La commedia dell’arte e la riforma goldoniana

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Transcript della presentazione:

La commedia dell’arte e la riforma goldoniana Materiali didattici a cura di V. Sciacca

Parte I La commedia dell’arte

La commedia dell’arte La commedia dell'arte è nata in Italia nel XVI secolo , ed è rimasta popolare sino al XVIII secolo. Le rappresentazioni della commedia dell’arte non erano basate su testi scritti ma su canovacci detti anche scenari, i primi tempi erano tenute all'aperto con una scenografia fatta di pochi oggetti. Le compagnie erano composte in genere da dieci persone: otto uomini e due donne. All'estero era conosciuta come "Commedia italiana". La definizione di "arte", che significava "mestiere", veniva identificata anche con altri nomi: commedia all'improvviso, commedia a braccio o commedia degli Zanni. Una commedia improvvisata in una piazza

Il canovaccio Nella commedia dell’arte i testi da recitare si limitavano ad un canovaccio, dove veniva data una narrazione di massima indicativa di ciò che sarebbe successo sul palco. Sul canovaccio gli attori improvvisavano liberamente.

Una delle maschere dello Zanni Gli Zanni Il nome “Zanni”, è una versione veneta del nome Gianni, un nome molto diffuso nelle campagne lombarde da dove venivano la maggior parte dei servitori dei nobili e dei ricchi mercanti veneziani. Lo Zanni è un personaggio fra i più antichi della Commedia dell'Arte: non ha caratteristiche psicologiche individuali; è semmai un “tipo”, con caratteristiche fisse che può essere trasportato da una recita all’altra. Le prime forme della commedia dell’arte sono rappresentate da contrasti tra Magnifico (padrone veneziano) e Zanni (servitore, per lo più bergamasco). Una delle maschere dello Zanni

La danza degli Zanni Tela di Jacques Callot

Dallo Zanni al personaggio meglio caratterizzato Dallo Zanni “indistinto”, caratteristico della fase più antica della commedia dell’arte, si svilupparono due diverse serie di personaggi con nomi propri, e con un maggior grado di caratterizzazione, i cosiddetti “primi zanni” e “secondi zanni”: I “primi Zanni” erano servi astuti come Frittellino, Beltrame e Brighella; i “secondi Zanni” erano servi sciocchi come Arlecchino, Pulcinella, Mezzettino e Truffaldino. Il pubblico apprezzava soprattutto i “secondi Zanni”, perché risultavano più divertenti.

Uno dei “primi Zanni”: Brighella Brighella, come Arlecchino, è una maschera bergamasca . Brighella non fa solo il servo come Arlecchino, ma un'infinità di altri mestieri, non sempre leciti ed onesti. Così si ritrova sempre in mezzo a svariati intrighi. Elementi caratteristici del personaggio sono la prontezza e l'agilità della sua mente, per escogitare inganni e preparare trappole in cui far cadere il prossimo, tutto questo solo per il gusto stesso di imbrogliare gli altri. È intrigante, molto furbo e senza scrupoli. Brighella inoltre è un tipo bugiardo, racconta frottole con sicurezza e convinzione, tanto che è quasi impossibile distinguerle dalla verità. Inoltre è molto abile nel cantare, suonare e ballare. Viene raffigurato con giacca e pantaloni decorati con galloni verdi; ha scarpe nere con i pon pon verdi. Il mantello è bianco con due strisce verdi, la maschera e il cappello sono neri.

Uno dei “secondi Zanni”: Pulcinella Pulcinella è una maschera di origine napoletana. Il povero pulcinella è un servo sciocco, spesso affamato, che finisce sempre nei pasticci. Ma ne esce sempre con un sorriso.

