista": si afferma la supremazia della lingua fiorentina dell'uso vivo delle persone colte del tempo contro la proposta arcaizzante del Bembo.

Accademia della Crusca La Crusca, con l’autorevole vocabolario del 1612, ristampato due volte nel XVII secolo e un’altra nel XVIII (lessicografia), invertì la tendenza: Firenze riebbe la piena autorità normativa; a conferma di ciò, vediamo realizzata a Firenze nel XVII secolo una delle più complete grammatiche, quella di Benedetto Buonmattei. La questione della lingua, dopo la pubblicazione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, finì per gravitare essenzialmente attorno al dibattito pro o contro il vocabolario. L’autorità di Firenze fu in sostanza la questione principale su cui si discusse di lì in poi. Lo si fece non solo contrapponendo al fiorentinismo le posizioni italianiste o cortigiane, sovente collegate al ricordo delle varietà del greco antico, ma talora anche avversando il primato fiorentino in nome di un più generico toscanismo, o vantando i meriti di un’altra città toscana, Siena. Con il passare del tempo, le posizioni della Crusca apparvero via via più anacronistiche, senza che tuttavia si allestissero strumenti normativi diversi. Il Vocabolario della Crusca, con il suo rigido fiorentinismo e la sua impostazione arcaicizzante, continuò a fare testo, seppure ampliato nelle successive edizioni. Nessuno riuscì a rimpiazzarlo, anche quando il nizzardo Alberti di Villanova stampò tra il 1797 e il 1805 un dizionario ideato con spirito illuministico, attento alla terminologia delle arti e dei mestieri ben più di quanto fosse stata la Crusca, la quale aveva sempre voluto tenersi distante dal rischio del cosiddetto nomenclatore, come chiamava il repertorio del lessico tecnico. La rivoluzione, o meglio la liberazione dai canoni cruscanti, non poté dirsi allora compiuta. Ad Alberti fu impedito di dare alle stampe la sua opera a Firenze, come avrebbe voluto: dovette ripiegare su Lucca. Inoltre Alberti aveva certamente arricchito il vocabolario, ma la base restava pur sempre il repertorio della Crusca.

Nel dibattito teorico, molti illuministi furono particolarmente aggressivi verso la Crusca Carlo Denina (che aveva finito per voltare le spalle alla lingua italiana), così i redattori della rivista milanese «Il Caffè», e in particolare Alessandro Verri, autore di una provocatoria e sarcastica Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca. Ma la migliore, più completa e più meditata presa di posizione settecentesca nella questione della lingua, estranea al radicalismo un po’ superficiale di Verri, è senz’altro quella di Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue, che si conclude con la proposta di un Consiglio nazionale della lingua da istituire a Firenze al posto della Crusca, con l’apporto di intellettuali di tutte le regioni italiane. Cesarotti era aperto non solo all’accrescimento del lessico tecnico, ma anche ai dialetti, oltre che ai prestiti forestieri. Il Saggio di Cesarotti, così disponibile alle novità e così equilibrato, cadde in un contesto assai sfavorevole, che ne vanificò il possibile effetto benefico sulla cultura italiana. Invadente primato politico-militare francese degli anni rivoluzionari e napoleonici ebbe come conseguenza una diffusa ostilità nei confronti di ogni apertura verso il prestito dalle lingue straniere e verso la lingua francese in particolare. Si affermò sempre di più un’affezione fanatica per la tradizione italiana. In mancanza di unità politica, ci si abbarbicò alla gloriosa lingua antica, carica di valore simbolico, e ciò determinò un rinnovato amore per il Trecento. Fiorì allora la stagione del purismo ben rappresentato al Sud da Basilio Puoti (che fu ottimo maestro di allievi famosi, come Francesco De Sanctis), al Nord dal padre Antonio Cesari e dalla sua Crusca Veronese, realizzata a Verona

Manzoni Il purismo fu combattuto non solo dai classicisti, ma anche da Alessandro Maznoni Sue teorie rappresentano il risultato più profondo della riflessione linguistica dei romantici, con un esito che il primo Romanticismo non avrebbe fatto supporre. Nel 1825-1827 Manzoni diede alle stampe la prima edizione dei Promessi sposi, nel 1840-1842 la seconda, rivista nella forma linguistica per renderla aderente al fiorentino vivo, nel quale giunse a riporre tutta la propria fiducia. In mezzo sta il soggiorno a Firenze, che gli consentì di consultare con larghezza parlanti nativi toscani. Si noti che Manzoni, a differenza di altri cultori della parlata toscana, non guardava al fiorentino rurale, conservativo e arcaico, ma alla parlata della classe colta della città di Firenze. Propensione per l’ambiente urbano è significativa, e Svolta per il dibattito sulla questione della lingua fu l’incarico affidato a Manzoni nel 1868 dal ministro Emilio Broglio perché presiedesse la doppia commissione (milanese e fiorentina) incaricata di «ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini di popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia» La commissione non raggiunse l’accordo perché la sottocommissione fiorentina non aderì alle tesi di Manzoni: questi pubblicò la propria Relazione sull’unità della lingua nello stesso 1868. Questa volta la richiesta di intervento era venuta da un ministro dello Stato unitario, e il dibattito non riguardava le scelte di un singolo scrittore o di un gruppo di letterati, ma il popolo dell’intera nazione da poco unificata. La Relazione del 1868 provocò un dibattito vivace, perché proponeva l’adozione del fiorentino vivo come lingua da divulgare attraverso l’insegnamento scolastico. Le obiezioni richiamavano le annose polemiche sul tema: chi difendeva i diritti della lingua letteraria, chi voleva estendere la funzione di lingua nazionale al toscano (andando oltre al solo fiorentino). Si noti che Firenze era allora capitale provvisoria, in attesa di Roma, ancora sotto i papi. Anche la questione romana si legò alla questione della lingua, perché v’era motivo di supporre che la nuova capitale, una volta divenuta italiana, avrebbe influito sullo sviluppo della lingua nazionale.

Ascoli Graziadio Isaia Ascoli, fondatore della scienza glottologica italiana Intervenne contro la soluzione manzoniana nel Proemio al primo fascicolo dell’«Archivio Glottologico Italiano», la rivista che aveva appena fondato. Il Proemio, scritto nel 1872 e pubblicato nel 1873, fu la più forte risposta alle teorie di Manzoni. La via indicata da Ascoli si differenziava da tutte le altre, perché non presupponeva una lingua-modello a cui fare riferimento, non contrapponeva al toscano di Manzoni un’altra lingua, anche se considerava favorevolmente il contributo delle regioni al comune idioma nazionale. Ascoli riteneva che lo sviluppo culturale e sociale della nazione avrebbe portato in modo naturale all’unificazione linguistica (anche Luigi Settembrini aveva scritto che «il pensiero fa la lingua, non la lingua fa il pensiero», e aveva concluso: «Se volete una buona lingua, dovete prima fare una buona Italia»; cfr. Marazzini 1977: 62-65). Al modello centralistico di Manzoni veniva contrapposto un modello policentrico La lingua non era considerata una premessa, bensì una conseguenza dello sviluppo politico-sociale.