M. Santagata, Dal Sonetto al Canzoniere, Liviana, Padova, 1979 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core… Il pubblico al quale è rivolto l’incipit del Canzoniere è l’interlocutore privilegiato del poeta. Secondo Santagata, in questo rinnovato rapporto con i lettori è il segno della novità della letteratura di Petrarca.
Il pubblico di Petrarca «Il testo petrarchesco si rivolge ad un pubblico privo di caratterizzazioni sociali o culturali o ideologiche: non è una cerchia aristocratica né un pubblico borghese, non un gruppo di ‘scuola’, né una udienza specializzata (le donne o i ‘fedeli d’amore’). L’unico requisito che il testo sembra richiedere al proprio lettore è quello di essere tale, di ‘ascoltare’».
Tra testo e lettore Secondo il critico, P. non ha un lettore «ideale», non si rivolge ad un interlocutore preselezionato: ha un’apertura nuova, desidera che la sua storia –storia d’amore ma anche itinerario spirituale e poetico, e dunque un tracciato personale condivisibile, universale- possa circolare ampiamente, presso coloro che sono interessati ad intenderla. P. persegue un’operazione ideologico-estetica, prospettandola su un quadro di riferimento entro
Il pubblico di Petrarca il quale vuole collocarsi. «La seconda grande novità petrarchesa, omogenea al rifiuto di una specifica referenza sociale, è nell’aver chiuso su se stesso il cerchio della poesia: l’’io’ parla di sé. Lo statuto della lirica duecentesca ne viene radicalmente sconvolto: la poesia da mezzo di scambio…richiudendosi in se stessa si trasforma in oggetto. Il poeta e il proprio testo…si offrono alla fruizione del
Santagata su Petrarca pubblico». È dunque chiaro che P. non ha una prospettiva intimistica; il «voi» è indicativo di una scelta comunicativa precisa. Piuttosto mira ad un soggettismo lirico, ad un individualismo «per cui l’io non si misura con una problematica filosofico-conoscitiva ma direttamente con i temi della socialità della poesia».
Un percorso doppio: latino e volgare Il dualismo che sembra caratterizzare la vicenda di Petrarca è innanzitutto una felice dicotomia tra volgare e latino. Il bilinguismo del poeta ne restituisce l’esercizio consapevole dei codici e dei registri: il latino è per l’ambito elevato, colto; il volgare per i fragmenta, le cose familiari. In realtà questa linea divisoria è apparente.
Il latino P. avverte l’esigenza di «ripulire» il latino, di tornare alla forma classica; vuole allontanarlo dalla lingua scolastica, che è stata rimaneggiata dalle scuole delle artes dictandi, così come vuole liberarlo dalle influenze del volgare, che dilagavano nel Duecento.
Il volgare Il volgare gli era giunto così come era stato rimaneggiato dai letterati del Duecento; P. intende piegarlo, renderlo strumento di una comunicazione intima, legata all’anima. VUOLE SEPARARE, SCINDERE IL VOLGARE DALLA SUA STESSA DIMENSIONE QUOTIDIANA: ESSO DEVE DIVENTARE LINGUA ASSOLUTA, PURA.
La scrittura In volgare o in latino per P. la scrittura è sempre diretta espressione del valore di un autore: un testo che circola nel mondo non è mai qualcosa di casuale. Questa concezione spinge Petrarca a dedicare estrema e ossessiva cura alla sua opera, in una incontenibile ricerca di miglioramento, nel sospetto continuo verso i detrattori e i critici.
La riscrittura Per questo motivo il suo modo di procedere è quello di riscrivere, tornare su testi, idee, progetti per arricchirli, aggiungere, chiosare. Infine, niente per P. è definitivo e licenziato: tutto è passibile di modifiche e revisioni. È questo il segno della sua esperienza poetica.
Il filologo e l’umanista L’amore che lega P. agli scrittori del passato e della classicità, lo colloca nella dimensione dell’Umanesimo. I grandi scrittori sono modelli ineguagliabili di prosa (Cicerone) e di poesia (Virgilio). Il moderno scrittore in latino deve muoversi praticandone l’imitatio. Lo scrittore non è vincolato ad un unico modello: può operare come l’ape, che ricava il miele
L’imitatio succhiando l’essenza di diversi fiori, mescolandone i profumi. In questa continua tensione, P. coltiva il mondo classico come un modello, un simbolo di virtus antica, superiore. La sua contemporaneità gli sembra priva della vera dignità. I moderni, infatti, sono indifferenti agli insegnamenti dei classici; li conoscono in maniera frammentaria.
La filologia L’umanesimo di P. trova sostegno nella attività di filologo, che svolse ad altissimo livello, in contatto con gli studiosi maggiori d’Europa. Nei suoi viaggi P. acquista libri, li trascrive, o ne affida la trascrizione ai suoi copisti.
La Biblioteca di P. Nonostante gli spostamenti e i cambi di residenza P. accumula una biblioteca personale di 200 volumi, tra opere di Padri della Chiesa e di autori latini.
Lo scrittore e la società La formazione ad Avignone lo pone in una prospettiva cosmopolita: come chierico esercita meccanicamente alcuni doveri religiosi. Certo è che è lontano sia dagli intellettuali comunali laici, sia da quelli religiosi. Avverte sempre la nostalgia della patria, dell’Italia, di Roma, di un progetto antico e nobile di unità. La sua condizione tuttavia lo spinge a dare il suo sostegno
Lo scrittore e la politica ai regimi, ai poteri, da cui riceve sostentamento. Al di sopra di tutto, P. sembra mettere la garanzia della sua vita di intellettuale: per poter lavorare cerca appoggi dalle istituzioni e dalla politica, che sostiene formalmente, pur essendo sempre un po’ diffidente e coltivando intimamente (e astrattamente) il sogno di una patria unita.
L’umanesimo cristiano: la filosofia di P. Il periodo tra il 1200-300 era dominato dalla cultura aristotelica, dalla scolastica, un grande sistema filosofico, per tentare una conoscenza globale. P. rifugge da queste costruzioni: cerca una filosofia morale che scandagli i comportamenti e i conflitti dell’uomo. Il conflitto che avverte più fortemente è quello del contrasto tra la sua formazione
Umanesimo cristiano cristiana e la classicità. Cicerone gli pare fornire una bella sintesi tra moralità e classicità. Anche Sant’Agostino rivela contiguità tra pensiero platonico e tradizione cristiana. Allora la conciliazione è possibile, è perseguibile: P. vorrebbe approdare ad un umanesimo cristiano, e risolvere l’esperienza religiosa nella vita morale. La religione per P. doveva
Umanesimo cristiano servire per approdare alla serenità interiore: in questo è lontano da Dante, per cui il Cristianesimo doveva essere una via collettiva per giungere alla salvezza.
Trionfi Osserva Contini che ai T. P. ha lavorato a lungo: «l’elaborazione passò attraverso vari stadi, ma non giunse mai a quello idealmente ultimo. In sostanza ci troviamo innanzi ad un’opera, se non proprio incompiuta e frammentaria…certo nell’insieme provvisoria». Per il critico questo elemento è importante.