L’espressione del popolo romano un’arte.

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L’espressione del popolo romano un’arte

Circolo degli Scipioni Mimo Fabula trabearia Fabula tabernaria Andronico Nevio Urbanitas Liberalitas Commedia Il Teatro - l'età arcaica - Plauto Ennio Fabula praetexta Humanitas Circolo degli Scipioni Fabula cothurnata Ludi scaenici Terenzio Stazio Tragedia Fabula palliata Fabula togata Pacuvio Accio Vai all’introduzione Atellana Fescennini Satura

A Roma, all’origine, non si diede molta importanza al teatro A Roma, all’origine, non si diede molta importanza al teatro. I ludi furono, infatti, le prime forme di spettacolo teatrale che si svolgevano nel Circo Massimo in onore di Giove, Giunone e Minerva, vale a dire di quella che per i Romani era la Triade Capitolina. Le principali forme di rappresentazioni furono l’atellana, la satura, il mimo ed i ludi, che successivamente, a partire dal 364 a.C. , arrivarono a comprendere anche quelli scenici. Questi esempi teatrali furono istituiti perché i Romani non riuscivano a debellare una pestilenza per cui, per placare gli dei, organizzarono tali ludi scenici chiamando a Roma dall'Etruria i ludiones, vale a dire degli attori specializzati a danzare gesticolando accompagnati dal suono di un flauto. L'influenza della cultura etrusca però ben presto lasciò il posto a quella più raffinata e colta della Grecia. Successivamente con Livio Andronico si passò a rappresentazioni teatrali drammatiche; il 240 a.C. segna ufficialmente la nascita del teatro a Roma, anno in cui venne rappresentata la prima opera drammatica dello stesso Andronico. Con il passare del tempo le rappresentazioni comiche, da una parte, e le rappresentazioni drammatiche, dall’altra, presero piede fortemente a Roma affermandosi come un modo di evasione per i Romani dalla vita quotidiana, assai amara e dura. Impulso all’affermazione del teatro fu dato dal Circolo degli Scipioni grazie ad una nuova concezione della socialità romana che si potrà percepire dalle prime tragedie di Ennio agli anni a seguire: l’ Humanitas.

Il teatro romano - l'età arcaica - Forme drammatiche preletterarie Il teatro delle origini I generi teatrali L’organizzazione degli spettacoli teatrali Tratti essenziali del teatro L’edificio scenico Gli autori Credits

Forme drammatiche preletterarie I Fescennini La forma più antica di arte drammatica presso i Romani furono gli scherzi fescennini, una sorta di farsa campagnola in cui alcuni contadini, affidandosi all’improvvisazione, si scambiavano insulti volgari ed osceni. I contadini, dopo aver messo al sicuro il raccolto, facevano festa, per un verso offrendo doni agli dei e per l’altro dando vita a questa singolare forma di divertimento. All’inizio tali scherzi erano inoffensivi, poi cominciarono ad attaccare le persone più in vista, per cui si approvò una legge che ne ridimensionava l’asprezza e la violenza. Sull’origine del termine fescennino gli studiosi ci hanno fornito di due interpretazioni. La prima connette i fescennini con la città etrusca di Fescennium; la seconda interpretazione fa derivare fescennino da fascinum (malocchio), ponendo, quindi, l’accento sulla funzione apotropaica di tale rito: lo scambio di insulti accompagnato da oscenità di linguaggio e da esibizione di oggetti indecenti, avrebbe la funzione di stornare il malocchio e di augurare abbondanza e fertilità.

Satura Più recente dei fescennini deve essere stata un’altra forma drammatica, la satura, sulla quale si rivela prodigo di notizie Tito Livio. In un brano dei suoi Ab urbe condita libri ci racconta che, in seguito ad una grave epidemia, poiché non si riusciva a placare gli dei, furono rappresentati a Roma dei ludi scaenici. I Romani fecero venire dall’Etruria degli attori che diedero uno spettacolo di danza al suono del flauto. Il successo fu tale che i giovani Romani cominciarono ad imitarli inserendo nello spettacolo rozze volgarità. Col passare del tempo tali performances non vennero più rappresentate da dilettanti ma da attori di professione, ed i dialoghi, dapprima improvvisati, furono regolati da un testo scritto. A tale tipo di spettacolo fu dato il nome di satura. Le ipotesi sull’origine del termine sono moltissime. Tra queste, però, la più accreditata è una delle quattro forniteci da Diomede, un grammatico del IV secolo d. C. secondo questa interpretazione lo studioso faceva risalire tale forma drammatica dal piatto (lanx) che, pieno di molte e diverse primizie, veniva offerto agli dei; per l’abbondanza e la molteplicità dei doni, la lanx veniva detta satura, cioè “piena, ricca”.

Atellana In età più antica rispetto ai fescennini sembra essersi sviluppata una farsa rustica in cui comparivano personaggi-tipo tradizionali ma in situazioni ridicole. I Romani la chiamavano farsa osca, in riferimento all’ambito geografico in cui era nata, oppure atellana, dalla città di Atella in Campania. Si pensa che queste farse venissero rappresentate durante le Quinquatruus ed i Saturnalia. Tipici delle atellane erano i personaggi, maschere fisse sul tipo della nostra commedia dell’arte. Non se ne conosce una lista ufficiale, ma pare che se ne possano individuare almeno cinque: Maccus, Bucco, Pappus, Dossenus, Manducus. Sul piano dei contenuti l’atellana si sviluppa come una rappresentazione esasperata dei vizi e dei difetti dell’uomo comune. Ad essere presi in giro erano particolari categorie sociali, come il contadino, il forestiero, oppure tipi umani, come il vecchio, l’ingordo, il lussurioso; altre volte ci si accaniva sui difetti fisici. La satira di tali personaggi era fatta per lo più all’insegna della volgarità che, quando si condiva di sessualità, diventava oscenità. Tale oscenità è legata al fatto che, probabilmente, l’atellana era in origine uniti ai rituali della fecondazione. Questo tipo di rappresentazione si basava sull’abilità degli attori che improvvisavano le battute giacché non possedevano un testo scritto.

Mimo Il mimo, a differenza degli altri generi drammatici preletterari che derivavano dall’italum acetum, ha chiara matrice greca. Tale tipo di spettacolo deve essere stato particolarmente sentito presso le popolazioni siceliote dal momento che i primi due scrittori di mimi furono siracusani. È così chiamato perché riproduceva realisticamente scene di vita quotidiana. La parola, infatti, deriva dal greco miméomai che significa, appunto, “io imito”. A rappresentare queste scene di vita erano attori che recitavano senza maschera giacché si esprimevano attraverso la mimica facciale. L’assenza delle maschere comportava che le parti femminili fossero interpretate da donne e non come avveniva per gli altri generi teatrali. I teatranti del mimo erano piccole compagnie, costituite da uomini donne e bambini, che girovagavano di paese in paese per trovare una piazza dove potessero allestire i loro piccoli palcoscenici ed esibirsi. Queste rappresentazioni venivano eseguite a Roma durante le feste in onore della dea Flora.

Il teatro delle origini I ludi scaenici Fin dall’antichità si celebravano in onore di alcune divinità delle feste (ludi), nel corso delle quali si svolgevano spettacoli circensi, gare atletiche, combattimenti di gladiatori, ecc. Una parte dei giorni festivi veniva impiegata anche per le rappresentazioni drammatiche (ludi scaenici). I giorni di festa andarono via via aumentando fino a giungere a cifre veramente sbalorditive. Il popolo romano tendeva a passare gran parte della sua vita a teatro; era, insomma, un popolo di spettatori. È anche vero, però, che nel periodo arcaico, il rapporto tra ludi circenses e ludi scaenici era nettamente favorevole ai primi. Al tempo di Livio Andronico, infatti, erano dedicati alla rappresentazione di commedie e tragedie non più di quattro o cinque giorni all’anno, nell’ambito di altrettante feste religiose. Di queste le più importanti erano: i ludi Romani, in onore di Giove, che venivano celebrati nel Circo Massimo nel mese di settembre; i ludi plebeii, sempre in onore di Giove, ma celebrati a novembre nel Circo Flaminio; i ludi Apollinares, a luglio in onore di Apollo; i ludi Megalenses, in aprile in onore di Cibale, la Magna Mater; i ludi Florales, in aprile in onore di Flora. Oltre che in queste occasioni ufficiali, spettacoli scenici potevano essere rappresentati in altre circostanze, sia pubbliche che private.

