L’aritmetica nella Divina Commedia

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Transcript della presentazione:

L’aritmetica nella Divina Commedia Dante e la matematica L’aritmetica nella Divina Commedia

L’aritmetica L'aritmetica (dal greco "αριθμός", "numero"), è la branca più antica della matematica, che studia le proprietà elementari delle operazioni sui numeri. Ci si occupò di aritmetica fin dalla preistoria per motivi pratici legati soprattutto alla caccia: la più antica testimonianza è l’osso di Ishango datato tra il 20.000 e il 18.000 a.C. . Questo è dimostrato dalla tavoletta di Plimpton 322, la quale contiene una lista di terne pitagoriche che dimostrano l’esistenza di conoscenze matematiche già al tempo. Quest’ultime ebbero un ulteriore sviluppo quando, con il teorema di Pitagora, si scoprirono i numeri irrazionali come √2: si pensava che essi rovinassero la rappresentazione razionale del mondo predicata da Pitagora di Samo. Per ovviare alle difficoltà di calcolo dovute ai numeri irrazionali con la notazione greca e romana, venne introdotta quella araba, caratterizzata dalla notazione esponenziale e dalle 10 cifre (0 compreso). In Europa tale metodo di calcolo fu introdotto da Gerbert d’Aurillac e da Leonardo Fibonacci (nel suo Liber Abaci). Dante era ancora in parte legato alla numerazione romana e questo lo si può notare in alcuni passi del Purgatorio.

Le stelle Purg. XXXIII, 40-45 Apocalisse (13, 18) Con questi versi Beatrice vuol dire: io vedo per certo che stanno per sorgere delle costellazioni, libere da ogni contrasto e da ogni impedimento umano, le quali annunceranno il sorgere di un messo celeste che ucciderà la prostituta ("fuia", letteralmente "ladra") e il gigante visti poco prima da Dante, simboli rispettivamente della Chiesa corrotta e del Re di Francia, traditori della vera Chiesa di Cristo e dell'Impero. Questo inviato del cielo è indicato con un nome enigmatico: cinquecentoquindici. Questo numero richiama una nota citazione dell'Apocalisse « Io veggio certamente, e però il narro, a darne tempo già stelle propinque, secured'ogn' intoppo e d'ogne sbarro, nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, anciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque>> Apocalisse (13, 18) « Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tale cifra è seicentosessantasei. »

La Trinità Dio è Colui che vive e regna sempre essendo una Sostanza (la Divinità), due Nature (l'umana e la divina nella persona di Cristo) e tre Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. La figura retorica presente nei versi 28-30 (Par. XIV) prende il nome di chiasmo, crescente prima e decrescente poi e “danno l’impressione, di una pienezza di perfezione che in se stessa si esaurisce e su se stessa ritorna come un circolo“ (M.Porena). Par. XIV, 28-30 «Quell' uno e due e tre che sempre vive e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, non circunscritto, e tutto circuscrive»

Gli insiemi numerici Par. XV, 55-57 Dalla preistoria fino ad oggi il concetto di numero ha subito parecchi ampliamenti. Oggi si conoscono 5 insiemi numerici, contenuti in quest’ordine l’uno nell’altro: N, Z, Q, R, C. Par. XV, 55-57 Nei versi del Paradiso Dante crede che il suo pensiero discenda direttamente da Dio, così come dall’unità derivano tutti gli altri numeri. Inoltre tutti i beati, secondo lui, qualunque sia il grado della loro beatitudine, contemplano Dio nel quale, come in uno specchio, ogni pensiero umano si riflette prima ancora che venga pensato. Questa similitudine è l’anticipazione dei cinque assiomi di Peano. « Tu credi che a me tuo pensier mei da quel ch'è primo, così come raia dall'un, se si conosce, il cinque e 'l sei »

I cinque assiomi di Peano 1. Esiste il numero naturale uno 2. Ogni numero naturale ha un numero naturale ad esso successivo 3. Numeri diversi hanno successivi diversi 4. L'uno non è il successivo di alcun numero naturale 5. Ogni insieme di numeri naturali che contenga l'uno e il successivo di ogni proprio elemento coincide con l'intero insieme N dei numeri naturali Il quinto assioma è noto come principio di induzione ed è oggi molto usato in matematica. Un concetto simile è stato trovato da Dante nell’ Ars Geometrica di Severino Boezio: «Primusautemnumerus est binarius; unitasenim...numerus non est, sedfonsetorigonumerorum». Dopo Peano nacque la teoria dei numeri, avviata da Pierre de Fermat, rispetto alla quale, ancora oggi, non sono stati risolti tutti i quesiti.