Pulcinella e gli spaghetti

Un erede di Pulcinella: il grande Totò Immagini tratte dal film Miseria e nobiltà. Un erede di Pulcinella: il grande Totò

Ancora uno dei “secondi Zanni” bergamaschi: il “diabolico” Arlecchino. La maschera di Arlecchino ha origine dalla fusione di due tradizioni: lo Zanni bergamasco da una parte, e personaggi diabolici farseschi della tradizione popolare francese dall'altra. (In Francia arlecchino è molto popolare ed è conosciuto come Arlequine) Arlecchino è anche il nome di un demone sotterraneo. Già nel XII secolo Orderico Vitale nella sua Historia Ecclesiastica racconta dell'apparizione di un corteo di anime morte guidato da un demone di nome Harlichino. Un demone ancora più noto con un nome che ricorda da vicino quello di Arlecchino è stato l'Alichino dantesco che appare nell'Inferno come capo di una combriccola di Diavoli.

Ancora su Arlecchino: Nonostante le sue origini demoniache, Arlecchino nel Cinque-Seicento divenne la maschera più divertente della commedia dell'Arte, con il ruolo del servo sciocco, ladro, bugiardo e imbroglione, in perenne conflitto col padrone e costantemente preoccupato di racimolare il denaro per placare il suo insaziabile appetito (la fame spaventosa accomuna Pulcinella ed Arlecchino). Arlecchino in una incisione Francese

La comicità sessuale nella commedia dell’arte

il dialetto e la maschera Il dialetto e la maschera nella commedia dell’arte sono i principali veicoli della comicità: • → Gli innamorati parlano in italiano e non indossano la maschera • → I personaggi comici parlano invece in dialetto e indossano la maschera.

Carlo Goldoni Parte II La riforma goldoniana

Il padre della commedia moderna Carlo Goldoni (Venezia 1707 – Parigi 1793) è stato un drammaturgo*, scrittore e librettista** italiano. Stanco e disgustato dalla commedia dell’arte, divenuta troppo volgare e ripetitiva, promosse una riforma teatrale grazie alla quale può essere considerato il padre della commedia moderna. * Drammaturgo = autore di testi teatrali. ** Librettista = autore di testi per opera lirica.

Si improvvisa su un canovaccio. La commedia dell’arte La commedia “riformata” di Goldoni Si improvvisa su un canovaccio. I personaggi sono psicologicamente piatti, il loro modo di essere è fisso e stereotipato, sono “tipi” e non “caratteri”. 3) La maggior parte dei personaggi indossa una maschera. 4) Le trame sono inverosimili e strampalate, un pretesto per esibirsi in “lazzi” e battutacce. 1) Goldoni riuscì nel difficile intento di costringere l’attore ad abbandonare l’improvvisazione per adeguarsi a un copione interamente scritto e imparato a memoria; ma questo è solo l’aspetto preliminare e più vistoso della riforma goldoniana. 2) La commedia "di carattere". Il vero nucleo della riforma goldoniana consiste invece nel passaggio dal “tipo” al “carattere". Nella commedia dell’arte, l’indole dei personaggi e il loro comportamento sono predeterminati e stereotipati, perfettamente chiari a tutti fin dall’inizio della rappresentazione; le maschere sono sempre — nel modo di agire, di muoversi, di pensare — fisse e uguali a se stesse. Nella commedia di carattere invece i personaggi vanno definendosi progressivamente, il carattere si precisa e si modifica nel corso della rappresentazione, non sono “tipi” fissi ma personaggi in evoluzione. 3) L’abolizione delle maschere. La commedia di carattere implica l’abolizione delle maschere , perché dietro di esse è pressoché impossibile per l’attore rendere la complessità del personaggio. 4) Si rappresenta la vita reale. Le complicate ed inverosimili avventure della Commedia dell’arte cedono il passo ai più comuni fatti della vita: il pubblico avrebbe trovato sulla scena una sorta di specchio nel quale rivedere se stesso, con le normali passioni, speranze, sentimenti, pregi e difetti d’ogni essere umano.

