LA POESIA TRA LE DUE GUERRE TESINA DI FRANCESCO AMATO
INDICE INTRODUZIONE LA RICERCA DELL’ ESSENZIALITA’ L’ERMETISMO LA POESIA DELLA SOLITUDINE E DELLA NOSTALGIA: SALVATORE QUASIMODO IL DOLORE DELLA GUERRA: GIUSEPPE UNGARETTI IL MALE DI VIVERE: EUGENIO MONTALE LA POESIA DEL DOLORE: UMBERTO SABA LA POESIA DIALETTALE
INTRODUZIONE La prima metà del ventesimo secolo si apre con l’inasprimento dei conflitti imperialistici e la corsa agli armamenti che portano l’Europa alla prima guerra mondiale e si può chiudere simbolicamente con l’esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945; un’età segnata da due catastrofiche guerre mondiali a soli venti anni l’una dall’altra. Tra le due guerre altri sconvolgimenti come la nascita dell’URSS a dittatura comunista, la sconfitta della democrazia prima in Italia con la dittatura fascista, poi in Germania con il Nazismo e in Spagna dopo una sanguinosa guerra civile. I tre anni e mezzo della prima guerra mondiale furono importanti anche per motivi diversi da quelli militari e patriottici; essi infatti fecero si che gli Italiani, dopo oltre mezzo secolo dall’unità, finalmente si conoscessero e cominciassero a capirsi. Era quella la prima guerra combattuta fianco a fianco da uomini provenienti da tutte le regioni della penisola, sino ad allora rimasti sostanzialmente estranei e diversi per lingua, costumi, mentalità, cultura, abitudini. Da quei tre anni e mezzo di vita in trincea, l’uno accanto all’altro, nel fango, nella neve, nel continuo pericolo di morire, uscirono alla fine uomini nuovi e diversi, che erano stati costretti a conoscersi e si poteva affermare finalmente che quella guerra era riuscita a “fare gli Italiani” più e meglio di quanto vi fossero riusciti leggi, imposizioni, ordini, repressioni.
Soldati in trincea
LA RICERCA DELL’ESSENZIALITA’ Nel periodo tra le due guerre, la poesia italiana completa il processo di distacco dalla lirica dell’ottocento, evoluzione già iniziata nel primo Novecento. Dopo la prima guerra mondiale, si manifesta un bisogno di raccoglimento sentimentale e di controllo linguistico. Questi bisogni compaiono nella ricerca dell’essenzialità, rispetto al nazionalismo, così di grande effetto, ma privo di contenuti, all’estetismo ancora in uso. La poesia, rompendo definitivamente il legame con l’Ottocento, trova una nuova moderna misura negli anni Venti. Nei successivi anni Trenta, la poesia si ripiega e si isola, arrivando ad essere cifrata e di difficile comprensione. Bisogna anche tenere conto del contesto storico: l’affermazione del fascismo, la riduzione della cultura. Gran parte della poesia italiana del secolo appartiene all’ermetismo.
L’ERMETISMO Il termine “Ermetismo” vuole indicare una poesia chiusa, di difficile comprensione dalle immagini sfuggenti, una poesia che non descrive il mondo condiviso e noto, ma quello puro della parola. Si tratta di un tipo di poetica nata negli anni Venti e sviluppatasi negli anni tra le due guerre. Tale definizione fu coniata in senso dispregiativo dal critico Francesco Flora, che condannava l’oscurità e l’indecifrabilità della nuova poesia. La scuola ermetica si sviluppa a Firenze attorno a due riviste: “Frontespizio” (1936) e “Campo di Marte”, nonostante l’Ermetismo inteso come scuola abbia avuto breve durata. I poeti ermetici seguono l’idea della poesia “pura e libera”, nel senso purificata da metrica, retorica e celebrativa. Il metro è per lo più il verso libero, quasi tutti questi poeti recuperano l’endecasillabo sciolto. Il tema centrale di questa poesia è il senso di solitudine dell’uomo, che ha oramai abbandonato i vecchi valori. L’uomo moderno vive in un periodo sconvolto da guerre, dittature, tanto che il poeta ha una visione sfiduciata della vita, per cui abbiamo temi di desolazione, frustrazione, incomunicabilità, alienazione. L’Ermetismo rifiuta il linguaggio e le forme della poesia romantica e positivistica, in quanto il nuovo poeta non ha più miti e certezze come nell’Ottocento. I poeti vanno alla ricerca di parole essenziali, secche e concise che descrivono meglio il loro stato d’animo. Rispetto alla società l’Ermetismo diviene arte isolata e di ardua comprensione. Fra gli esponenti più importanti dell’ermetismo si ricordano Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale.