L’inferno dantesco secondo Galileo Il fondo dell’inferno è un grande lago ghiacciato suddiviso in quattro zone: la Caina, l’Antenora, la Tolomea e la Giudecca. Lucifero sta nel mezzo di quest’ultima, immerso fino alla vita. Secondo Galileo Galilei è possibile calcolare la dimensione del lago di Cocito in base alla descrizione che Dante dà di Lucifero. Inf. XXXII, 22-24 «Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante » Inf. XXXIV, 28-29 «Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia... »

Inf. XXXIV. 28-33 Inf. XXXIV, 76-81 Inf. XXXIV, 109-111 «...e più con un gigante io mi convegno che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant'esser dee quel tutto, ch'a così fatta parte si confaccia!» Inf. XXXIV, 76-81 «il punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi » « Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov'elliavea le zanche, e aggrappossi al pel com'om che sale, sì che 'n inferno i' credea tornar anche.» Inf. XXXIV, 109-111 «Di là fosti cotanto quant'io scesi; quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi.» Inf. XXXIV, 116-117 «Tu hai i piedi in su picciola spera, Che l'altra faccia fa della Giudecca» Seguendo il ragionamento di Galileo, la ghiaccia arriva a metà del petto di Lucifero. Inoltre alcuni versi più sotto Dante ci dice chiaramente che l'ombelico di Lucifero coincide con il centro della Terra. Se ne deduce che la distanza che intercorre tra l'ombelico e la metà del petto di Lucifero corrisponde esattamente al raggio della superficie ghiacciata della Giudecca. Quest'ultima ha una forma sferica e non quella piatta tipica di un lago ghiacciato; ciò lo conferma a Dante lo stesso Virgilio (Inf. XXXIV, 116-117), ma ce lo dice anche la logica, visto che il centro della Terra è molto vicino, e si può camminare agevolmente solo su di una superficie di tale forma.

« il vermo reo che 'l mondo fóra » Inf. XXXIV, 18 « creatura ch'ebbe il bel sembiante » Inf. XXXI, 44-45 « orribili giganti, cui minaccia / Giove dal cielo ancora quando tuona ». Inf. XXXIII, 58-60) « La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma; ed a sua proporzione eran l'altr'ossa. » Inf. XXXIV, 108 « il vermo reo che 'l mondo fóra » Dante afferma: «più con un GIGANTE IO mi convegno / che i GIGANTI non fan con le SUE BRACCIA». Da queste parole si può ricavare una proporzione il cui risultato fa notare che il gigante è medio proporzionale rispetto a Dante e Lucifero. Dato che il braccio fiorentino corrisponde a 0,583 metri e che Dante era alto circa un metro e settantacinque, siccome un corpo secondo Galileo è alto otto teste, un gigante doveva essere alto circa 25 metri e mezzo. Perciò Lucifero dovrebbe avere avuto un’altezza di minimo 1128 metri.

Inf. XVIII, 1-9 « Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l'ordigno. Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. » Inf. XVIII, 10-18 « Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli, così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. » Inf. XXIX, 7-9 « Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. » Le Malebolge, l’ottavo cerchio dell’inferno, alto circa 28,9 km. dove sono rinchiusi i fraudolenti, è composta da 10 bolge sovrastate da ponti di pietra color ferro ed ovunque ci sono macigni ed anfratti: così questo luogo dà l’immagine dell’oscurità della frode e della tortuosità della mente che sa ingannare. Nel XVIII canto dell’Inferno è vivo un contrasto molto singolare: alla struttura rigida della sua costruzione è contrapposto uno spettacolo di caos e degrado. Ed è proprio in questo punto della Commedia che si notano alcuni errori “matematici” commessi da Dante.

