Lezione 3 La crisi dello stato sociale keynesiano e la political economy comparata
Anni ’70: rinascita della Sociologia economica Crescita inflazione e disoccupazione crisi dell’economia keynesiana: adozione neoliberismo economico rilevanza critica degli approcci che evidenziano il ruolo dei fattori istituzionali (political economy comparata) analisi dei nuovi modelli di produzione flessibile (new economic sociology)
Lo stato sociale keynesiano Dal secondo dopoguerra, con qualche anticipazione negli anni ’30 (socialdemocrazia svedese, New Deal USA, nazionalsocialismo): crescente intervento dello Stato in campo economico e sociale Keynes: politiche di sostegno della domanda nei paesi più industrializzati per fuoriuscire dalla depressione Il c.d. “Stato sociale keynesiano” va oltre le finalità originarie del modello: keynesismo “della crescita” (fine ultimo sostegno sviluppo economico) + keynesismo “del consenso” (dell’elettorato attraverso i programmi di welfare) keynesismo “debole” (paesi anglosassoni) o “forte” (paesi scandinavi); Pianificazione dirigista in campo economico, gestita da un’influente tecnocrazia (v. Francia e Giappone).
Teorie sulla spesa per la sicurezza sociale (1) Le politiche sociali si sviluppano soprattutto verso la metà dell’ 1800 (necessità degli stati industrializzati di far fronte ai bisogni della nuova classe proletaria urbana) azioni “residuali” (a sostegno del mercato del lavoro, ma non interferiscono col suo funzionamento) Invece con l’affermazione del welfare state (dal secondo dopoguerra) mutamento del ruolo tra stato e mercato: ampliamento dei confini del primo nel terreno del secondo. Diverse le teorie cercano di dare una spiegazione a questa notevole crescita dei sistemi di protezione sociale: 1. le analisi dei primi anni ’60 (Marshall, Bendix) fanno riferimento al processo di affermazione dei diritti di cittadinanza (dopo i diritti civili e politici, i diritti sociali rivendicati dalle classi subalterne)
Teorie sulla spesa per la sicurezza sociale (2) 2. anni ’70 le analisi neo-marxiste (O’Connor, Habermas, Offe) la leggono come ulteriore prova del ruolo di stabilizzatore del capitalismo assunto dallo stato (welfare state come tentativo dello stato di conciliare il proprio sostegno all’accumulazione capitalista con le necessità di mantenimento del consenso) Ciò non spiega la diversità delle forme assunte dai sistemi di welfare nei vari paesi, compito invece di altre teorie: 3. le analisi comparative negli anni ’80 e ’90 (Flora ed Heidenheimer, Alber, Paci, Ferrera) : pur riconoscendo la rilevanza dei fattori economici e sociali - evidenziano come il loro impatto sia differente a seconda di variabili di tipo politico-istituzionale legate alla storia politica ed amministrativa di un dato paese
Tipi di Welfare State La rappresentanza politica e sindacale, viene riconosciuta come una variabile cruciale per differenziare i diversi tipi di welfare state in rapporto alla protezione sociale (secondo una distinzione di Titmuss ripresa da Esping-Andersen): 1. residuale (rivolto ad una fetta limitata di popolazione, in condizioni di particolare indigenza, e non coperta dalle altre sfere, più in sintonia con le tradizioni liberali); 2. istituzionale-redistributivo (che copre i principali diritti sociali, intesi come componenti fondanti della cittadinanza, più vicino alla tradizione social- democratica); 3. remunerativo (che protegge dai principali rischi coloro che appartengono ad una data categoria socio-professionale, politicamente più conservatore e legato all’influenza della cultura cattolica)
Crisi del welfare state Modello fordista (organizzazione produttiva a livello micro) +welfare state (organizzazione macroeconomia) nei paesi maggiormente industrializzati: anni 50-60, sviluppo della produzione e del consumo di massa (‘ventennio glorioso’). Fine anni ’60: tensioni economiche e sociali rimettono in discussione l’equilibrio tra efficienza economica e equità sociale ed il “compromesso storico” tra classi sociali ottenuto nei paesi capitalistici più sviluppati: a) contemporaneo aumento dei tassi di inflazione e di disoccupazione b) diminuzione dei tassi di crescita (a+b= “stagflazione” ) c) ripresa del conflitto industriale.