FOTO DI MONTALE, UNGARETTI E QUASIMODO
LA POESIA DELLA SOLITUDINE E DELLA NOSTALGIA Salvatore Quasimodo Il primo e il più noto degli ermetici è Salvatore Quasimodo. Nato a Modica nel 1901 e trapiantato a Milano dove insegnò e fu critico teatrale, esordì nel 1930 con il volume “Acque e terre”. La sua poesia precedente alla seconda guerra mondiale esprime una condizione di solitudine dolorosa, la frattura da una mitica Sicilia dell’infanzia. La famosissima poesia “Ed è subito sera”: Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera pubblicata nel volume “Acque e terre”esprime la disperata condizione umana, che si risolve nella tragica solitudine dell’individuo che cerca di vivere e di amare, ma che non ha il tempo di vedere quanto la vita possa offrire, è sintetizzata mirabilmente nell’intuizione racchiusa nel corso di tre versi, dove la sera è una metafora della morte.
SALVATORE QUASIMODO
IL DOLORE DELLA GUERRA Giuseppe Ungaretti Giuseppe Ungaretti è nato ad Alessandria d'Egitto nel 1888 ed è morto a Milano nel 1970. Figlio di genitori toscani, trascorse l'infanzia in Africa; trasferitosi a Parigi, vi conobbe i rappresentanti più significativi del futurismo. Fu favorevole all'intervento dell'Italia in guerra e partecipò alla prima guerra mondiale come soldato semplice di fanteria. Da questa esperienza nacquero le sue poesie più famose che raccontano le sofferenze dei soldati in trincea. Tra queste “Veglia”, “Soldati” e “San Martino dal Carso”. La poesia “Veglia” è una di quelle composte in trincea. Non vi è punteggiatura, ma le strofe rappresentano i periodi. Si nota la crudezza delle situazioni descritte. Evidente è il distacco dalla realtà della guerra e l’attaccamento alla vita, dovuto dall’aver conosciuto la morte. Anche “San Martino dal Carso” è stata composta in guerra. In questa poesia non viene descritta la morte di per sé, ma il vuoto che essa lascia. La poesia ha un tono triste e rassegnato. Negli anni seguenti aderì al fascismo. Visse alcuni anni in Brasile dove insegno letteratura italiana e dove perse il figlio Antonello di 9 anni. Tornato in Italia insegno’ letteratura italiana all’Università di Roma.
Non sono mai stato tanto attaccato alla vita “Veglia” 23 dicembre 1915 Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita G. Ungaretti
San Martino del Carso 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto Che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca E' il mio cuore il paese più straziato G. Ungaretti
G. UNGARETTI
IL MALE DI VIVERE Eugenio Montale Nacque a Genova nel 1896. Per Montale il male non è frutto del fato, di demoni e malvagi, è una parte ineliminabile nella vita degli uomini. Nella poesia “Spesso il male di vivere” si denota il disagio esistenziale del poeta, il malessere profondo legato al vivere. Per Montale il bene è solamente l’assenza del dolore, delle difficoltà, del malessere presente nella vita di tutti. Questo <male di vivere> è il tema predominante de “Ossi di seppia”, la sua prima raccolta poetica apparsa nel 1925. Gli ossi di seppia sono relitti che il mare getta sulla riva; ad essi il poeta paragona i suoi versi. Bisogna però dire che in Montale non c’è un’accettazione rassegnata di questa condizione di crisi: non rinunzia all’idea che la vita <deve, in qualche modo, avere un significato> e la sua poesia è una ricerca ininterrotta di quel significato, una ricerca fatta di speranza.