I generi teatrali Il teatro latino regolare nasce quando Livio Andronico per la prima volta metteva in scena una vicenda in sé compiuta. A tale vicenda viene dato il nome di fabula. Tale termine solitamente si accompagna ad un aggettivo che ne qualifica meglio i contenuti. I grammatici distinsero nell’ambito del teatro letterario sei tipi di fabulae, quattro appartenenti al teatro comico e due al teatro tragico. Fabulae del teatro comico Fabulae del teatro tragico

Fabulae del teatro comico Clicca per vedere le immagini Fabulae del teatro comico Fabula palliata: così è chiamata la commedia latina derivante dal rimaneggiamento di una o più commedie greche. Il nome deriva da pallium, tipico mantello greco, e sta ad indicare una rappresentazione in cui personaggi e vicende sono ambientati in una località della Grecia; Fabula togata: è pressoché contemporanea della palliata, o comunque di poco posteriore. Il nome deriva dalla toga, il tipico abbigliamento romano, ed indica una commedia in cui vicenda, personaggi ed ambiente rappresentati sono di origine italica; Fabula tabernaria: è affine alla togata, tanto che da molti viene identificata con essa. Prende il nome da taberna, con cui si indicavano le bettole, le osterie, oppure le baracche, le abitazioni dei poveri; Fabula trabearia: si distingue dalle altre fabulae per il suo contenuto borghese. Il nome deriva da trabea, la tipica veste dei cavalieri.

Fabulae del teatro tragico Fabula cothurnata: prende il nome dai calzari che usavano gli attori tragici. È chiamata anche crepidata, dalle crepidae, tipici sandali greci. Le coturnate erano, dunque, tragedie in cui personaggi, vicende ed ambienti erano tratti dalla storia e dal mito greci; Fabula pretesta: così chiamata dalla toga pretesta che indossavano i magistrati romani. Con essa si voleva indicare la tragedia ispirata alla storia di Roma.

L'organizzazione degli spettacoli teatrali Come si preparava uno spettacolo teatrale? Le autorità politiche che si interessavano dell’organizzazione delle rappresentazioni erano gli aediles e il praetor urbanus. Tra i compiti di questi preposti all’organizzazione degli spettacoli rientravano l’allestimento dello spazio teatrale, l’acquisto di tante opere drammatiche quanti erano i giorni fissati per i ludi scenici, la scelta della compagnia cui affidare la messa in scena degli spettacoli. Il direttore della compagnia si preoccupava di preparare la rappresentazione, curandone i costumi, la musica, la scenografia. Egli era il più delle volte anche il primo attore, e ovviamente riservava per sé il ruolo di protagonista del dramma da rappresentare. L’allestimento dello spettacolo era un’operazione complessa. Oltre alla scenografia ed ai costumi, bisognava pensare alla recitazione, alla danza e soprattutto alla musica. La compresenza di musica danza e dialoghi rende questo spettacolo antico in qualche modo simile alla nostra moderna operetta. Danza e musica non venivano effettuate, però, fuori dal palcoscenico, ma sulla scena a contatto diretto con gli attori. Il tutto aveva la funzione di catturare emotivamente il pubblico. Il successo di uno spettacolo avrebbe fatto la fortuna del capocomico, dell’attore e soprattutto del magistrato organizzatore.

Gli attori e le compagnie Clicca per vedere le immagini La professione dell’attore godette sicuramente di un grosso prestigio in Grecia, ma certamente non a Roma: qui, gli attori ("grex") di drammi "regolari" erano schiavi o liberti, mentre quelli delle "Atellanae" erano uomini liberi. Essi, ancora, si dividevano in due categorie principali: gli "histriones" e i "mimi". Quasi certamente, soltanto con Roscio - il più grande attore della romanità, vissuto ai tempi di Cicerone e da lui, anzi, difeso in una famosa orazione - si riuscì a riabilitare tale professione. Riguardo, invece, i primi attori "illustri", di Livio Andronico sappiamo con certezza che fu anche "primo attore" dei suoi drammi; lo stesso Plauto fu forse in gioventù attore di atellane, mentre è incerto se e quando abbia recitato nelle sue commedie; al contrario, Stazio e Terenzio, quasi certamente, non calcarono mai le scene. Oltre agli attori, delle compagnie teatrali ("catervae") facevano parte il già citato "capocomico" ("dominus grecis"; uno dei più famosi fu Ambivio Turpione, amico di Terenzio), un "conductor" (direttore delle prove) e il "choragus", una sorta di "tuttofare" che forniva i costumi e provvedeva alla messinscena.

Clicca per vedere le immagini I costumi I costumi cambiavano a seconda del genere teatrale: commedia, tragedia e atellana. Per tutte le rappresentazioni di ambientazione greca gli "histriones" vestivano abiti che richiamavano molto da vicino gli omologhi ateniesi (in special modo: il "pallio", da cui il termine "palliata" per designare sia commedie che tragedie di questo tipo; e i "cothurni", una speciale calzatura greca, che accresceva la statura e la dignità dell'attore, da cui il termine "cothurnata", sempre per designare tragedie d'argomento greco; nelle commedie si adoperava invece una calzatura più "umile" e bassa, il "soccus"). Invece, per le rappresentazioni di ambientazione romana, gli attori indossavano la classica "toga" (da cui il termine "togata" per designare commedie di questo tipo), talora "praetexta" (l'abito tipico dei magistrati), se si trattava di rappresentazioni a contenuto tragico. Anche il colore delle vesti, insomma, insieme con altri "accessori" ancora, serviva a caratterizzare i personaggi secondo la loro funzione. A tal scopo, i costumi di certi attori - al di là dello stesso "pallio" - erano quasi sempre gli stessi, sicché era facile riconoscerli al loto primo apparire sulla scena: così, il soldato portava la spada e la clamide, il messaggero il tabarro e il cappello, il villano la pelliccia, il parassita il mantello, il popolano il farsetto. Come già accennato, poi, i ruoli femminili (tranne che nei "mimi") erano sostenuti da attori maschi. Infine, anche i "mimi" stessi avevano un loro abbigliamento tipico e stabile, che permettesse d'inquadrare immediatamente i "tipi" ch'essi interpretavano: ad es., il "mimus albus", vestito tutto di bianco e il "mimus centuculus", dall'abbigliamento al contrario multicolore.

Clicca per vedere le immagini Le maschere Clicca per vedere le immagini Le maschere romane, sul modello di quelle greche, erano di legno o più semplicemente di tela, con applicata una capigliatura: il loro uso facilitava l’interpretazione degli attori, non solo perché essi dovevano impersonare più ruoli, o personaggi di aspetto simile, ma anche perché i tratti del viso erano esagerati (e dunque potevano meglio essere rilevati dagli spettatori) e la bocca era fatta in modo da rafforzare il suono della voce ("ut per-sonaret", da cui - secondo alcuni - deriverebbe il termine con cui la designavano Romani, "persona"): cose, queste, rese necessarie dalla ordinaria vastità degli antichi teatri. Un problema particolare, poi, è rappresentato dalla "controversa" origine della stessa maschera e del suo effettivo uso: se è data oramai quasi per scontata la sua derivazione, originaria e "funzionale", dagli Etruschi (tanto che il termine "persona", secondo altri, le proverrebbe addirittura dal dio etrusco "Phersus"), e se si può attestare che il suo uso era d'obbligo nella tragedia, non altrettanto certo ne appare l'uso nella commedia (anche se ciò non spiegherebbe come gli attori ovviassero a quei casi in cui occorrevano sulla scena due personaggi di aspetto perfettamente identico): si è ipotizzato, quindi, ch'essa sia stata introdotta nella commedia solo nel 130 a.C., dal "capocomico" Minucio Protimo, e che il suo uso fosse stato definitivamente "stabilizzato" solo grazie a Roscio. Nel teatro dei "mimi", la maschera invece non esisteva, e vista la popolarità di questo genere, man mano essa probabilmente scomparve in modo definitivo dal teatro romano.

Clicca per vedere le immagini La musica Clicca per vedere le immagini Alla musica, all'interno dello spettacolo, era affidata una funzione importantissima: il flautista ("tibicen") accompagnava, con apposite melodie, gli attori nelle parti declamate e dialogate ("diverbia") o cantate ("cantica"), tranne in quelle in senari giambici (sembra che i primi suonatori siano venuti a Roma dall'Etruria). L'accompagnamento, ch'era più di un semplice "corredo" musicale, veniva fatto con la "tibia": questa era semplice o doppia (costituita, cioè, da due tubi di lunghezza variabile) e si distingueva in "dextera " e "sinistra ", a seconda che era suonata tenendola appunto con la destra o la sinistra, o imboccandola dal lato destro o sinistro della bocca. In realtà, l'indicazione finiva col designare il diverso tono dello strumento, rispettivamente l' "alto" e il "basso": dipoi, i suoni più gravi, ottenuti con tibie di uguale lunghezza, si addicevano maggiormente alle parti "serie" della commedia, mentre quelli più acuti, ottenuti con tibie di diversa lunghezza, si addicevano alle parti più comiche. L’accompagnamento del musico aveva, inoltre, delle convenzioni molto rigide (il pubblico era in grado di capire il personaggio che sarebbe entrato, o cosa sarebbe accaduto dalla sola musica di introduzione) e accompagnava lo spettacolo dall’inizio alla fine spostandosi, a volte, insieme ai personaggi. Purtroppo, la musica del teatro romano è andata tutta perduta, e non si è in grado di ricostruire in alcun modo, per quest'aspetto, lo spettacolo: grave lacuna, che c'impedisce di valutare appieno la natura e il carattere del teatro romano comico e tragico.