Fattori endogeni ed esogeni Fattori esogeni aggravano la crisi: la saturazione del mercato dei beni di massa; crescente concorrenza dei paesi asiatici; abbandono del sistema dei cambi fissi; crisi petrolifera ed il successivo aumento dei costi energetici. Cause principali della crisi risiedono in fattori endogeni: effetti perversi derivanti dall’applicazione a lungo termine delle politiche sociali Keynesiane: (riduzione disoccupazione crescita forza dei sindacati espansione e legittimazione sistemi di sicurezza sociale nelle democrazie capitalistiche classe politica sottoposta ad aspettative crescenti riguardo l’estensione di diritti e benefici forte aumento inflazione)
Le teorie sull’inflazione Le teorie keynesiane: politica attiva della domanda come strumento temporaneo di prevenzione delle crisi economiche; a gestire la spesa pubblica un’efficiente burocrazia (ispirata al civil service britannico). Vengono accreditate le tesi dei monetaristi (Hayeck e Friedman): la crescita dell’inflazione deriva dalla cattiva gestione delle politiche economiche da parte di politici che davanti alle pressioni politiche di lavoratori ed imprese non riuscivano a limitare l’offerta di moneta. Ricetta correttiva: spostare le priorità economiche dalla riduzione della disoccupazione verso il controllo dell’inflazione, e quindi da politiche della domanda attente al consumo, a politiche dell’offerta rivolte alla produzione politica restrittiva e ritorno al liberismo di mercato (governi “New Right” anni ’80).
La “New political economy”: crescita dell’inflazione delle politiche di welfare ricondotta a fattori politico-istituzionali, ma non esogeni rispetto alle variabili economiche, bensì profondamente correlati ad esse: A) (Buchanan, Tullock, Nordhaus, Brittan) fenomeni di espansione “politicamente indotta” dell’economia alle caratteristiche dei “cicli politico-elettorali e a lungo termine, alla crescita dell’inflazione. Pessimismo o cinismo riguardo alle possibilità di conciliare l’economia di mercato con la democrazia (parziale accordo con le conclusioni dei monetaristi): limitazione del ruolo dello stato in campo economico e sociale, anche attraverso norme costituzionali B) (Goldthorpe, Lindberg, Maier) inflazione come espressione monetaria di un conflitto distributivo, ossia come derivante dall’incapacità del sistema di rappresentanza (sindacati e partiti, ma anche le norme cui essi devono sottostare) di tenere sotto controllo il conflitto distributivo tra i diversi gruppi e le loro diverse richieste
Il neo-corporativismo Corrente per la quale tra le variabili istituzionali di importanza cruciale sono i caratteri del sistema nazionale di rappresentanza degli interessi, che danno luogo a 2 modelli idealtipici di regolazione politica dell’economia: 1) neo-corporativo (concertazione basata sullo “scambio politico” tra il consenso sociale offerto dalle grandi organizzazioni corporative, ed il potere politico dato in cambio dal governo che le integra nel processo decisionale) 2) pluralista (caratterizzato da un alto numero di gruppi di interesse che fanno pressione sul governo per influenzarlo a loro favore) Il secondo (tipico dei sistemi anglosassoni) era stato presentato dalla letteratura politologica dei decenni postbellici (Dahl, Polsby, Almond, Verba) come quello più legittimo ed efficiente per le democrazie occidentali.