Lucifero: una delle contraddizioni matematiche della Commedia Nonostante la percezione di una elevata accuratezza nel descrivere, anche dal punto di vista matematico, l’Inferno, Dante commette alcuni errori. Quello che si nota dai versi che descrivono la struttura del Cocito, è che le quattro zone che gli appartengono siano di dimensioni decrescenti verso l’interno. Inoltre riguardo Lucifero, alto più di mille metri e le cui sei ali si protendono su tutto il Cocito, c’è una contraddizione dal punto di vista delle proporzioni del suo corpo e di quello dei tre massimi traditori dell’umanità che tiene in ognuna delle sue teste: Bruto, Cassio e Giuda Iscariota. Infatti ci accorgiamo subito che l'aguzzino è sproporzionato rispetto alle vittime: se era davvero tanto grande, un solo suo dente avrebbe misurato almeno dieci metri, e sarebbe stato sufficiente per stritolare i tre traditori al primo morso. Bisogna dunque supporre che anche le anime di Giuda, Bruto e Cassio fossero viste da Dante più grandi di quanto i tre non fossero stati in vita, onde continuare ad osservare la terrificante scena del Re delle Tenebre che rode in eterno i peggiori peccatori della storia. Inf. XXX, 82-87 «S'io fossi pur di tanto ancor leggero ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia, io sarei messo già per lo sentiero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia, e men d'un mezzo di traverso non ci ha.»

I Giganti: un’altra imperfezione matematica Dante commette un’altra imperfezione quando parla dei Giganti, in particolare di Nembrot che al Poeta appare alto 25 metri e che descrive in modo tale da farci pensare che il suo corpo abbia le stesse fattezze e le stesse proporzioni di un uomo normale, solo tredici volte più alto. Ciò è impossibile; infatti il volume del colosso dovrebbe essere 2197 volte maggiore di un uomo normodotato. Inoltre possiamo pensare che la densità di muscoli, ossa e organi sia la stessa nei due individu;, quindi il gigante dantesco dovrebbe avere una massa 2197 superiore a quella di Dante. Ciò crea un grave problema, perché le superfici del corpo sono aumentate solamente di 169 volte. Dunque Nembrot è 2197 volte più pesante di Dante, ma le aree delle sezioni delle sue gambe sono aumentate solo di 169 volte, e perciò il gigante non potrebbe camminare. Potrebbe farlo solo se anche l'area della sezione delle sue gambe fosse maggiore di 2197 volte, ma per questo Nembrot e gli altri giganti dovrebbero avere i muscoli delle gambe così sviluppati che i loro arti inferiori sarebbero di tre volte e mezzo più larghi rispetto ai nostri, tanto che a Dante apparirebbero terribilmente sproporzionati. Inf. XXXIII, 60 « Ed a sua proporzione eran l'altr'ossa. » Inf. XXXI, 44-45 « gli orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona! »

Le migliaia: la più grande unità di misura per Dante Inf. VIII, 82-85 « Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?» Inf. XXXI, 115-118 « O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda, quand' Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda » Inf. XXXII, 70-72 « Poscia vid' io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de' gelati guazzi » Purg. XXXI, 118-120 « Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi » Par. XXXI, 130-132 « E a quel mezzo, con le penne sparte, vid' io più di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e d'arte » Dante non va mai al di là del concetto di migliaia. Nell'intera Commedia non si troverà mai il concetto di "milione" o di "miliardo", in perfetta sintonia con la mentalità medioevale, ancora legata alla numerazione romana. In latino infatti non esiste un termine specifico per indicare i milioni, i miliardi, e così via: per indicare il numero "un milione" gli antichi Romani dicevano "decies centena milia", cioè "dieci centinaia di migliaia". Così Dante con “mille” o “più di mille” indica genericamente "un numero enorme”.

Bibliografia e sitografia Dante Alighieri, La Divina Commedia L’aritmetica (http://it.wikipedia.org/wiki/Aritmetica) Storia dell’aritmetica (http://it.wikipedia.org/wiki/Aritmetica#Storia) Dispense scolastiche (Divina Commedia: l’Aritmetica) AUTORE Silvia Boscato - Classe 3^ C1 ITI “V.E.MARZOTTO” - Valdagno a.s 2012/2013