Prologo e Coro Da Euripide - che per primo ebbe l'idea dell'uso del "prologo" per illustrare agli spettatori, prima dell'inizio del dramma, l'antefatto dell'azione, l'azione stessa e la sua conclusione - discende una linea retta che porta alla "commedia nuova" e di qui al teatro comico latino: più specificamente, come vedremo, in Plauto il prologo avrà per lo più funzione espositiva, mentre in Terenzio esso compirà l'importante e originale funzione di esporre le ragioni artistiche dell'autore, in polemica con avversari e detrattori. Riguardo il "coro", invece, c'è da dire che se la tragedia conservò grosso modo la struttura dei modelli greci, compresa la divisione in cinque parti, la commedia, invece, ci si presenta, nella realizzazione degli autori latini, con caratteri compositivi alquanto differenti da quelli dei modelli suddetti: il coro, appunto, che nella "commedia nuova" esisteva con funzione d'intermezzo, venne abolito, e con esso cadde anche la divisione in atti, mentre presero grande sviluppo, almeno per quanto possiamo valutare da Plauto, proprio le parti cantate dagli stessi attori, con effetti di grande spettacolarità e di grande presa sul pubblico (come forse già sperimentato da Livio ed Ennio), laddove nei modelli greci erano per lo più dialoghi o monologhi semplicemente recitati (Terenzio, invece, più "fedele" a Menandro, preferì notevolmente il parlato al canto).

Infine è interessante la notizia che il cantante, che intonava il suo canto stando in primo piano sulla scena, talvolta si faceva letteralmente "doppiare", poiché si limitava a mimare il canto, mentre un altro esecutore, nascosto in fondo alla scena, gli prestava la voce (pare che la "trovata" sia stata di Livio Andronico, che - recitando di persona una delle sue opere - la escogitò per ovviare ad una caduta di voce, a causa dei numerosi, acclamati "bis").

Andronico Nevio Plauto Ennio Gli autori Stazio Terenzio Pacuvio Accio

Andronico LE OPERE Vita Si può giudicare Andronico l'iniziatore della letteratura latina: di lui, abbiamo 9 titoli di tragedie, tutte coturnate, dedicate alla guerra di Troia, mito "eziologicamente" caro ai Romani (Achilles, Aiax mastigophorus, Equos troianus, Aegisthus, Hermiona, Andromeda, Tereus, Danae e Ino); tre commedie, per altro incerte, ("Gladiolus", ovvero "Sciaboletta", una sorta di soldato "ammazzatutti", Ludius o Lydius, Virgo o Vargus), tutte d'ambientazione greca (con modelli in Menandro e Filemone), genere di cui può ben dirsi l' "inventor " (egli fu anche attore delle sue rappresentazioni); il "partenio" (= canto per un coro di vergini), di cui però nulla conserviamo. Di questa intensa produzione, di cui ci restano pochissimi frammenti se non addirittura solo i titoli, è difficile dire quanto si trattasse di semplici traduzioni, di adattamenti o di riduzioni di opere greche, e quanto fosse invece il contributo della farsa italica. Vita Primo intellettuale e letterato romano. I limiti cronologici esatti della vita di Livio Andronico ci sono sconosciuti: sappiamo soltanto che era un ex schiavo, probabilmente di Taranto (Svetonio lo chiamerà "semigraecus"), e che partecipò alla guerra tra Taranto e Roma al seguito del suo protettore, il senatore Livio Salinatore, il quale lo affrancò e gli concesse il "prenomen", dopo avergli affidato l'educazione dei figli. Due sono, comunque, le tappe importanti a noi note della sua carriera: 240, quando una sua opera fu il primo testo drammatico rappresentato a Roma (è da questo momento che tradizionalmente si fa cominciare la storia della letteratura latina); 207, quando compose un "partenio" in onore di Giunone, ovvero un "carmen" propiziatorio cantato in una solenne processione per le vie di Roma, durante la II guerra punica. Riconosciuta, infine, fu la sua "associazione professionale", il "collegium scribarum histrionumque", la corporazione di scrittori ed attori, con sede nel tempio di Minerva, sull'Aventino.  

LO STILE e il LINGUAGGIO Tipica delle rappresentazioni teatrali di Livio Andronico è senza dubbio la ricerca del "pathos ", della tensione drammatica, della solennità: non disdegna, così, arcaismi, o di ricorrere al formulario religioso. Importante è anche la presenza di una certa briosità descrittiva. I modelli tragici cui s’ispirò, a tal proposito, furono verosimilmente testi attici del V sec. (soprattutto Sofocle ed Euripide). Nelle commedie non è possibile tracciare un quadro chkaro delle tecniche stilistiche utilizzate da Andronico. Tuttavia si può ipotizzare dai pochi frammenti pervenutici una maggiore libertà e autonomia del traduttore rispetto al suo modello Il merito di Livio Andronico non fu tanto di introdurre a Roma la letteratura greca, o di coniugare il momento dell'oralità con quello della scrittura, quanto piuttosto di concepire la possibilità stessa di una letteratura in lingua latina sul modello delle opere greche, e di nobilitare al tempo stesso la lingua e la metrica latine. Egli, come visto, compose - su questa riga - paritempo tragedie, commedie e un'epopea, fondando così tre generi che avrebbero dato origine, molto presto, ad una straordinaria fioritura.

Nevio Vita LE OPERE "Civis" romano, ma "sine iure suffragii" (ovvero, senza diritto di voto nelle assemblee di Roma, e ciò in quanto propriamente campano, e non romano), Nevio combatté nella I guerra punica (264-241). Probabilmente era un plebeo di nascita e questo spiega il fatto delle sue frequenti sortite politiche antinobiliari: non abbiamo inoltre indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici. Si sospetta che fosse stato incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi drammi, soprattutto contro la potente famiglia dei Metelli: famosissimo, a riguardo, l'aneddoto del suo famoso, ambiguo saturnio "fato Metelli Romae fiunt consules" ad esso, i Metelli avrebbero risposto con un saturnio divenuto altrettanto famoso: "dabunt malum Metelli Naevio poetae". Morì durante l'esilio, forse volontario, in Africa (dove ebbe anche occasione di trarre materiale per il suo capolavoro epico). Nevio è il primo letterato latino di nazionalità romana, e ci appare anche come il primo letterato latino vivacemente inserito nelle vicende contemporanee. Fece recitare la sua prima rappresentazione nel 235.  Di Nevio si conoscono: 2 praetexte (tragedie di ambientazione romana), il "Romulus" (sulla mitica fondazione di Roma) e il "Clastidium" (celebrazione di Marco Claudio Marcello, vincitore degl'Insubri nella decisiva battaglia omonima, nella guerra di Gallia); almeno 6 tragedie mitologiche: "Equos troianus" (l'argomento piaceva ai romani), "Lesiona" (altra leggenda relativa alle catastrofi troiane), "Hector proficiscens", "Iphigenia" (probabilmente un'"Ifigenia in Tauride"), "Danae" e "Lycurgus", (rappresentazione dionisiaca senza alcun dubbio in rapporto col diffondersi del culto di Bacco nell'Italia meridionale e nel Lazio durante gli ultimi decenni del III sec.); 1 commedia, la "Tarentilla" ("La ragazza di Taranto"), ossia il ritratto di una ragazza civettona; ma ci rimangono almeno altri 27 titoli, purtroppo con soltanto un'ottantina di frammenti, per un totale di 125 versi, non pochi incompleti.

