Elementi di linguistica sarda

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Elementi di linguistica sarda Giovanni Lupinu Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Sassari Lezione n. 7

Il secondo superstrato italiano Durante la dominazione iberica la conoscenza e la diffusione dell’italiano, pur non cessando del tutto, si attenuarono parecchio, per poi riprendere a partire dal 1720, quando la Sardegna passò ai Piemontesi e, più tardi, entrò a far parte dello Stato italiano. Non bisogna pensare che il passaggio ai Piemontesi abbia provocato un brusco mutamento degli usi linguistici: l’isola era ormai profondamente spagnolizzata, con lo spagnolo (e ancora, in qualche misura, il catalano) lingua ufficiale ed elevata e il sardo dominante fra le classi non colte (la stragrande maggioranza della popolazione).

Ci furono anche iniziative assai decise a favore della diffusione dell’italiano, come quella del ministro Bogino che, nel 1760, rendeva obbligatorio l’utilizzo di tale lingua nelle scuole e il suo impiego nell’ufficialità. In ogni caso, quella dell’italiano fu un’espansione assai lenta e graduale, che dovette tener conto della situazione di partenza, in particolare della diffusa dialettofonia: solo nel XX sec., specie dopo le guerre mondiali, l’italiano troverà in Sardegna una diffusione e un impiego realmente capillari.

All’indomani dell’unificazione (1861) In un’opera assai importante del 1963, il linguista Tullio De Mauro poneva per la prima volta un problema cruciale (anche in relazione alla Sardegna): quanti erano gli italofoni nel 1861, all’indomani dell’unificazione? Sino ad allora, in modo quanto meno ingenuo, il numero degli italofoni era stato considerato uguale a quello degli Italiani. In realtà, possiamo dire che l’uso dell’italiano era ristretto ai ceti colti e benestanti e solo a situazioni pubbliche e solenni: la stragrande maggioranza della popolazione parlava unicamente il proprio dialetto.

Al di là di questa prima, fondamentale approssimazione, è possibile arrivare a dati più precisi, sia pure per via indiretta. Nel 1861, infatti, si aveva il primo censimento della popolazione: il 75% degli individui sopra i 5 anni di età era costituito da analfabeti (è un dato altissimo: a metà dell’Ottocento in Svezia siamo intorno al 10%, in Prussia al 20% ca., in Inghilterra e Svizzera al 30% ca., in Austria e Francia al 40% ca., in Spagna al 75% ca., in Russia al 90% ca.). A proposito della situazione italiana e delle singole regioni (Sardegna compresa), si veda la tabella nella diapositiva seguente (fonte: De Mauro).

Tasso di analfabetismo fra la popolazione di più di 5 anni di età Fonte: T. De Mauro

Come si vede chiaramente, in questo quadro desolante la Sardegna stava all’ultimo posto (bisognerà attendere il 1921 per arrivare a un tasso di analfabetismo inferiore al 50%). A questo punto si può tornare alla domanda iniziale, relativa al numero di coloro che, al momento dell’unificazione, sapevano parlare l’italiano. Il primo elemento utile da tenere presente è che allora l’italiano non era lingua usata nella comunicazione quotidiana: dunque non si poteva apprendere per semplice “immersione”, come avviene oggi.

In un simile contesto, italofono era soltanto chi avesse potuto apprendere l’italiano attraverso un’istruzione scolastica prolungata, protrattasi almeno qualche anno dopo le elementari, ciò che garantiva un contatto duraturo con la lingua nazionale. Se dunque escludiamo dal numero degli italofoni gli analfabeti totali e coloro che avevano avuto un’istruzione insufficiente, arriviamo, fuori di Roma e della Toscana, all’8‰ della popolazione (circa 160.000 individui su 20 mil.).

A questi 160.000 individui bisogna aggiungere i Toscani e i Romani: in Toscana e a Roma, infatti, la capacità di esprimersi in italiano era generalizzata (per ragioni diverse: la vicinanza strutturale del toscano all’italiano da un lato, dall’altro una situazione storica, a partire dal Cinquecento, che favorì a Roma una diffusione capillare dell’italiano). Sommando i Toscani e i Romani, arriviamo a 600.000 italofoni: appena il 3% della popolazione. Il dato che possiamo riferire alla Sardegna, tuttavia, è ancora più basso di quell’8‰ che si commentava sopra, considerando il tasso di analfabetismo di partenza.