Il miglior frutto della riforma goldoniana: La locandiera La locandiera è una commedia scritta da Carlo Goldoni nel 1751. La storia si incentra sulle vicende di Mirandolina, un'attraente e astuta giovane donna che gestisce a Firenze, con l'aiuto del suo cameriere Fabrizio, una locanda ereditata dal padre, conquistando tutti gli ospiti della pensione: il Marchese di Forlimpopoli, nobile per nascita ma senza un soldo, il ricco conte di Albafiorita, che ha acquistato con il denaro la sua nobiltà, e infine il cavaliere di Ripafratta, inizialmente indifferente a Mirandolina, ma poi anche lui conquistato. Nel finale a sorpresa Mirandolina non si concederà a nessuno dei suoi nobili pretendenti, ma sceglierà di sposare il cameriere Fabrizio, la persona più adatta a gestire con lei la Locanda. Nella sua scelta Mirandolina si rivela donna intelligente e pratica, e rappresenta in pieno gli ideali della borghesia emergente nel ‘700. Il miglior frutto della riforma goldoniana: La locandiera

Il teatro dell’assurdo Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra il 1940 e il 1960. Con lo stesso termine si identifica anche tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori. Il termine è stato coniato dal critico Martin Esslin, che ne fece il titolo di una sua pubblicazione del 1961: The Theatre of the Absurd. Esslin , analizzando i testi teatrali di questi autori, concluse che in essi si trova una trasposizione artistica del concetto filosofico dell’ assurdità dell'esistenza. Nel teatro dell’assurdo il mondo appare privo di senso: gli uomini non sono in grado di comunicare tra loro e si aggrovigliano in discorsi complicati e allucinati che non portano a niente (tema dell’incomunicabilità umana). Il teatro dell'assurdo si caratterizza dunque per dialoghi all’apparenza folli, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il sorriso nonostante il senso tragico che custodiscono. Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo vanno ricordati Samuel Beckett, Jean Tardieu, Eugène Ionesco, Arthur Adamov e Georges Schehadé.

Da cosa nasce il teatro dell’assurdo? La seconda guerra mondiale, con il suo carico di dolore, i suoi stermini e la sua sanguinosa irrazionalità diffonde l’impressione che la vita sia assurda, che l’uomo sia gettato in un mondo incomprensibile. Questo sentimento dell’assurdo permea le opere teatrali e ne trasforma la struttura: in scena avremo personaggi ambigui che non riescono a comunicare tra loro. Nel teatro tradizionale, si racconta una storia, si illustra un fatto. Nel teatro dell’assurdo non si racconta una storia, né si illustra un fatto. Manca una vera e propria “trama”. I “fatti” del teatro tradizionale vengono sostituiti da un gioco sul linguaggio. Gli autori del teatro dell’assurdo collocano l’assurdità della vita umana al centro delle loro opere. I personaggi appaiono come esseri angosciati, senza scopo nell’esistenza: provano, invano, a sperare ancora, cercando una via d’uscita in un universo nel quale non hanno il loro posto. Animati da comportamenti meccanici e ripetitivi, essi vengono intrappolati in un ambiente in decomposizione, aspettando una morte che li getterà in un nulla definitivo. L’assurdità e l’incoerenza della vita umana trovano espressione drammaturgica soprattutto nel linguaggio che sostituisce l’azione. La nuova forma teatrale mette in evidenza l’incapacità dell’uomo a comunicare, a capirsi e a capire l’altro. Gli autori teatrali adottano molti procedimenti per “mostrare” sulla scena questa incapacità: successione di frasi banali e di luoghi comuni, frasi aggrovigliate e destrutturate, ricorso ad onomatopee, successione di battute brevi che non seguono un filo logico… : tutto concorre a mostrare come il linguaggio, invece di essere strumento di comunicazione, sia un ostacolo che non permette l’instaurazione di rapporti veri tra gli esseri umani.