LO STILE e il LINGUAGGIO Nel teatro Nevio fu un innovatore: introdusse per primo la novità delle "praetextae", e alla sua famigerata "libertà di parola e di pensiero" aggiunse, sempre per primo, e in modo "sistematico", l'espediente della "contaminatio" (commedie ibride di elementi o scene desunte da più modelli greci), che tanta fortuna avrà nella successiva produzione teatrale latina. Inoltre, dai pochi frammenti giunti a noi si rileva, per un verso lo sforzo di latinizzare la relativa terminologia grecaa attraverso il conio di gruppi nominali composti, sull’esempio greco; dall’altro, la presenza di veri e propri grecismi. E' un peccato, poi, aver perso le opere comiche di Nevio: egli, molto probabilmente fu, infatti, poeta più grande nella commedia che nella tragedia: usò, nei suoi intrecci e soprattutto nel suo linguaggio, una "fantasia" tale (secondo alcuni, paragonabile addirittura ai testi plautini) che gli antichi - nel loro particolare "canone" - gli conferirono, in quel genere, la palma del terzo posto, dopo lo stesso Plauto e Cecilio Stazio.

Plauto LE OPERE Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta una serie di commedie a suo nome, molte delle quali rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.C., ne circolavano addirittura 130 titoli. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio Varrone, le studiò ("De comoedis Plautinis") e le suddivise in tre gruppi: - 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae Varronianae"); - 19 di attribuzione incerta - tutte le altre considerate spurie. L’autorità di Varrone fu tale che si continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine, e oggi perdute: quali "Commorientes", "Colax", "Gemini lenones", "Condalium", "Anus", "Agroecus", "Faerenatrix", "Acharistio", "Parasitus piger", "Artemo", "Frivolaria", "Sitellitergus", "Astraba". Attraverso le relative "didascalie" (ossia brevi notizie che i grammatici solevano dare, valendosi delle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie drammatiche, intorno alla prima rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo esito), sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e dello "Pseudulus" (191 a.C.): la cronologia delle altre è definibile solo in base ad elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla "farsa" ad una specie di "opera buffa" (va però detto che nessuna ipotesi evolutiva generale s’è affermato nettamente e definitivamente). Vita Sappiamo poco di Plauto uomo e le notizie che possediamo sono poco attendibili: nato come attore di successo, avrebbe investito malamente il capitale in commercio, ricoprendosi di debiti e costringendosi a guadagnarsi da vivere in un mulino girando la macina. In questo periodo cominciò a comporre commedie, fra cui il "Saturio" ("Il pancia piena") e l’ "Addictus" (schiavo per debiti), che già dai titoli richiamano gl'infelici rovesci personali; e una terza, dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio: alieno della politica, ma non insensibile agli avvenimenti del tempo, visse interamente della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo: egli, insomma, scriveva per vivere, la sua scrittura era non più che mera professione. Inoltre, Cicerone, nel "De senectute", afferma che Plauto compose da "senex" alcune commedie fra cui lo "Pseudulus": nel 191 a.C., doveva essere quindi già vecchio. Sempre Cicerone, nel "Brutus", ci rivela l'anno della sua morte. I codici, che contengono le commedie di Plauto, ci hanno tramandato il suo nome completo, Tito Maccio Plauto. Ma "Tito" e "Maccio" sembrano fittizi: "Maccio", infatti, deriverebbe dall'omonima maschera atellana; lo stesso termine "Plautus" può significare o "piedi piatti" oppure "orecchie lunghe e penzoloni". Molto probabilmente, quindi, si tratta di nomi d’arte che Plauto aveva usato durante l’attività di attore.

I maggiori personaggi sono: I personaggi di Plauto non sono dei caratteri individuali ma delle maschere fisse, dei "tipi", e per questo già noti al pubblico nel momento stesso in cui si presentano sulla scena: anche i loro nomi propri servono esclusivamente a ribadirne la fissità del ruolo scenico. I maggiori personaggi sono: *L’ "adulescens": il giovane innamorato è sempre languido e sospiroso, perduto in un amore che lo travolge e lo paralizza, incapace di superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri "alti" e patetici della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici; *Il "senex": il vecchio viene caratterizzato in modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato, che cerca inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescentes; ma talvolta è anche un ridicolo e grottesco concorrente dei figli nella battaglia per la conquista della donna desiderata. Nelle vesti dell’amico o del vicino: può ad esempio essere alleato dei giovani oppure fornire un burlesco doppio del senex innamorato; *La "meretrix": minore importanza rivestono i ruoli femminili. Il ruolo femminile più importante è proprio quello della "cortigiana", una figura sconosciuta in Roma prima che nascesse la palliata, e che era invece consueta nel mondo greco: nella "palliata" plautina possono essere sia libere che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande desiderio è quello di essere riscattate dall’amante;

*La "matrona": accanto alla figura dell’etera, risalta per contrasto quella della matrona, madre dell’adulescens e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se "dotata"; *Il "parasitus": presente in ben nove commedie di Plauto, il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della "palliata", caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese; *Il "miles gloriosus": come la cortigiana, anche il miles era una figura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta in Roma, dove all’epoca di Plauto il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del "gloriosus", cioè del millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta per gran seduttore; *Il "leno": anche il lenone, il commerciante di schiave e sfruttatore di prostitute, era una figura sconosciuta presso i Romani. Plauto ne fa la figura più odiosa, anche perché di norma costituisce il maggior ostacolo al compimento dei desideri del giovane innamorato; *Il "servus": è la figura più grandiosa, il vero motore delle fabulae plautine, personaggio sfrontato e geniale, spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell’adulescens e contro l’arcigna taccagneria dei senex o l’avidità dei formidabili lenoni. Senza di lui, non ci sarebbe storia; la storia, anzi, è quasi sempre il risultato delle sue invenzioni e delle sue creazioni: Plauto lo definisce in vari luoghi come un "architetto", un "poeta", un "generale", finendo palesemente per identificarsi nella sua figura.

IL VERTERE PLAUTINO e la CONTAMINATIO Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine, per cui non possiamo valutare l’indipendenza, l’originalità di Plauto rispetto ai modelli greci. Tuttavia, una delle differenze fondamentali che comunque possiamo cogliere con la commedia di Menandro, per quanto concerne le trame, è che, mentre quello cerca la coerenza e l’organicità degli intrecci, Plauto sacrifica al contrario spesso le esigenze di verosimiglianza e di logica per il suo intento di trarre effetti comici dalla singola scena. Altra differenza è che il teatro di Menandro è un teatro grosso modo antropocentrico e "psicologico", mentre Plauto è portato ad accentuare i tratti caricaturali dei personaggi tipici, ricavandone maschere grottesche. Lo stesso "amore" non è visto come sentimento autentico, bensì come mera caricatura. Si parla, anche, di "rovesciamento burlesco della realtà", in una visione quasi carnascialesca: alla fine della commedia, sono i giovani a trionfare sui vecchi, le mogli sui mariti; ma con ciò, ancora, Plauto non vuole mettere in discussione i rapporti vigenti all’interno della società, vuole solo, semplicemente, far divertire. Nei prologhi delle sue commedie, Plauto, alludendo alla sua attività, parla poi di "vertere barbare": infatti, Plauto fa suo il punto di vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara. Le commedie plautine, tuttavia non sono semplici trasposizioni dal greco, ma libere interpretazioni di quei modelli: egli, infatti, ricorre alla cosiddetta "contaminatio", inserisce cioè in una commedia derivata da un originale greco una o più scene, uno o più personaggi attinti da un’altra commedia sempre greca, mescolando insomma l’originale con altre commedie.

CANTICA e DEVERBIA NUMERI INNUMERI Le commedie plautine non disdegnano di momenti lirici. Anzi il canto si riversa con tutta la sua ricchezza di toni e di ritmi nell’intera commedia. È proprio questa presenza diffusa di parti cantate ciò che caratterizza la commedia di Plauto rispetto a quella dei suoi modelli. Ne deriva una struttura in cui parti cantate si alternano parti recitate: CANTICA e DEVERBIA. Il rapporto con cui le une e le altre vengono distribuite all’interno dell’opera varia da commedia a commedia. Se si considera che brani dagli enunciati similari risultano espressi ora in metro lirico, ora in metro recitativo, dobbiamo arguire che la diversa distribuzione di parti cantate e di parti recitate nelle varie commedie fosse determinata dalle attitudini della compagnia incaricata della rappresentazione. A meno che la scelta del poeta non sia dipesa dalla categoria sociale o dalla tipologia dei personaggi chiamati ad adoperare il recitativo o il cantato. NUMERI INNUMERI Fondamentale è la maestria ritmica, i "numeri innumeri", gli "infiniti metri", la predilezione per le forme "cantate". Ne deriva una conseguenza importante: lo stile è intrinsecamente vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia, in una forte profonda coerenza. Insomma, si deduce che Plauto non dipende esclusivamente dallo stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà sfoggio di ampia originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione della divisione in atti, completa trasformazione del sistema onomastico. È certo, inoltre, che metri recitativi erano il senario giambico ed il settenario trocaico, mentre i settenari e gli ottonari giambici erano forse i metri delle parti declamate con il flauto. Cantati erano senza dubbio i brani in bacchei, in cretici ed anapesti.

