Eugenio Montale La vita e le opere
La vita Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896. Frequentò le scuole tecniche, ma non completò gli studi a causa di una grave malattia. Partecipò alla Prima Guerra come ufficiale di fanteria nel Trentino. Finita la guerra, si trasferì a Torino e poi a Firenze, dove lavorò in una casa editrice e diventò direttore del “Gabinetto scientifico-letterario Viesseux”, illustre associazione culturale fiorentina. Iniziò a comporre le prime liriche, ottenendo riconoscimenti dalla critica. La sua prima raccolta, Ossi di seppia, venne pubblicata nel 1925; ad essa seguirono Le occasioni e La bufera e altro. Trasferitosi a Milano, divenne collaboratore del “Corriere della sera”, come critico musicale. Le sue ultime raccolte poetiche sono Satura, Diario del 1971 e del 1972 e Quaderno di quattro anni. Nel 1967 fu nominato senatore a vita; nel 1975 ricevette il premio Nobel per la letteratura. Morì a Milano nel 1981.
Temi della poesia di Montale La poesia di Montale testimonia la crisi spirituale dell’uomo moderno, che vive in un mondo in cui non si trova più alcuna ragione valida per agire. La sconfitta dell’uomo, il dolore come elemento essenziale dell’esistenza umana, sono i temi principali delle sue poesie. Per Montale dunque si può parlare di pessimismo tragico: dietro ad ogni azione umana c’è il nulla, il vuoto, la delusione, l’impossibilità di comunicare. Una delle caratteristiche di questo poeta è l’uso particolare che egli fa del paesaggio, soprattutto quello ligure che gli è familiare. Egli lo rappresenta nella sua concretezza fisica: mare, sole, orti, arbusti, colline. Il poeta ligure sente l’influenza stilistica di Pascoli che si manifesta nell’osservare e nell’analizzare le cose di tutti i giorni. Tuttavia ogni elemento in Montale ha anche un’altra valenza, un significato nascosto: esprime emozioni, concetti, sentimenti con un linguaggio essenziale, a volte scabro, usando termini letterari anche rari e dal suono aspro.
Meriggiare pallido e assorto E` una delle prime e più famose poesie di Eugenio Montale, scritta nel 1916. Il poeta si trova, nelle ore calde intorno al mezzogiorno, presso il muro di un orto, arroventato dai raggi del sole, ed ascolta i rumori della natura: tra rovi e arbusti i merli emettono i loro versi secchi e i serpenti si muovono con un fruscio a malapena percettibile. Nelle crepe del suolo seccato dal sole e lungo gli steli delle piante rampicanti selvatiche si vedono file di formiche rosse che poi s`intrecciano sulla sommità di piccoli formicai. Tra i rami pieni di foglie, si scorge lontano il mare dalla superficie tremolante, mentre, dalle rocce spoglie, si leva il frinito delle cicale. Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Ho sceso, dandoti il braccio… Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. Ho sceso, dandoti il braccio, moltissime scale ed ora che tu non ci sei più mi sento sempre solo ed ogni gradino per me è vuoto. Abbiamo vissuto insieme a lungo, ma ora io sono infelice perché il tempo passato con te e la nostra vita non sono durati abbastanza. Il mio viaggio dura tuttora, e non mi servono più le coincidenze dei treni, le prenotazioni degli alberghi, i viaggi, le umiliazioni della gente che crede che la vita vera sia quella che si vede. Ho sceso moltissime scale dandoti il braccio non perché con quattro occhi si vede di più e meglio. Le ho scese con te perché sapevo che tra noi due, i veri occhi che vedevano la realtà più profonda, anche se indeboliti dalla miopia, erano i tuoi.
Spesso il male di vivere Ho spesso incontrato il male di vivere: era torrente che incontra un ostacolo nel fluire, l'accartocciarsi di una foglia, rinsecchita dalla calura, un cavallo caduto per la fatica. Non ho conosciuto altro bene all'infuori della condizione miracolosa che dà origine allo stato di superiore indifferenza tipica delle divinità: era una statua nella sonnolenza del mezzogiorno, una nuvola e un falco che vola alto. Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.