E. Ionesco Autore di origine romena, Eugène Ionesco nasce a Bucarest nel 1912, da madre francese. Dopo aver trascorso più volte in Francia le vacanze estive, decide di stabilirsi definitivamente a Parigi, dove vivrà per gran parte della sua vita. Qui si mantiene con un modesto impiego presso una casa editrice fino a quando, nel 1950, conosce grande popolarità con la sua prima opera drammatica, La cantatrice calva, che va in scena a Parigi, al Noctambule. Con questo lavoro vengono poste le basi di quello che in seguito sarà definito “teatro dell’assurdo”: isolamento dei personaggi, destrutturazione del linguaggio, incomunicabilità, mancanza di azione. Una denuncia del malessere della società europea di metà Novecento, che prosegue anche nei lavori successivi: La lezione (1951), sorta di rilettura di un rapporto sado-masochista; Le sedie (1952), una delle opere più intense dell’autore, in cui due anziani che vivono su un’isola deserta, cercano inutilmente di instaurare un rapporto con gli altri uomini invitandoli nella loro casa, ma le scena si riempirà solo di sedie vuote; Il rinoceronte (1960) che, prendendo spunto la situazione politica del paese d’origine dell’autore, solleva una denuncia verso i totalitarismi. Negli anni seguenti Ionesco compone numerose altre opere, affini per tecnica e tematiche a quelle degli esordi: Il re muore (1962), Deliri a due (1962), La fame e la sete (1966), Il pedone dell’aria (1967), Gioco al massacro (1969), un omaggio al teatro di Artaud. Nel 1970 Ionesco entra a far parte dell’Académie Française, quale riconoscimento sia del suo talento artistico, sia della sua capacità a interpretare i problemi della società contemporanea.

La lezione di Ionesco La lezione è il secondo testo drammatico di Eugène Ionesco, quello che, assieme a La cantatrice calva, costituisce la parte più provocatoria e sperimentale del percorso drammaturgico dell’autore. Andato in scena per la prima volta il 17 febbraio 1951, divenne in breve uno dei testi più celebri del cosidetto “teatro dell’assurdo”. Una forma di teatro cui aderirono autori quali Arthur Adamov e Samuel Beckett, e che era sorto nel 1950, all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, con lo scopo di denunciare il senso di smarrimento e malessere di una società che non riusciva più a ritrovare se stessa. L’incomunicabilità, la mancanza di accadimenti, il costante contrasto tra parola e azione, il linguaggio che diviene ostacolo anziché veicolo alla comunicazione dei personaggi, sono alcuni fra i tratti caratteristici di questa drammaturgia. Come La cantatrice calva, anche La lezione è una pièce priva di scioglimento ossia caratterizzata da una forma circolare: l’ultima scena, infatti, ripropone la medesima situazione della prima, innescando così un meccanismo destinato a proseguire all’infinito. Il pubblico viene posto di fronte a una lezione il cui scopo apparente sarebbe quello di preparare l’allieva a una improbabile “libera docenza totale”. In verità la pièce si trasforma in qualcosa di totalmente diverso, in cui entrano in gioco un sottile sadismo, la prevaricazione e la violenza dell’insegnante verso la studentessa. Le denominazione “dramma comico” spiega le numerose contraddizioni di cui è costituita questa pièce: non solo vi è un continuo alternarsi di situazioni comiche e drammatiche, ma gli stessi personaggi si trasformano lentamente e inesorabilmente di fornte gli occhi dello spettatore. E così, la studentessa che sulle prime è sfrontata e sicura di sé, diviene gradualmente mansueta e succube del professore; quest’ultimo, invece, da timido e cerimonioso quale appare all’inizio, si trasforma in un uomo violento e psicopatico. Su tutto domina una riflessione sul linguaggio che diviene non più mezzo di comunicazione, ma strumento attraverso il quale il professore opera la sua sadica distruzione dell’allieva. Il ripetersi ossessivo delle medesime parole, la presenza di similitudini assolutamente uguali, gli interventi di un’inquietante domestica che mette in guardia il professore dai pericoli che si nascondono dietro l’insegnamento della filologia, conducono verso una conclusione inaspettata e violenta, dietro la quale si celano numerosi significati, non ultimo quello della violenza sessuale. Lo squillo del campanello annuncia l’arrivo di una nuova studentessa-vittima e l’inquietante ripetersi della medesima situazione.