Fattori dell’italianizzazione linguistica Come lingua dell’uso, dunque, nel 1861 l’italiano era in Sardegna (e non solo in Sardegna) pressoché inesistente. A fianco alla scuola, e per certi versi più efficaci della scuola, i fattori che giocarono a favore dell’italianizzazione linguistica furono diversi. In particolare, furono decisivi l’apertura verso l’esterno imposta dall’esperienza delle due guerre mondiali, il servizio militare obbligatorio (svolto spesso in caserme della penisola), i fenomeni di urbanesimo e di espansione di nuove forme di economia, la creazione di una rete stradale capace di porre rimedio all’isolamento delle regioni centrali, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, cinema e, a partire dal 1954, la televisione).

La seconda italianizzazione Il risultato dei processi sopra descritti in modo sommario è che – come si vedrà meglio più avanti – oggi è l’italiano e non il sardo la lingua materna di numerosissimi giovani. Tutto questo, visto dal punto di vista della storia della lingua sarda, ha avuto conseguenze vistose: dopo la prima italianizzazione, dopo il 1000, si è avuta una seconda italianizzazione, ben più potente, i cui effetti sono sotto i nostri occhi e che mette a rischio la sopravvivenza stessa del sardo.

Sostituzioni lessicali Per es., è accaduto e accade continuamente che vocaboli più antichi siano sostituiti da italianismi: anziché luègo, luègu etc. (di origine spagnola), per “subito” si sente sempre di più súbbitu; anziché aorrare, aurrare, aorrai (di origine spagnola), o istraviare, straviai (di origine catalana), per “risparmiare” è d’uso comune l’italianismo risparmjare, risparmjai; anziché pústis e simm. (di origine latina), per “poi” si sente sempre più spesso pói; anziché nađále (di origine latina), molti giovani tendono a dire, all’italiana, dičèmbre.

L’influsso dell’italiano, inoltre, si nota nel fatto che quei settori del vocabolario che vanno a rappresentare le nuove tecnologie, le nuove realtà sociali, culturali, politiche ed economiche sono presi di peso dalla lingua nazionale, con qualche minimo adattamento. Accade così che nei più recenti dizionari della lingua sarda si incontrino voci di questo tipo: aeróbbiku, autokráve, komunísta, kóntu kurrènte, parlaméntu, púlma, sintássi, telégrafu, termómetru, trattòre etc.

Influssi sulla fonetica e sulla sintassi Anche nel campo della fonetica, ossia della pronuncia, l’influsso dell’italiano si fa sentire. Per es., nelle giovani generazioni tendono a scomparire le articolazioni retroflesse, tanto caratteristiche del sardo: così, per “gallina” si sente sempre di più púdda e sempre di meno púḍḍa. Anche nella sintassi è evidente l’influsso dell’italiano: già il Wagner, nel 1950, segnalava l’esistenza come di due sintassi del sardo, una popolare, conservativa, l’altra cittadina e borghese, italianizzante.

Un simile influsso sulla sintassi del sardo interessa, per es Un simile influsso sulla sintassi del sardo interessa, per es., l’ordine delle parole in certi costrutti, come quello del sostantivo con l’aggettivo. L’ordine più antico del sardo è Sost. + Agg.: per es. un’ ómine ónu “un brav’uomo”. Sempre più spesso, però, si osserva l’inversione di questo ordine, sul modello dell’italiano: per es. una òna ƀessòne “una brava persona”. La morfologia, invece, si dimostra più impermeabile a simili influssi.

Breve bibliografia T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari 1963. I. Loi Corvetto, La Sardegna, in I. Loi Corvetto, A. Nesi, La Sardegna e la Corsica, Torino 1993, pp. 1-205. M. L. Wagner, Dizionario etimologico sardo, Heidelberg 1960-64. M. L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Nuoro 1997.