Neo-corporativismo: pro e contro Modello neocorporativo presenta le sue forze ma anche le sue debolezze (ad esempio il fatto che esso privilegia le grandi organizzazioni a carattere economico, restringendo notevolmente l’accesso e la possibilità di espressione per gruppi minoritari, e che la sua leadership sfugga ai criteri di controllo e legittimità della democrazia rappresentativa). Mutamenti avvenuti in ambito economico negli anni ’80: dinamismo economico e la creazione di occupazione in USA e nel Regno Unito in seguito al neo-liberalismo; declino della contrattazione centralizzata nei paesi più vicini a forme neo-corporative, a favore di forme di concertazione a livello decentrato, settoriale o territoriale (post-fordismo: riduzione della classe operaia delle grandi imprese)
Varietà dei sistemi di regolazione MERCATODECRETOACCORDO POTERE E ORG. CLASSE OPERAIA Debole Forte ISTITUZIONI POLITICHE Polity pluralistica Polity divisa Polity organizzata EGEMONIA IDEOLOGICO- NORMATIVA Società civile Stato Stato sociale
La regolazione Principi o forme: regole secondo le quali le diverse risorse vengono combinate nel processo produttivo, il reddito profotto viene distribuito, i potenziali conflitti tra i sogg. coinvolti nel processo economico controllati Sistemi: dati dalla specifica combinazione e integrazione tra diverse forme di regolazione che caratterizza una determinata economia
Principi e sistemi di regolazione MERCATODECRETOACCORDO SCAMBIO DI MERCATO ++++ SOLIDARIETA’ ++- AUTORITA’ ++++ CONCERTAZIONE --++
Le teorie sulla diversità dei capitalismi Anni ’70: controllo l’inflazione, Anni ’80: capacità delle imprese nazionali di innovare in modo da poter competere in un mercato internazionale in continua evoluzione ed apertura. Studio dei fattori istituzionali che favoriscono l’innovazione delle imprese (dagli assetti finanziari, ai servizi alle imprese, alla formazione professionale, alle forme di cooperazione sia interne che esterne all’impresa)attraverso l’analisi comprata delle differenti reazioni dei capitalismi nazionali alle sfide poste dal nuovo contesto di integrazione internazionale.
Due modelli alternativi di regolazione capitalista del mercato (Soskice, 1989) a) economie non coordinate di mercato: ruolo del mercato più rilevante; regole istituzionali e finanziarie che privilegiano la posizione degli share-holders, o detentori del capitali azionario; impresa come una serie di contratti volti a massimizzare il profitto individuale a breve; azione collettiva a somma zero; rischi di free-riding non permetterebbero di rischiare investimenti a lungo termine in innovazione, formazione professionale, né incentiverebbe la formazione di un clima cooperativo; b) economie coordinate di mercato: ruolo del mercato è più limitato rispetto a quello dello stato e delle organizzazioni; privilegiano gli interessi degli “stake-holders”, ossia il management ed i lavoratori (es. Germani e Giappone); impresa come comunità di interessi; logica di redditività a lungo termine da parte dei manager ed un comportamento cooperativo dei lavoratori ai fini del raggiungimento del bene collettivo. Anni ’90 ripresa del capitalismo anglosassone: Ohmae, “The borderless world” (1991) (convergenza istituzionale) Berger e Dore (1996): persistenza del “fattore nazionale” (“equivalenza funzionale” competitiva)
Gli equilibri multipli dei modelli di organizzazione dell’Economia Dal punto di vista teorico, l’incontro della problematiche sulla crisi del welfare state a livello macro con quelle sulla crisi del modello fordista a livello micro, porta nell’ambito della Sociologia Economica a sviluppare dei modelli che legano le problematiche legate al welfare state al tema della varietà dei capitalismi: esistono diversi gradi di accettazione sociale del mercato, che ne condizionano il funzionamento; scopo delle analisi non definire un modello ideale universale, ma aprirsi alla possibilità di concepire equilibri multipli (con diversi punti di forza e di debolezza) arrivando a definizioni procedurali e non sostantive dei modelli
Il futuro del welfare state Le analisi sugli effetti perversi prodotti a lungo termine dai sistemi di welfare, di fronte alla crisi a partire dalla fine degli anni ’60 porta a due prescrizioni opposte: a) svincolarsi del mercato dei lacci politico istituzionali (liberismo economico) b) partire dai fattori istituzionali per ridefinire multipli equilibri tra stato, mercato e società (sociologia economica) Per la seconda via la “logica istituzionale” deve permettere un adeguamento delle strutture ereditate dal passato alle nuove sfide. L’importanza del percorso storico rende cruciale il ruolo del “fattore nazionale” nella definizione degli assetti istituzionali che plasmano sia la dimensione settoriale che quella sub-nazionale. Ma questo deve avvenire anche in considerazione del mutato contesto “globale” o “europeo” e le nuove sfide che esso pone.