IL RAPPORTO STORICO TRA “VERITÀ” E “CERTEZZA”

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Transcript della presentazione:

IL RAPPORTO STORICO TRA “VERITÀ” E “CERTEZZA” Cosa possiamo conoscere? Pensiero e mondo reale tra criticismo kantiano e idealismo hegeliano

Il realismo filosofico La realtà coincide con il pensato, cioè con il contenuto del pensiero, la realtà è idea. Per il realismo il mondo vero esistente in se stesso (la realtà) è appunto ciò che il pensiero pensa quando l’uomo è libero dall’errore e quindi quando l’uomo pensa in modo epistemico- filosofico. «Non è il pensiero che crea la verità, esso solo la scopre: la verità esiste quindi in sé anche prima che sia scoperta». Agostino

Opposizione di certezza e verità La filosofia moderna da Cartesio a Kant si rende conto che, se la realtà esiste in sé indipendentemente dal pensiero che la conosce, è necessario, allora, mettere in questione il principio che la certezza (il pensiero non traviato dall’errore) abbia come contenuto la verità. PERTANTO: se il realismo filosofico è affermazione dell’identità immediata di certezza e verità, la filosofia moderna, fino a Kant, è affermazione dell’opposizione di certezza e verità, essendo una critica del realismo tradizionale e anche del nostro comune modo di pensare

Il problema della filosofia moderna La filosofia moderna è la problematizzazione della coincidenza delle nostre rappresentazioni (idee) e la realtà esterna. Perciò, al contrario dello scetticismo (che nega che il contenuto della certezza possa mai essere verità), per la filosofia moderna il problema è se il contenuto della certezza sia la verità. Cartesio nega che si possa porre immediatamente come verità il contenuto della certezza, ma non nega (fino a Kant) che si possa giungere a dimostrare che la certezza (il pensiero) abbia come contenuto la verità. Non esclude cioè che si possa affermare mediatamente ciò che non è immediatamente affermabile.

Scetticismo e razionalismo metafisico La negazione scettica della verità non intende approdare ad alcuna verità. Cartesio invece è convinto che la verità originaria si costituisce proprio nell’atto in cui ci si rende conto che non si può affermare immediatamente che il contenuto della certezza sia la verità.

Ricominciare dalle fondamenta A partire dall’esistenza dell’ “io” come esistenza del mio pensiero per dubitare di tutto tranne che dubitare di tutto. «Dubito che il sole esista», (e dunque) «Il sole esiste indubitabilmente». Indubitabile è il mio pensiero, non la realtà esterna ad esso, in quanto il pensiero – nel produrre se stesso – si presenta come una conoscenza “chiara” e “distinta”. Evidente sia per il manifestarsi della cosa stessa, sia per la distinzione, giacché solo ciò che non si confonde con un altro è evidente

Il significato della parola “idea” Per il realismo filosofico: L’idea non è l’id quod conoscitur, (“ciò che è conosciuto”) bensì è l'id quo conoscitur. (“ciò con cui si conosce”) Cartesio, intendendo l’idea il contenuto immediato del pensiero, ritiene che l’idea (o rappresentazione) è l'id quod conoscitur.

Il significato della parola “idea” Nell’uso comune chiamiamo “idea” ciò che non è “reale” e ha solo un’esistenza mentale. Nel vocabolario della filosofia moderna sia ciò che il senso comune e la filosofia realistica chiamano “idea” ( o “una semplice idea”), sia ciò che il senso comune chiama “realtà” sono due tipi differenti di idea PER CUI: Ciò che la filosofia moderna chiama “mondo esterno” non è il contenuto immediato della certezza, perché non allude a questo mondo che ci sta davanti, ma allude a ciò che non percepiamo immediatamente e che sta al di là delle nostre rappresentazioni (“idee”).