LO STILE e il LINGUAGGIO La tecnica linguistica, che si piega genialmente in battute e motteggi, riveste un ruolo fondamentale nell'economia della comicità plautina: l'autore la riempie spesso di espressioni greche o grecizzanti. A ciò, si aggiungano parole mezzo latine e mezzo greche, le quali dovevano suonare ridicole alle orecchie del pubblico, grecismi con terminazione latina, parole formate da più radici, oltre a neologismi veri e propri; superlativi iperbolici e ridicoli. Il sermo dei personaggi plautini è inoltre arricchito da fantasmagorici giochi di parole, identificazioni scherzose, espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su un piano più propriamente stilistico, da allitterazioni, anafore ed ogni sorta di figura retorica. Malgrado queste caratteristiche, tuttavia, la lingua di Plauto eccezion fatta naturalmente di alcuni tratti particolari, non è quella del volgo e del popolino, ma risente di una certa raffinatezza, che derivava dalle discussioni del Senato, dalle assemblee del popolo e dei tribunali, e per la quale essa s'innalzava sul livello della parlata popolare, pur conservando di questa la schiettezza e la spontaneità: una lingua, insomma, non propriamente popolare, ma che il popolo altresì capisce ed apprezza. LA FIGURA del SERVO e il METATEATRO Il ruolo che il servo assume all’interno della commedia non è determinato dalla funzione che egli ha nel rapporto con il padrone. Il servo, quando Plauto gli assegna il ruolo di protagonista, organizza il tutto: parole, atteggiamenti da assumere, travestimenti. È il vero artefice della scena! A lui è demandata la funzione di creare inganni e di risolvere le situazioni difficili. È proprio quest’aspetto creativo della figura del servo che ha fatto ritenere che Plauto avesse potuto fare di lui il suo alter ego. Per questo motivo il Barchiesi, critico e studioso, parla, a proposito di Plauto, di “METATEATRO”. Infatti, è come se il teatro plautino trovasse in questa figura uno spazio di rispecchiamento, un modo per giocare con se stesso. Non a caso il servo è il personaggio che più d’ogni altro gioca con le parole: è un grande creatore di immagini, di metafore, di doppi sensi, di allusioni, di battutacce, ed è quindi il più vero portavoce dell’originale creatività teatrale di Plauto. Ergo, i personaggi liberi fanno la figura delle marionette. Sembrano essere stati messi lì solo perché svolgano il ruolo di spalla.

Ennio LE OPERE Vita Di Ennio ricordiamo: tragedie ci rimangono almeno 22 titoli (per soli 400 frammenti circa): tra queste, il ciclo troiano comprendeva i seguenti titoli: Achilles, Aiax, Alexander (era il soprannome dato a Paride fra i pastori), Hectoris lytra ("Il riscatto di Ettore"), Iphigenia, Hecuba, Andromacha aechmalotis ("Andromaca prigioniera di guerra"), Telamo e Telephus; aveva, inoltre, trattato leggende di origini diverse: Alcmeo, Andromeda, Athamas, Cresphontes, Erechtheus, Eumenides, Medea exul, Melanippa, Nemea, Phoenix e Thyestes, rassegna nella quale si riconoscono titoli (e senza dubbio i soggetti) ripresi da Euripide; 2 praetextae (tragedie, cioè, di ambientazione romana): l' "Ambracia", dedicata a Fulvio Nobiliore, conquistatore dell'omonima città; le "Sabinae", sulla nota leggenda del "ratto"; - commedie: in verità, in questo campo Ennio non ebbe molta fortuna, sia evidentemente perché il genere non gli era proprio congeniale, sia perché doveva misurasi con l'enorme successo di Plauto; comunque ci rimangono 2 titoli (Caupuncula, "La ragazza dell'osteria" e Pancratiastes, "L'atleta del pancrazio", una disciplina ibrido tra pugilato e lotta) e un minimo numero di frammenti, tale da non consentire comunque un ponderato giudizio sulla sua produzione comica (ma invero, già gli antichi consideravano i suoi intrecci e la sua "vis comica" piuttosto mediocri). Vita Ennio nacque in una città non greca ma messapica: tutta la zona era comunque ellenizzata ed Ennio si vantava di possedere in definitiva "tria corda", tre cuori, per la sua conoscenza di ben tre lingue: latino, greco e osco. Combattè nella II guerra punica, e nel 204 a.C. era in Sardegna negli ausiliari romani, dove incontrò Catone il censore, che notò il suo spessore culturale e lo condusse a Roma, pensando forse di farne il cantore delle gesta nazionali. Giuntovi, Ennio entrerà in contatto con Scipione l’Africano: sarà anzi uno dei massimi esponenti del cosiddetto "circolo scipionico". La sua posizione diviene subito di grande prestigio: egli è a capo del "collegium scribarum histrionumque", quell' "associazione fondata da Andronico e che già dal 207 aveva un ruolo ufficiale nella vita religiosa e letteraria romana. Nel 186 a.C., Ennio seguirà Marco Fulvio Nobiliore contro gli Etoli e assisterà alla conquista di Ambragia. L’intento era quello di narrare ed esaltare le sue imprese (usanza questa tipicamente greca). Nel 184 a.C. il figlio di Nobiliore, Quinto Fulvio, fondò la colonia di Pesaro e concesse ad Ennio delle terre e la cittadinanza. Con grande orgoglio, egli scriverà: "Nos summus Romani qui fumus ante Rudini". Nell'ultima parte della sua vita, infine, si dedicò completamente alla fatica degli "Annales". Morì, pare, di gotta, dopo aver sopportato serenamente la povertà e la vecchiaia.

LO STILE e il LINGUAGGIO Ennio compose molte sceneggiature sia drammatiche che comiche; fu, anzi, l'ultimo poeta latino a coltivare assieme commedia e tragedia. Nella produzione drammatica, in particolare, egli puntava sulla tensione stilistica dei suoi versi e sulla ricerca del "pathos". Il modello indiscusso era Euripide: la rielaborazione dei modelli classici permetteva di creare effetti di scena e di rafforzare gli elementi drammatici della rappresentazione. Un altro punto su cui Ennio fondava la propria forza era la partecipazione emotiva degli spettatori: le sue tragedia dovevano suscitare nel pubblico processi psicologici di forte identificazione con i personaggi. Lo stesso rapporto con i modelli (e con quello preferito di Euripide) non è di semplice translitterazione: certo, si trovano esempi di traduzione letterale, ma accanto a questi abbondano altrettanti casi di "manipolazione", soprattutto di riduzione libera dell'originale, che egli praticò eliminando versi, pensieri, collegamenti, per sostituire come una sorta di riassunto della parte soppressa: fece ricorso anche alla "contaminatio", fondendo ed innestando parti e scene di tragedie diverse. Riguardo allo stile e al linguaggio, è da dire che Ennio è raffigurato come il primo poeta "filologo", elegante cultore della parola, l'unico capace di stare alla pari con la raffinata cultura greca. Nel già citato II proemio degli "Annales", egli - a riprova di ciò - sottolinea la sua distanza dal rozzo Nevio, che parlò di Saturno, e si autodefinisce "docti studiosus", esperto di lingua e arte (Ennio contesta anche Livio Andronico per l'uso dei versi saturni nella traduzione dell'Odissea: egli infatti riteneva questi versi adatti solamente alle divinità campestri). Egli, infine, si può a buon diritto definire anche poeta "sperimentale" per l'immissione di numerosi grecismi nelle sue composizioni, nonché per l'uso abbastanza frequente e spregiudicato di pause sintattiche, allitterazioni e altre figure di suono, fin allora quasi del tutto sconosciute alla produzione letteraria latina. Mosaico raffigurante Ennio

LO STILE e il LINGUAGGIO Stazio LE OPERE Delle sue opere, di contenuto perlopiù popolaresco, non conosciamo che alcuni titoli (spesso traslitterazioni degli omonimi modelli greci), 40 per l’esattezza (in parte greci, in parte latini), tutti di palliate (cioè, d'ambientazione greca): Plocium ("La collana", la più conosciuta), Meretrix ("La cortigiana"), Portitor ("Il doganiere"), Pugil ("Il pugile"), Epistula ("La lettera"), Exul ("L'esule"), Fallacia ("L'inganno"), eccetera. Di tutte queste, ci rimangono poco più di 300 versi. Vita L'opera di Stazio attenuava, agli occhi degli antichi, il contrasto tra Plauto e Terenzio, così netto e istruttivo ai nostri occhi, poiché ci rivela l'evoluzione della mentalità pubblica tra gli anni della II guerra punica e quelli delle conquiste orientali. Gallo di Milano, fatto schiavo dopo la sconfitta di Clastidium (222 a.C.), era stato allevato a Roma, poi affrancato da un Caecilius da cui prese il nome. Statius sarebbe stato un nomen servile che Cecilio avrebbe conservato come cognomen anche dopo la sua manumissio. Divenne amico di Ennio, e fu legato all'attore Ambivio Turpione, il più famoso del suo tempo. LO STILE e il LINGUAGGIO Di gusti più letterari di Plauto, Cecilio Stazio imitava di preferenza le opere di Menandro, il più conforme ai canoni classici fra i poeti della "commedia nuova". Sotto questo riguardo, anticipava Terenzio, pur conservando alle proprie commedie un "movimento" paragonabile a quello del Sarsinate (grande ricchezza di metri, "vis comica", gusto per il farsesco). Giudicato in seguito scrittore piuttosto mediocre, si pensava che avesse introdotto della profondità ("gravitas") nelle sue commedie: ancora e appunto come Terenzio, egli farebbe "riflettere".

