TERZE OBIEZIONI Hobbes p. 163 Sulla seconda meditazione: “Io sono una cosa pensante vuol dire che io sono un pensiero? Allora potrei dire: io sono passeggiante, quindi sono una passeggiata?”
Hobbes incalza: “non confondi forse la cosa e il suo atto? la cosa che pensa e il pensiero?” di solito in filosofia si distingue tra la cosa (che è) e l’essenza (che cos’è)
Se è così, osserva Hobbes, non dovremmo distinguere la cosa che pensa dalla mente? e questa cosa che pensa non potrebbe essere qualcosa di corporeo, dato che è il soggetto della mente?
“Non possiamo pensare a nessun atto, senza riferirlo al suo soggetto, non possiamo pensare al pensiero senza una cosa che pensa, così come non possiamo pensare alla passeggiata senza una cosa che passeggi”.
Hobbes spiega così la propria obiezione: i soggetti degli atti sono intesi sotto una ragione corporea, ossia sotto una ragione materiale, come dimostrerebbe l’esempio della cera, che assume diversi aspetti, ma rimane sempre res extensa. Non posso separare il pensiero da una materia che pensa.
Cartesio risponde: quando ho detto di essere una mente, un intelletto o una ragione non intendevo solo le mie facoltà, ma piuttosto la cosa che ha queste facoltà: i termini hanno i due significati; mentre passeggiata indica solo l’azione di passeggiare e non il soggetto che passeggia.
Non ho mai confuso, quindi, tra il soggetto e i suoi atti. Mi accorgo però che mentre io ho indicato il soggetto con termini semplici e astratti, tu ti sei servito di termini concreti e composti, come quelli di soggetto, materia e corpo.
Cartesio osserva inoltre: non ho escluso affatto all’inizio che ciò che pensa sia qualcosa di corporeo; tanto è vero che l’ho lasciato indeterminato fino alla sesta meditazione.
È giusto dire che gli atti vanno spiegati con un soggetto; ma questo non vuol dire che il soggetto debba essere qualcosa di corporeo. Il soggetto va inteso come una sostanza (subjectum) o come una materia in senso metafisico, ma non come un corpo.
Se vogliamo spiegare la natura del soggetto, dobbiamo riferirci alla natura dei suoi atti. Ora ci sono degli atti che diciamo corporei, che attribuiamo ad un corpo; atti di natura intellettuale, che attribuiamo giustamente a una cosa che pensa, ossia una mente, uno spirito.
Hobbes insiste, sempre sulla seconda meditazione: mi pare che non sia spiegata la differenza tra immaginare e intendere con l’intelletto. Non potrebbe essere che il ragionamento sia un insieme di parole unite dal verbo essere?
Se fosse così, osserva Hobbes, i nostri discorsi non dicono nulla delle cose, perché si fermano solo alle parole con cui le indichiamo. E allora il nostro ragionare dipende solo dalle parole (nominalismo), le parole dalle immagini (sensismo), le immagini dai movimenti del corpo (materialismo).
A questa obiezione, Cartesio risponde con riferimento sia alla seconda meditazione (la cera) sia alla sesta: una cosa è concepire con la mente, un’altra è l’immaginare, che richiede una particolare tensione della mente per renderci presente una certa figura.
Inoltre, nel ragionamento non mettiamo insieme solo parole (nominalismo), ma piuttosto i significati (concettualismo) che vengono indicati da quelle parole. Esempio: un francese e un tedesco adoperano parole diverse, ma si possono intendere sulle cose significate.
Hobbes passa alla terza meditazione: quando penso a qualcosa, me la rappresento con un certo colore e una certa figura; le mie idee non sono che immagini delle cose. Ed è così anche quando penso a qualcosa di invisibile, come gli angeli.
La stessa cosa accade, osserva Hobbes, anche per il nome venerabile di Dio. Dio non è concepibile con un’immagine o un’idea; per questo la Scrittura ci vieta di farne un’immagine.
Osserva Hobbes: noi non abbiamo alcuna idea di Dio, ma siamo come dei ciechi dalla nascita, che sentono dal calore che ci deve essere del fuoco, ma non possono immaginarselo in alcun modo.
Ribatte Cartesio: è facile fare un’obiezione simile, se si riducono le idee a pure immagini di cose materiali; l’idea è sempre qualcosa che è concepito dalla mente, e non il frutto dell’immaginazione corporea.
Hobbes (p. 177) si sofferma da ultimo sul carattere innato dell’idea di Dio: se fosse così, allora dovrebbe pensare anche chi dorme profondamente, senza avere alcun sogno.
Cartesio ribatte, precisando il valore delle idee innate. Non sono idee sempre presenti alla nostra mente, ma piuttosto idee che siamo noi stessi in grado di “produrre”, facendole emergere dalla nostra mente.
Osservazione. Cartesio fa capire che le idee innate, “alle quali non posso togliere e aggiungere nulla”, sono “innate” in quanto sono già dentro di noi, ma in modo potenziale: Leibniz parlerà di “innatismo virtuale” e si richiamerà per questo alla reminiscenza platonica.
Al di là del richiamo alla preesistenza (che Cartesio e Leibniz rifiutano) rimane che il problema della conoscenza non può essere risolto senza l’originarietà della coscienza: “non c’è nulla nell’intelletto che non sia stato nei sensi, se si esclude l’intelletto stesso”, dirà Leibniz.