A questo punto si tratta di stabilire quale sia tale “realtà”: « Si può dire che tutte le idee (ossia tutte le cose che appaiono nel pensiero) sono come quadri. Se l’autore di tutti i quadri è il pittore – e in questo senso tutti i quadri hanno la stessa “mano” – , d’altra parte il quadro che raffigura un monte differisce dal quadro che raffigura un cavallo. Ora, è vero che un quadro può raffigurare un altro quadro, ma non si può andare all’infinito: da ultimo la serie di quadri si riferisce alla realtà , che contiene realmente tutte le cose che in essi sono contenute rappresentativamente. In quanto costituito da idee, il pensiero esige l’esistenza della realtà – realtà “formale”, dunque – di cui le idee sono rappresentazioni. A questo punto si tratta di stabilire quale sia tale “realtà”: perché sin qui non si può escludere né che questa realtà sia qualcosa di diverso da me , cioè da me in quanto idea pensante (la quale, sin qui, è l’unica realtà affermabile dall’epistéme), né che questa realtà sia io stesso. Si tratta allora di vedere se la realtà oggettiva di qualcuna delle mie idee sia tale, che io conosca chiaramente e distintamente che essa non può essere in me realmente, e che quindi io non possa essere la causa di tali idee; oppure si di tali idee non ne esistono affatto – nel qual caso dovrò riconoscere di essere “solo nel mondo”, cioè l’unica realtà esistente. » Emanuele Severino, “La filosofia dai greci al nostro tempo”, vol. II, pp. 123-124

Il principio di causalità Il principio fondamentale della metafisica greco- medioevale, è così formulato da Cartesio: «Nella causa efficiente ci dev’essere per lo meno tanta realtà quanta ve n’è nell’effetto »; o anche: «Il niente non può essere la causa efficiente di alcunché »; e quindi: «Ciò che contiene maggiore realtà non può essere effetto di ciò che contiene minore realtà ».

L’io è l’unica realtà esistente? La realtà oggettiva, che è contenuto dell’idea, è l’effetto di una realtà formale, effettiva, attuale, che non è a sua volta un’idea, ma è la causa che contiene formalmente tutta la realtà. Per questo motivo, di tutte le idee meno una, è possibile supporre che io stesso, cioè io come realtà pensante, sia la “realtà formale” che è la causa della “realtà oggettiva” di tutte quelle idee. Sino a che non si prende in esame quell’unica idea che fa eccezione, è possibile supporre che il mondo (ossia l’insieme delle idee che lo costituiscono) sia la rappresentazione di quell’unica realtà che sono io.

L’esistenza di Dio Di tali idee e di tutte le altre (meno una) io posso dunque dire che: «Non riconosco nulla di così grande né di così eccellente che non mi sembri poter venire da me stesso. » Ma in me esiste anche l’idea di una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente e creatrice di tutte le altre cose. Si tratta dell’idea di ciò che viene chiamato “Dio”, di cui io non posso essere la causa in quanto sono una realtà imperfetta e finita, perché io dubito.

METAFISICA PREMODERNA METAFISICA CARTESIANA La conoscenza dell’universo diveniente è la base a partire dalla quale si giunge alla conoscenza della realtà immutabile e divina. La conoscenza dell’esistenza di Dio è il fondamento della conoscenza dell’universo che esiste al di là delle rappresentazioni dell’io.

La filosofia moderna e l’esistenza della realtà esterna Se per la filosofia moderna la “realtà esterna” è idea, rappresentazione, poiché con Cartesio è messa in discussione la sua esistenza; È pur vero che – come per il realismo filosofico e il senso comune – anche la filosofia moderna giunge ad affermare che la realtà vera e propria esiste indipendentemente dall’io. La differenza visibile è che la filosofia moderna dimostra l’esistenza della realtà esterna, mentre per la filosofia realista, il senso comune e la scienza moderna tale esistenza non ha bisogno di affermazione ed è affermata immediatamente.

Razionalismo e empirismo La filosofia moderna e l’essenza della realtà esterna oltre ciò che la rappresenta: il fenomeno.

La passività del sentire La realtà vera e propria non solo è esterna alla mente, ma è anche attiva sull’apparato percettivo-sensitivo dell’uomo. Infatti la passività è propria della sensibilità umana, in quanto: se siamo liberi di pensare o di non pensare, o di pensare diversamente ciò che pensiamo, non siamo liberi di sentire o di non sentire, o di sentire diversamente, un certo contenuto sensibile (ad esempio un suono).