Terenzio LE OPERE Di Terenzio ci sono pervenute, integralmente, 6 commedie palliate (cioè d'ambientazione greca), composte e rappresentate a Roma, di cui si conoscono, tramite le "didascalie", l'anno e l'occasione del primo allestimento. Vita Sulla vita di Terenzio abbiamo una biografia risalente a Svetonio: a questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro autore. Notizie biografiche, poi, si possono ricavare anche dai prologhi delle commedie stesse. La sua vita si inserisce praticamente nel periodo di tempo compreso tra la fine della II guerra punica (201 a.C.) e l'inizio della III (149 a.C.) e si lega strettamente con la vicenda politica e culturale romana di quegli anni. Terenzio giunse a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano, dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam" ("per ingegno e bellezza"); divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, entrando quindi a far parte dell’entourage scipionico, del cui ideale di "humanitas" egli si fa portavoce. Questa sua posizione di prestigio suscitò però l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di Terenzio, sorsero così calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di plagio e di essere addirittura un prestanome dei suoi importanti protettori, i veri effettivi autori delle sue commedie (era, infatti, considerato disdicevole per un "civis Romanus", impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie; le uniche attività che erano lui concesse coltivare erano l’oratoria o la storiografia). Da questa accusa Terenzio si difende nel prologo della sua ultima commedia, l’"Adelphoe". Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione, ma anche evidentemente per diletto e soprattutto per studiare in loco istituzioni e costumi greci da ritrarre nelle sue opere, Terenzio lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui però non fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia. Terenzio esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’ "Andria" ("La ragazza dell’isola di Andro"). Nel 165, fece rappresentare una seconda commedia, l’ "Hecyra" ("La suocera"): il pubblico, dopo le prime scene, abbandonò il teatro, preferendo assistere ad una contemporanea manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso. Nel 163, fece rappresentare l’ "Heautontimorumenos" ("Il punitore di se stesso"). Nel 169 furono, invece, rappresentate ben 2 commedie: l’ "Eunuchus" ("L'eunuco") e il "Phormio" ("Formione"). L’ "Eunucus" fu il più grande successo di Terenzio, perché è la sua commedia più simile alla comicità plautina. Nel 160, infine, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, Terenzio fece rappresentare la sua ultima commedia, l’ "Adelphoe" ("I fratelli"); nella stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’ "Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò il teatro, preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i "Ludi Romani" dello stesso anno e, finalmente, durò dall’inizio alla fine: il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre di quel tempo.

TERENZIO e il suo PUBBLICO Terenzio scrisse 6 commedie "palliate": ma operò una vera e propria "riforma" nell'ambito di questo genere, ristrutturandolo dal punto di vista tecnico e introducendo in esso nuovi contenuti ideologici, in linea con le tendenze finelleniche del circolo cui apparteneva, ovvero il Circolo degli Scipioni. La sua carriera drammaturgica non fu certo facile come per Plauto (anche se, comunque, godette dell'amichevole e ammirato appoggio e comprensione di Turpione, nonché addirittura di Cecilio Stazio): non ebbe lo stesso successo, perché la sua commedia non rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano, non ancora pronto a tal "salto di qualità": quella di Terenzio era, infatti, una commedia che voleva trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana abituata al teatro plautino, che interpretava i rapporti interpersonali come basati sull’inganno, sulla violenza e sulle prevaricazioni. Ergo il pubblico ideale di Terenzio è decisamente un pubblico colto (che coincideva, in pratica, con lo stesso "circolo"), o sicuramente più raffinato di quello sboccato e "plebeo" che applaudiva ancora le opere di Plauto. Un pubblico, in breve, elitario, il cui ideale artistico è un'opera che riproduca nel migliore dei modi le preziosità dell'originale greco. COMMEDIA STATARIA e PSICOLOGIA dei PERSONAGGI Molto è stato discusso sul vero significato da dare al termine "stataria", usato dallo stesso Terenzio per definire le proprie commedie: secondo alcuni, esso significherebbe che la sua non è commedia d'azione, ma esclusivamente psicologica, "di carattere": ciò è vero, però, fino ad un certo punto, dato che - anche se certamente in tono minore rispetto a Plauto - le sue opere non rinunciano completamente al movimento scenico. Allora, sarebbe forse più esatto affermare che molto semplicemente commedia stataria è quella dove non ci sono scene movimentate, con inseguimenti, litigi e clamori, scene farsesche che sono tipiche del teatro comico popolare. Ciò spiegherebbe anche la rinuncia di Terenzio alla trovata (plautina) del "servus currens". E' vero, comunque, che Terenzio attenua decisamente i tratti caricaturali dei personaggi e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili. Protagonista del suo teatro non è più il "servus callidus", ma padri e figli. Egli non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia. Anche i padri terenziani sono differenti da quelli plautini: sono disponibili al dialogo coi figli e si preoccupano sinceramente della loro felicità più che del loro patrimonio o del veder affermata la propria autorità. Nel teatro di Terenzio, del resto, non esistono personaggi del tutto negativi: anche i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non tutte le cortigiane pensano ai propri interessi.

IL MESSAGGIO: l'HUMANITAS Attraverso l'opera di Terenzio il circolo scipionico "divulgava" la propria, rivoluzionaria ideologia: anche grazie all'incontro-scontro diretto con la civiltà greca, gl'intellettuali scipionici elaborarono e approfondirono un ideale di "humanitas", ch'era una grossa novità nella cultura e nella stessa mentalità, tradizionali, dei Romani. Questo ideale fu inteso non soltanto come semplice traduzione del termine greco "filantropia" (interesse per l'uomo), ma piuttosto soprattutto come apertura dell'uomo verso i propri simili, al di là di ogni barriera sociale, nella coscienza della comune natura umana, seppur nella consapevolezza delle sue innumerevoli sfaccettature: il singolo non è più soltanto "civis", ma soprattutto "homo humanus". E', dunque, lo stesso messaggio che vuole trasmettere anche Terenzio: aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori altrui: essere, in una parola, tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo fra gli uomini. E' questo il senso del famoso ed emblematico "homo sum humani nihil a me alienum puto" ("sono uomo e niente di ciò che è umano considero a me estraneo"), contenuto nell' "Heautontimorumenos". Ecco che così i personaggi del nostro autore sono veramente lontanissimi da quelli rozzi, spregiudicati, egoisti e truffaldini di Plauto: i giovani di Terenzio, accanto ad un comportamento anche qui sovente scapestrato, presentano comunque tratti di maggiore consapevolezza e di disponibilità all'accettazione delle regole sociali; i vecchi non sono libidinosi ed invidiosi, ma tengono sinceramente al bene ed alla felicità dei figli; i servi non sono scaltri promotori di truffe, oppure quando lo sono, agiscono in buona fede, per il bene dei giovani ed anziani padroni, con cui dividono guai, tristezze e felicità, quasi in un nucleo familiare "allargato". Infine, gli stessi "milites" e le stesse cortigiane non sono lenoni lussuriosi vanagloriosi e approfittatori, o semplici donne di piacere avide di denaro, ma acquistano uno spessore di comprensione e di buona fede che li rendono uomini e donne come gli altri, casomai solo un po' più "cocciuti" o sfortunati. E appare conseguente come la stessa comicità di Terenzio dovesse proporsi come altrettanto rivoluzionaria, in accordo col suo "messaggio": una comicità nuova, che non consiste più nella battutaccia o nell'intrigo, ma che invece risiede più nel sorriso, talvolta compassionevole, sempre venato di riflessione e di meditazione (a tal riguardo, taluni critici hanno definito, quello del nostro autore, un "teatro pedagogico").

