Amore precario, lavoro eterno di Elio Paoloni O gni editore ha in catalogo almeno un titolo sulle cronache di ordinario precariato lavorativo. Trattandosi di narrativa, non è tanto l'aspetto meramente economico a dominare le vicende quanto l'aspetto psicologico, a volte psicosomatico. E' il lato esistenziale che viene messo a fuoco: la mutazione antropologica, il ribaltarsi delle aspettative, il contrarsi degli orizzonti. Tralasciamo uno degli aspetti paradossali della condizione precaria (una generazione costretta a rimpiangere quello che la generazione precedente derideva e combatteva: l'accomodarsi dell'operaio borghesizzato nell'alienante ripetizione dello stesso immutabile compito fino alla triste quiescenza) e concentriamoci sull'aspirazione alla durevolezza. Si vuole che il posto sia eterno, il contratto di lavoro indissolubile. L'uomo ha bisogno di punti fermi, deve ancorarsi a una funzione. La persona non è altro che il lavoro svolto, o meglio il lavoro che svolgerà per sempre. Può esplicarsi solo se un contratto a tempo indeterminato gli consente l'accesso al mutuo. Non è importante quale sia questo lavoro, né la qualità o l'utilità o la corrispondenza alle inclinazioni del lavoratore, l'importante è che duri.
Chi potrebbe affermare il contrario? Chi non ha bisogno di certezze incrollabili? Un punto fermo nel mondo, ecco cosa serve a un uomo. In passato il punto fermo era rappresentato dal coniuge: malgrado i livori, nonostante i misfatti perpetrati in suo nome, la famiglia era il mancorrente dell'individuo, l'ancora della comunità. Non è curioso che ad abbandonare l'ancora sui fondali siano più propensi proprio coloro che pretendono il lavoro "per sempre"? Per sempre, come i diamanti, quelli che nella pubblicità simboleggiano le unioni tra uomo e donna. Chi non tollera l'idea del lavoro a tempo è spesso un sostenitore della necessaria precarietà del matrimonio. Parafrasando il titolo dell'ultimo romanzo di Desiati si ricavano le due attuali aspirazioni dell'operaio - soprattutto dell'operaio intellettuale: lavoro eterno e amore precario. La grande scommessa esistenziale che ci ha accompagnato nei millenni, la durevolezza del matrimonio, sconvolge gli aspiranti alla solidità del patto lavorativo. L'idea che un matrimonio possa essere "per sempre" è già da tempo archiviata ma si avverte l'urgenza di accorciare i tempi di questo arcaico contratto a tempo indeterminato. Si trova intollerabile l'attesa. E mentre si ritiene opportuno che un giudice vagli a lungo la risoluzione del contratto che lega al "datore", un vincolo poco solenne, affrettato, più casuale di qualsiasi matrimonio
combinato, proprio non va giù che si debba aspettare mesi per sfasciare una famiglia. Lo si faccia breve, questo divorzio: gli otto giorni, quelli che si danno alla domestica. Occorre rendere sbrigativo il ripudio della persona che avrebbe potuto - dovuto - timbrare con te il cartellino del sonno, collaborare a progetti condivisi, individuare "sinergie" per tirar su i ragazzi. Azzeriamo pure la famiglia, insomma, ma non scherziamo con il lavoro: quello con il posto è oggi l'unico legame che può aspirare alla sacralità. L'intermittenza del cuore va bene, quella del reddito no. Si può lottare fino alla morte per rendere indissolubile il legame con un lavoro odioso e odiato, purché sicuro, ma risulta intollerabile sfastidiarsi per la manutenzione degli affetti (bel titolo di un libro di Antonio Pascale). "La costruzione di un amore - cantava Ivano Fossati - spezza le vene delle mani/mescola il sangue col sudore, se te ne rimane". Perché l'amore non è calato da qualche parte una volta per sempre: va costruito, necessita di manutenzione, richiede l'intervento della volontà. Ma è il più alto lavoro di ingegneria, un cantiere al quale gli scrittori hanno dedicato grattacieli di pagine.