Il sentire umano e il suo carattere L’aspetto sensibile dell’esperienza, il sentire umano, ha insieme un carattere rivelativo, e un carattere occultante: rivelativo, perché la sensazione, come effetto di una causa esterna, rileva in qualche modo tale causa; occultante la realtà esterna, perché l’effetto non è la causa. EBBENE: Il razionalismo, a cominciare da Cartesio, ha sottolineato il carattere occultante dell’esperienza, l’empirismo ne ha sottolineato il carattere rivelativo.

Il razionalismo Il razionalismo ha coscienza del carattere occultante della sensibilità: per conoscere ciò che sta al di là delle nostre rappresentazioni sensibili non potremo e non dovremo mai basarci sulle nostre rappresentazioni sensibili. DETTO ALTRIMENTI: per conoscere ciò che è al di là della nostra esperienza, non potremo e non dovremo mai basarci sulla nostra esperienza, ma basarci su principi non attinti dall’esperienza, detti “a priori” o “innati”.

L’empirismo L’empirismo ha coscienza del carattere rivelativo della sensibilità: nella sensibilità vede l’unico reale rapporto, l’unico reale legame tra il mondo delle nostre rappresentazioni e il mondo della realtà in se stessa. le nostre sensazioni sono l’unico elemento, interrogando il quale possiamo sapere qualcosa intorno alla realtà esterna. Appare dunque chiaro che: L’empirismo è una critica alla metafisica razionalista, e tale critica coincide con il rifiuto dell’innatismo e dell’apriorismo razionalistico.

La parabola metafisica Scavalca la sensibilità si appoggia e parte da conoscenze innate, non attinte dall’esperienza. La coscienza dei limiti dell’esperienza è accompagnata dalla convinzione di poter oltrepassare la soggettività sensibile mediante la ragione. La parabola metafisica

Sul concetto di ragione In senso razionalistico, la “ragione” è il “sapere metafisico”. Per l’empirismo, il fondamento del sapere è la coscienza sensibile, ossia la coscienza che ha come contenuto la sensibilità. Ciò non vuol dire che ogni nostra conoscenza altro non è che “sensazione” (come sostiene l’antica concezione del sensimo), poiché la sensibilità è contenuto della coscienza, dal momento che siamo consapevoli (ne abbiamo coscienza) dei colori, delle forme, dei sapori, ecc… Pertanto, l’empirismo non nega la coscienza (cioè non è un sensismo), ma nega che la coscienza possa avere di per se stessa un contenuto reale non sensibile (David Hume).

Critica del principio di causalità Tutti i ragionamenti intorno alla realtà, osserva Hume, sono fondati sulla relazione di causa ed effetto, cioè su principio di causalità. Ma la conoscenza di questa relazione non può essere raggiunta ragionando a priori, e cioè indipendentemente dall’esperienza: tale conoscenza “sorge direttamente dall’esperienza”. Il principio di causalità è una congettura. La sua “evidenza” non ho un valore “logico”, ma “psicologico: l’abitudine. Privata del principio di causalità la nostra mente non può in alcun modo dimostrare l’esistenza di Dio – così come non può dimostrare l’esistenza di una realtà esterna che sia la causa delle nostre percezioni degli oggetti sensibili.

Critica dell’idea di sostanza e la “natura umana” Hume opera una riduzione radicale dell’estensione della ragione – e cioè dell’epistéme: la ragione può avere come contenuto reale solo quello che per Cartesio era il punto di partenza della ragione, ossia il contenuto immediato della mente, l’indubitabilità delle nostre percezioni. La ragione non può spingersi oltre l’esperienza, anche se la “natura dell’uomo” spinge l’uomo a credere che esista una realtà esterna ed indipendente da lui. In questo modo, non solo la metafisica, ma anche ogni conoscenza razionale della natura è priva di ogni valore universale e necessario.