Il RAPPORTO con i MODELLI La CONTAMINATIO e il FURTUM Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei (a riprova di ciò, anche se in senso dispregiativo, Cesare definì Terenzio "dimidiatus Menander", ossia un "Menandro dimezzato"). Le commedie di Terenzio presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa. Terenzio, infatti, venne accusato dai suoi detrattori, e in particolar modo da Luscio Lanuvino, di aver usato la contaminatio. Nel prologo dell’Andria egli si difende dall’accusa di aver “contaminato” originali greci derivandone sue commedie. e si comprende che il termine contaminatio deve essere inteso in un preciso significato: “fondere insieme” più commedie. E difatti Terenzio si difende affermando che lo stesso procedimento avevano adottato i suoi grandi predecessori, Nevio, Plauto ed Ennio. Perciò, sembra che si possa essere d’accordo con il grammatico Donato il quale così spiega il significato di contaminare: ex multis fabulae unam facere, “da più commedie messe insieme ricavarne una sola”. Terenzio non dovette, però, difendersi solo dall’accusa di contaminatio, ma anche da quella più specifica di furtum. Infatti il poeta è costretto a difendersi dall’accusa rivoltagli dai suoi detrattori di aver inserito nella commedia stessa due personaggi, un soldato fanfarone e un parassita, derivati da un’altra commedia di Menandro, Kolax. Si vede che, a quel tempo, non era concesso di riprendere degli originali già utilizzati da altri. Si trattava di un fatto di correttezza. Di qui l’accusa di furtum, cioè di “plagio”, che è qualcosa che va al di là dell’accusa di contaminatio. LO STILE e il LINGUAGGIO: le differenze con Plauto Rispetto a Plauto, Terenzio mantiene un’ambientazione rigorosamente greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi romani; elimina quasi completamente i "cantica", facendo invece uso abbondante di dialoghi e dei versi lunghi. Altra notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: in Terenzio, coerentemente all'esigenza di equilibrio e di raffinatezza ch'egli mutuava dal sofisticato circolo scipionico, non troviamo l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le parodie dello stile tragico: egli evita rigorosamente espressioni popolari e volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di Terenzio è insomma uno stile e un linguaggio sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della semplicità e decisamente "mimetico" rispetto alla realtà che lo circonda. In Terenzio, inoltre, al centro della vicenda comica, troviamo inoltre amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; troviamo anche i soliti stereotipi: equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento, ovvero l’agnizione, conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli "Adelphoe". Sempre 5 su 6 si concludono con uno o più matrimoni: solo nell’ "Hecyra" troviamo il ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa di equivoci e sospetti infondati. Terenzio tende poi, a suo modo, a complicare gli intrecci menandrei, inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una seconda coppia. Gli "adulescentes" spesso sono quindi due e sono due i "senex". Rispetto a Plauto, Terenzio costruisce i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola scena.

Pacuvio Vita LE OPERE Marco Pacuvio nacque a Brindisi nel 220 a. C. Sua madre era sorella di Ennio che esercitò sul nipote una influenza sicuramente determinante. Sappiamo che Pacuvio visse a Roma, probabilmente a partire dal 204, anno in cui Ennio vi si era stabilito. Dallo zio certamente ricevette i primi impulsi alla carriera letteraria e condusse gli studi sotto il suo magistero. Pacuvio fu affascinato anche da altri interessi artistici, primo fra tutti la pittura. È molto probabile che Pacuvio fosse in rapporti di stretta amicizia con gli Scipioni della prima generazione; infatti, nella pretesta Paulus, Pacuvio tesse le lodi di Lucio Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, padre di Scipione Emiliano che era stato appunto adottato dagli Scipioni. Pacuvio alternò la sua attività di pittore con quella di poeta, e ciò spiega pure la sua scarsa prolificità letteraria, che dovette però esere causata anche da una probabile lentezza compositiva dovuta all’accurata elaborazione delle sue produzioni. È certo che nel 140 fu rappresentata una sua tragedia. Di lì a poco si ritirò ammalato a Taranto dove avrebbe ricevuto una visita da Accio. Qui egli morì poco prima del 130 a. C., o forse nel 131, all’età di quasi novant’anni.   Introdotto, grazie all'influenza dello zio Ennio, negli ambienti filoellenici di Roma, in particolare nel "Circolo degli Scipioni", Pacuvio sembra che abbia imitato più Sofocle che Euripide, forse sotto l'influsso dei suoi amici romani, il cui gusto si volgeva verso il classicismo attico. Ecco i titoli delle sue fabulae cothurnatae (cioè, tragedie d'ambientazione greca) che ci sono stati tramandati: "Antiopa", "Armorum iudicium" (la contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille), "Atalanta", "Chryses", "Dulorestes" ("L'Oreste schiavo"), "Hermiona", "Iliona", "Medus" (storia del figlio di Medea, avuto da Egeo, re di Atene), "Niptra" ("Il bagno" in cui - si narrava - Telègono, figlio di Ulisse, aveva involontariamente ucciso il padre). Sua è anche una praetexta (tragedia cioè d'ambientazione romana), "Paulus", allestita forse in occasione del trionfo di Paolo Emilio su Perseo (160 a.C.).

LO STILE e il LINGUAGGIO Nella serie dei giudizi tradizionali dati al tempo di Orazio sugli antichi tragici romani, Pacuvio passava per un "vecchio sapiente": forse per il fatto che si era sforzato di rinnovare le ispirazioni del suo teatro, ricorrendo a modelli meno ritriti. In ogni caso, le sue opere ebbero un successo notevole, vennero riprese ancora molto tempo dopo la sua morte, e persino il pubblico popolare ne conosceva a memoria lunghi brani. I frammenti abbastanza lunghi che ce ne fa conoscere Cicerone lasciano intravedere, in Pacuvio, un grande vigore di stile, un senso del patetico moderato dalla preoccupazione per la dignità che conviene agli eroi, un senso tutto romano della "virtus", una conseguente spiccata sentenziosità, una certa predilezione per il macabro (che ne fanno una sorta di precursore di Seneca). Non c’è dubbio, infatti, che Pacuvio avesse una simpatia particolare per scene avvincenti, altamente drammatiche e patetiche. Il pathos, però, non deriva al suo teatro soltanto dalla scelta degli argomenti, ma anche dalla sua capacità di descrivere le passioni del cuore umano, gli sconvolgimenti effetti provocati dai sentimenti più forti e viscerali, più violenti e incontrollati. L’altra professione artistica di Pacuvio giocò un ruolo importantissimo sul suo fare poetico. Infatti la descrizione coloristica, spesso a tinte forti, è una delle più evidenti connotazioni del suo teatro. Perciò alcune scene pervenute risultano altamente suggestive, come quella della tempesta nel Teucer 1. Essenziale nel teatro pacuviano era anche la presenza della musica contornata dalla, a volte duplice, magnificenza del coro. Il linguaggio, pertanto, è volentieri solenne, pensoso e magniloquente, spesso contraddistinto da parole strane, forme insolite, conii artificiosi. Per aumentare il livello della rappresentazione evitò, inoltre, i grecismi, i termini tipici della parlata popolare e i diminutivi; come detto prima, invece, fece ricorso al conio di neologismi e al conio di termini astratti, curando, infine, gli aspetti fonici della lingua (fece largo uso, come suo zio, dell’allitterazione). 1 La tempesta nel Teucer