Spesso il male di vivere Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa,era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. E. Montale
E. MONTALE
LA POESIA DEL DOLORE Umberto Saba La poesia della prima metà del ‘900 non si esaurisce con l’ermetismo anzi, alcuni dei poeti più notevoli furono estranei a quel movimento, tra questi Umberto Saba. Saba era di origini triestine, di origine ebraica e per questo costretto a fuggire e a nascondersi. Era legato alla sua città natale e la sua poesia è piena di immagini della sua città, di figure della vita quotidiana e popolare. Per il poeta il dolore è necessario all’esistenza, è un male individuale, ma allo stesso tempo universale. Nella poesia “La capra” si nota come il dolore per il mondo sia unico sia per il poeta, che per la capra, protagonista dei versi. Proprio la capra rappresenta gli umili e gli sfortunati.
UMBERTO SABA
LA POESIA DIALETTALE Nella prima metà del Novecento continua a fiorire la poesia dialettale, ma con caratteri diversi da quelli ottocenteschi: il dialetto non è più lo strumento per rendere la verità di un ambiente, ma è un mezzo di espressione. I migliori poeti dialettali sono intellettuali, i più sono antifascisti. Per loro il dialetto non è tanto la lingua della vita quotidiana, quanto una lingua letteraria privata. Tra i poeti più significativi ricordiamo il romano Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri), il triestino Virgilio Giotti (1884-1957) che descrive figure umane sullo sfondo delle strade della sua città, Biagio Marin (1891-1985) dell’isola di Grado (Gorizia) che dipinge i paesaggi della sua laguna, il milanese Delio Tessa (1886-1939) autore di poesie che narrano storie di ambiente popolare(L’è el dì di mort,alegher!, “Allegri, è il giorno dei morti!”). I poeti che in quel periodo maggiormente dettero voce al disagio materiale e morale in cui versavano le popolazioni siciliane furono Ignazio Buttitta nato a Bagheria (Palermo 1899-1997) che ha trovato nel dialetto la migliore forma d’espressione dell’anima popolare siciliana (“Lu pani si chiama pani”, “La peddi nova”) e Vann’Antò (Giovanni Antonio Di Giacomo) nato a Ragusa (1891-1960) autore de “L’ultima guerra”
VANN’ANTO’ GIOVANNI ANTONIO DI GIACOMO
L’urtima guerra Cu ntê càmmini ca cumànnanu (cuomu rici lu muttu anticu) e li puòpuli ca si scànnanu! l'un all'àutru e pirchì? nnimicu, basta rìciunu la patria: basta sièmu piècuri stùpiti tinti piècuri testa-calata Ca ci attocca fari li lupi, ni pigghiàu la gran fuddia ca cciù miegghiu a l'ucciria! mmarditti puopuli e cu ni cuverna, ca nun c'è cciù riliggioni: nun cririèmu a la vita eterna e curriemu a la distruzioni! ni sduffammu ri la campata ca finìu giustizzia e amuri e finissi testa-tagghiata lu stissu munnu lu stissu suli, fussi morti ri ntunnu nsumma quantu spara l'urtima bumma! quantu fussi l'urtima guerra e addiu gioia la matina ca ti susi e aruri la terra, biniritti ri l'acquazzina macci e sciuri e lu laùri L'ultima guerra I re in camera che comandano / (come dice il proverbio antico) / ed i popoli che si scannano! / l'uno all'altro e perchè? nemico, / basta dicano la patria: / basta siamo pecore stupide, / tristi pecore testa-piegata / che gli tocca fare da lupi, / presi dalla gran follia / che al macello meglio sia! // maledetti popoli e chi ci governa, / chè non v'è più religione: / non crediamo alla vita eterna / e corriamo alla distruzione! / siamo stufi della vita, / chè finì giustizia e amore, / e finisse "testa-mozzata", / lo stesso mondo, lo stesso sole, / fosse morte totale insomma / pur che scoppi l'ultima bomba! // purchè sia l'ultima guerra / e addio gioia la mattina / quando sorgi e adori la terra, / benedetti dalla rugiada / alberi e fiori e il grano
Pur tra le difficoltà che la censura comportava, essi riuscirono ad alimentare la consapevolezza della dignità umana che nessuna dittatura era riuscita a cancellare, ed a preparare le giovani generazioni ad affrontare la vita con la fiducia nella libertà e nella immancabile rinascita culturale e civile.