L’inconoscibilità delle cose in sé Kant mostra nel modo più perentorio che le cose in sé stesse, esterne ed indipendenti dalla conoscenza umana, non possono essere conosciute. Mostra cioè che l’opposizione tra certezza e verità è definitiva. il “criticismo” kantiano è la consapevolezza (epistemica) dei limiti della ragione umana, in opposizione al “dogmatismo” cartesiano secondo il quale il contenuto conosciuto, in cui si imbattono le costruzioni conoscitive edificate dall’uomo, possa essere l’insieme delle cose in sé stesse.

Kant e la metafisica l’esistenza della cosa in sé Se per Kant la cosa in sé, come tale, è inconoscibile, ne segue che la metafisica – che intende appunto essere una conoscenza della cosa in sé – è impossibile come scienza. Il fenomeno è il contenuto del conoscere e quindi non è niente in sé stesso, al di fuori del nostro modo di rappresentare: le cose dell’universo che ci circonda sono fenomeni, ma il fenomeno è rappresentazione e quindi è riferimento a qualcosa che da ultimo non è fenomeno, ma è una cosa in sé.

Fenomeno e noumeno Il concetto di fenomeno è inevitabilmente connesso al pensiero dell’esistenza delle cose in sé; ma questo pensiero non ci fa conoscere nulla di esse, sì che esse, in quanto pensate sono “noumeno” (nooúmenon:“ciò che è pensato”). Sono appunto un “noumeno” in senso negativo e non positivo come avviene nel dogmatismo, che ritiene di conoscere positivamente con la ragione ciò che sta al di là dell’esperienza.

Ipotesi gnoseologica di fondo «Benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola(semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili)». Immanuel Kant

La conoscenza universale e necessaria Kant richiama un principio ben noto nella storia del pensiero filosofico, e cioè che la semplice esperienza ci dice ciò che è, ma non ci dice che è necessariamente così e non può essere altrimenti. Pertanto essa non dà all’uomo una conoscenza universale. La conoscenza universale e necessaria non può essere il semplice rispecchiamento di ciò che di fatto si presenta nell’esperienza – ossia non può essere derivata dall’esperienza, ossia a posteriori – ma è a priori rispetto all’esperienza, ossia non è ottenuta in base all’esperienza ed è quindi indipendente da essa.

La “rivoluzione copernicana” L’esistenza di un sapere necessario e universale richiede che non sia la conoscenza umana a regolarsi sulla natura degli “oggetti”, ma, all’opposto, che siano gli “oggetti” a regolarsi sulla natura della conoscenza umana. N.B.: l’oggetto di cui si dice che la conoscenza umana non può regolarsi su di esso è la cosa in sé; l’oggetto, di cui si dice che si regola sulla natura della conoscenza, è l’ oggetto dell’esperienza (il fenomeno).

La produttività del conoscere (verum ipsus factum) Ciò che la nostra conoscenza conosce a priori degli oggetti è appunto ciò che la nostra conoscenza produce in essi: «noi delle cose non conosciamo a priori se non quello che vi mettiamo». L’uomo può conoscere la natura, proprio perché la produce. La “natura” non è, infatti, la cosa in sé, ma è l’oggetto dell’esperienza in quanto esso si realizza conformemente alle leggi della conoscenza. In questo modo la fisica è sì scienza universale e necessaria (come la matematica), ma ha tale valore, proprio perché non è scienza della cosa in sé, ma dei fenomeni, cioè dell’esperienza.

La “critica della ragion pura” È la scienza stessa (epistéme) che stabilisce quali sono le condizioni che rendono possibili le conoscenze a priori – vale a dire prodotte dalla ragione, che Kant chiama “pura” in quanto procede indipendentemente dall’esperienza – e mostra l’ambito all’interno del quale tali conoscenze hanno valore, ossia possono essere considerate , giudicate, necessarie e universali per stabilire ciò che deve essere affermato intorno a qualcosa

Giudizi analitici. Giudizi sintetici a posteriori Kant chiama giudizi analitici, i giudizi nel quale il predicato è già implicitamente contenuto nel soggetto: “Tutti i corpi sono estesi” (si basano sul principio di non contraddizione, poiché c’è identità fra soggetto e predicato) Giudizi sintetici, sono invece i giudizi nel quale il predicato non è contenuto nel soggetto ed è unito a esso mediante una “sintesi” che è essa a contenere il soggetto e predicato: “Tutto ciò che è esteso cade verso il basso” (il loro fondamento è l’esperienza, cioè l’esperienza della connessione tra ciò che è espresso nel soggetto e ciò che è espresso nel predicato del giudizio)