Accio LE OPERE Vita Lucio Accio nacque nel 170 a. C. a Pesaro o forse a Roma. Comunque fu a Roma che Accio, figlio di ex-schiavi, si fece conoscere per il suo ingegno ed ebbe la possibilità di frequentare personaggi nobili ed illustri come il console Decimo Giunio Bruto. Fu di ingegno versatile: si occupò di filosofia, di grammatica, di storia della letteratura, di poesia. Ma gli interessi primari di Accio furono rivolti al teatro. Egli studiò con grande amore e per lungo tempo gli autori tragici greci e latini, anzi fu proprio la tragedia il genere teatrale che lo impegnò in modo particolare. Nel 140, infatti, fece rappresentare una sua tragedia nel corso di una manifestazione celebrativa cui partecipò anche l’ottantenne Pacuvio, il quale, proprio allora, oscurato dall’astro nascente della tragedia romana, si ritirò a Taranto. Si racconta che proprio a Taranto Accio, che si trovava in viaggio culturale verso Pergamo, si incontrasse nel 133 con il vecchio poeta e gli leggesse la sua tragedia Atreus. Gellio ci fa sapere che, avendo Pacuvio rilevato alcune asprezze dello stile e giudicato alcuni versi “un po’ duri e acerbi”, Accio gli rispose: “E’ così come tu dici e non me ne rammarico: spero che saranno migliori quelle (tragedie) che scriverò in seguito. Si dice infatti che per gli ingegni accade come per i frutti: quelli che al nascere sono duri e aspri, diventano poi teneri e gradevoli, ma quelli che nascono vizzi e molli sono succosi già all’inizio, poi non maturano, ma marciscono”. Visse abbastanza a lungo, tanto da assistere anche ad alcuni tra i più tragici eventi che segnarono la storia di Roma del suo tempo, come le vicende dei Gracchi e la guerra civile tra Mario e Silla. Morì infatti nell’85 a. C. Ci sono pervenuti più di 40 titoli di fabulae crepidatae, cioè tragedie ricavate dai drammi greci: Achilles, Aegisthus, Agamemnonidae, Alcestis, Alcmeo, Alphesiboea, Amphitruo, Andromeda, Antenoridae, Antigona, Armorum iudicium, Astyanax, Atreus, Bacchae, Chrysippus, Clutemestra, Diomedea, Epigoni, Epinausimachae, Erigona, Eriphila, Eurysaces, Hecuba, Hellenes, Io, Medea, Melanippus, Meleager, Minos, Myrmidones, Neoptolemus, Nyctegresia, Oenomaus, Pelopidae, Persidae, Philocteta, Phinidae, Phoenissae, Prometheus, Statiastae, Telephus, Tereus, Thebai, Troades. Accio compose anche due fabulae praetextae, cioè tragedie di argomento romano: Brutus e Aeneades seu Decius. Il Brutus fu composto per Decimo Giunio Bruto, vincitore dei Lusitani nel 138, e fu rappresentato nel 136. Negli Aeneades seu Decius, tragedia dedicata ad uno dei tre Decii Mure, il poeta tendeva a collegare la famiglia dei Decii con gli Eneadi nell’intento di esaltare i suoi protettori. In ambedue le praetextae il tema fondamentale, come si evince dai pochi frammenti pervenutici, doveva essere sicuramente quello dell’esaltazione dello spirito patriottico del civis Romanus.

LO STILE e il LINGUAGGIO E’ stata avanzata l'ipotesi che il poeta - scrittore, come si arguisce, prolifico - non avesse scelto i suoi soggetti senza una qualche finalità recondita e che, in una certa misura, tenesse conto dei problemi dell'attualità romana, ad esempio della questione sociale nel periodo dei Gracchi. Anche se la cosa è difficilmente dimostrabile nei particolari, in se stessa, tuttavia, l'idea è ben lungi dall'essere inverosimile. Di sicuro c'è che i romani (e in particolare Cicerone, grande ammiratore di Accio, e al quale dobbiamo importanti citazioni) trovavano sempre, nelle sue opere, materiali per inattese applicazioni e "attualizzazioni". Il che era agevolato dall'abbondanza delle massime morali e degli sviluppi di idee comuni, come la tirannide, l'esilio, eccetera. Importante testimonianza è anche il senso di "gravitas" religiosa e di presenza del divino che traspare dalle opere, e che sembra smentire le affermazioni dei moderni, troppo propensi a considerare la religione nazionale, in quell'epoca, solo come un'accozzaglia di leggende obsolete. Non mancano, inoltre, nel teatro di Accio scene più pacate o descrizioni di paesaggi naturali con le quali il poeta dà l’impressione di voler quasi smorzare i toni dell’horror tragico per presentare agli spettatori momenti teatrali più riposanti tendendo ad eliminare tutti i delicati mezzitoni (Accio detestava la mediocritas). Stravagante è anche la presenza della scenografia. È senza dubbio da ricordare che durante la rappresentazione della Clutemestra Accio fece passare sulla scena un corteo di muli che, anche se dovette riscuotere il consenso del popolo, tuttavia non riuscì gradito agli spettatori più esigenti, come ci ricorda Cicerone. Comunque è facile cogliere in questo stratagemma scenico una ricerca di originalità tipica di Accio. La ricchezza oratoria di Accio, come traspare anche dai frammenti rimasti, prelude già allo stile delle tragedie di Seneca: il linguaggio ha un tono magniloquente e ridondante, ricco di giochi allitterativi e di composti eruditi. Si è poi spesso rimproverato all'autore l'eccessiva violenza e ricercatezza del suo stile, quella sua volontà di rimanere nel "sublime" ad ogni costo che, se non impedì il successo delle sue opere, segnò tuttavia l'inizio del declino cui andò incontro il genere tragico dopo di lui. Fatto sta che la conseguenza più importante della carriera di Accio (come, del resto, di quella di Pacuvio) fu forse, in definitiva, che la tragedia salì di classe e di tono: di conseguenza, la sua pratica, pur continuando a godere del successo popolare, divenne sempre più cosa da gentiluomini.

L'edificio scenico Nella fase iniziale il teatro romano era costituito semplicemente da una scaena, una baracca di legno, poi di pietra, davanti alla quale recitavano gli attori. Le prime rappresentazioni venivano tenute o nel circo o davanti ai templi delle divinità in onore delle quali venivano dedicati i ludi. Gli spettatori assistevano in piedi o sfruttando i gradini del tempio. Fino alla metà del I sec. a. C. Roma non ha fruito di teatri stabili in muratura. Per molto tempo, infatti, il senato vietò la costruzione di teatri eccessivamente estesi, temendo che questi potessero dare al popolo l’occasione di riunirsi ai margini delle istituzioni essendo oltre a luoghi di ascolto, luoghi di discorsi persuasivi. Dopo vari tentativi di aggirare gli espressi divieti del senato, nel 55 a. C. Pompeo fece costruire il primo teatro in pietra. In seguito furono creati i teatri di Balbo e di Marcello ciascuno capace di contenere 20.000 spettatori. Dalle vestigia dei teatri romani appare evidentissima la loro differenza rispetto agli edifici teatrali greci. Questi avevano la cavea addossata ad un pendio naturale, il che facilitava sia la visibilità sia l’acustica. I teatri romani, invece, erano costruiti tutti in luoghi pianeggianti e ricreavano in modo artificiale le condizioni ottimali di osservazione e di ascolto. Essi poggiavano su una struttura massiccia fatta di volte etrusche e di colonne greche. Al di sopra di questa struttura si innalzano le gradinate, costruite in modo che i suoni si amplificassero senza produrre eco. Quando le gradinate furono costruite in pietra, sotto i posti a sedere furono sistemati vasi di bronzo e di terracotta, perché facessero da cassa di risonanza.

Secondo le testimonianze di Vitruvio sembrerebbe che l teatro romano, almeno all’inizio, non presentasse una scenografia molto complessa, gli elementi scenografici sempre presenti erano: Il proscenium, in legno, quella parte anteriore dove gli attori recitavano (ciò che noi oggi chiamiamo “scena”); esso raffigurava una via o una piccola piazza; La scaenae frons (il nostro “fondale”), costituita da una parete dipinta, con un’architettura simile alla facciata di uno o più edifici (le case dei personaggi nelle commedie, o un tempio o una reggia nelle tragedie) che rappresentava gli “interni”. Su di essa si aprivano diversi ingressi utilizzati dagli attori (due o tre porte più una o due uscite laterali), che invece costituivano convenzionalmente la via che portava al foro e la via che portava al porto. Dietro le case c’era di solito un vialetto, angiportum, che permetteva di raggiungere le a se stesse attraverso il giardino per il retro. Lo spettatore antico sapeva già dove andavano e da dove venivano i personaggi. I periaktoi, di derivazione greca, prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo; L’auleum, un telo simile al nostro attuale sipario (sconosciuto invece ai Greci), che consentiva di rivelare improvvisamente, lasciato cadere dall’alto, una nuova scena. Secondo altri studiosi, invece, questo sipario non veniva usato per distinguere un atto dall’altro, ma solo alla fine della commedia.

Schema di un teatro Romano Negli anfiteatri gli effetti speciali erano realizzati spesso con l’utilizzo di macchine teatrali, di provenienza greca: uno degli effetti più sensazionali e graditi erano le scene di massa, affollate di personaggi e animali. Schema di un teatro Romano A – Cavea 1 – muri di sostegno 2 – divisioni teatrali delle gradinate 3 – divisioni tra i settori 4 – scale B – Scena 5 – parte di fondo della scena 6 – parte anteriore della scena 7 – tavole dipinte con gli sfondi della scena 8 – parte della scena C – Orchestra 9 – accessi all’orchestra 10 – sedili dei sacerdoti e dei maggiorenti 11 - alta

Esempi di teatro Ricostruzione del teatro di Cassino Teatro di Jerash (Giordania)