Giudizi sintetici a priori Il loro fondamento non è il principio di non contraddizione, e neppure l’esperienza Il fondamento dei giudizi sintetici a priori è costituito da quelle “forme a priori”, cioè da quell’ordinamento, da quelle leggi a priori degli oggetti dell’esperienza che lo spirito (il soggetto) produce in quanto esso, come conoscenza universale e necessaria, non può essere conoscenza delle cose in sé, ed è ciò su cui si regolano gli oggetti [Kant, invece di chiedersi come le cose sono fatte in se stesse, si chiede come esse devono esser fatte per esser conosciute dallo spirito, dal soggetto]

Materia e forma La facoltà dello spirito è di essere modificato da quegli “oggetti” che sono le cose in se stesse. Il risultato di questa modificazione è l’insieme delle rappresentazioni sensibili, cioè delle “sensazioni”. Le sensazioni sono soltanto il modo in cui lo spirito reagisce all’azione esercitata su di esse da parte delle cose in se, come possono apparire all’interno della nostra costituzione soggettiva, cioè come fenomeni. Nel fenomeno, la materia è la sensazione, cioè la molteplicità delle determinazioni sensibili, mentre la forma è l’ordine che lo spirito conferisce alle sensazioni per il fatto di accoglierle e raccoglierle in se stesso.

L’intelletto pensa l’oggetto dell’intuizione sensibile Kant scrive: «Senza sensibilità non ci sarebbe dato nessun oggetto, e senza l’intelletto nessun oggetto sarebbe pensato». Poiché in entrambi i casi “oggetto” significa “cosa in sé”, quando Kant afferma che «L’intelletto è la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile», intende che l’intelletto riferisce i dati dell’intuizione sensibile a ciò che sta al di là di ogni dato e che quindi è la cosa in sé, un’incognita, una X, che Kant chiama “oggetto trascendentale”.

La metafora del lago di ninfee Sulla superficie di un lago galleggiano dei fiori con le radici attaccate sul fondo – delle ninfee. Il fondo del lago è invisibile dalla superficie. Si vedono solo le figure formate dalla disposizione dei fiori sulla superficie del lago. Tuttavia i fiori, in qualche modo, provengono da fondo del lago. Sono allora possibili tre diversi modi di interpretare il rapporto tra la disposizione dei fiori sulla superficie e il modo in cui essi sono attaccati sulla superficie del lago. La metafora del lago di ninfee

C’è chi afferma che alla disposizione dei fiori sulla superficie corrisponda un’identica disposizione delle loro radici sul fondo. E afferma questo perché è convinto di disporre di una sonda che gli consente di percepire la conformazione del fondo. C’è chi diffida delle sonde (perché i loro referti non sono sempre concordanti) e finisce per disinteressarsi del modo in cui le ninfee si attaccano al fondo. C’è infine chi è consapevole che nessuna sonda potrà mai rendere visibile il fondo del lago e quindi sa di non poter dir nulla intorno alla disposizione delle radici delle ninfee sul fondo del lago. Ma egli sa anche che le ninfee sono attaccate al fondo, e che se la loro disposizione alla superficie non ci può suggerir nulla intorno alla disposizione delle radici sul fondo, tuttavia la disposizione di superficie è vincolata alla disposizione sul fondo e cioè non può essere sostituita da qualsiasi altra disposizione. Per quanto aggrovigliati siano i gambi dei fiori, la disposizione di superficie è determinata dalla disposizione sul fondo, e quindi i rapporti che sussistono tra i fiori e la superficie non sono modificabili, anche se tali rapporti non sono quelli del fondo ma, appunto quelli della superficie.

Significato della metafora La superficie del lago corrisponde alla coscienza Le ninfee ai fenomeni sensibili che vengono ricevuti nella coscienza Le radici sul fondo alle cose in sé stesse La disposizione delle ninfee – cioè i rapporti che sussistono tra esse alle categorie o concetti puri a priori I gambi delle ninfee, mediante i quali esse provengono dal fondo, alla ricettività della sensibilità (la superficie del lago riceve i fiori dal fondo invisibile, come la coscienza riceve le determinazioni sensibili dalle cose in sé inconoscibili

La prima delle tre interpretazioni sopra indicate corrisponde al razionalismo, la seconda all’empirismo di Hume, la terza al criticismo di Kant. Kant mostra nel modo più perentorio che noi possiamo conoscere soltanto fenomeni (“ninfee”) e non cose in sé (“radici”). Il fondo del lago non è la superficie e nessun potenziamento ed ampliamento della vista potrà mai andare oltre la superficie, penetrando l’oscurità dell’acqua. Non possiamo dir nulla sul modo in cui le ninfee si attaccano al fondo. Però Kant non perde di vista che i dati empirici provengono dalla cosa in sé, ossia che lo spirito, in quanto sensibilità, è recettività, ossia è modificato dalla cosa in sé. Non perde di vista il legame che unisce lo spirito alla cosa in sé, e anzi afferma che lo spirito stesso, in quanto intelletto, riferisce i dati sensibili alla cosa in sé. In questo riferimento, l’intelletto pensa l’ “oggetto” trascendentale dell’intuizione sensibile, cioè pensa la cosa in sé come ciò da cui ci vien dato il fenomeno. Orbene, se la cosa in sé, da cui i dati empirici provengono, è inconoscibile, e se tuttavia l’intelletto sa –pensa – che la cosa in sé è ciò da cui i dati provengono, allora l’intelletto, pur sapendo che i rapporti in cui si trovano i dati empirici sono soltanto fenomenici, sa anche che tali rapporti non sono (come sostiene Hume) variabili a piacere, non sono semplici fatti, ma sono vincolati al fondo da cui provengono e quindi sono rapporti costanti, sintesi immodificabili, necessarie, universali. E tali sintesi sono a priori.

Il senso della “rivoluzione copernicana” Non è la conoscenza a regolarsi sugli oggetti (=cosa in sé), perché altrimenti essa non sarebbe universale e necessaria, ma sono gli “oggetti” a regolarsi sulla conoscenza a priori di essi: non solo su quella conoscenza a priori che sono le intuizioni pure di spazio e tempo, ma anche su quelle conoscenze a priori che sono le categorie dell’intelletto Pertanto è il soggetto, con le sue categorie e con le forme pure dell’intuizione, che organizza l’intero insieme della conoscenza.

La negazione idealistica della cosa in sé

L’oltrepassamento del realismo L’affermazione kantiana dell’inconoscibilità delle cose in sé ha senso soltanto in relazione al riconoscimento dell’esistenza delle cose in sé, se quest’ultime non esistessero, non si potrebbe nemmeno affermare che esse sono inconoscibili. Anche il fenomenismo kantiano è dunque un realismo – ossia è affermazione che la res, la cosa, è indipendente ed esterna rispetto al conoscere. Al contrario, per l’idealismo lo stesso concetto di cosa in sé è contraddittorio Comprendere che il concetto di cosa in sé è contradditorio significa comprendere che al di là del pensiero non può esistere alcuna cosa in sé esterna ed indipendente da esso.

La cosa in sé è un assurdo Kant aveva distinto il “conoscere” che ha come contenuto l’esperienza, dal “pensare” che ha come contenuto la cosa in sé, alla quale non compete nessuna delle determinazioni dell’esperienza (né le forme pure, né le categorie) ed è pertanto inconoscibile sebbene possa essere pensata. La “cosa in sé” è infatti la cosa come essa è al di fuori e indipendentemente da suo essere conosciuta: è la cosa chiusa in sé e chiusa al conoscere. Ma nel concetto di “cosa in sé”, la cosa in sé è appunto concepita, cioè conosciuta, e in quanto concepita e conosciuta, essa non è chiusa in sé e chiusa al conoscere, ma aperta al conoscere. Proprio perché è concepita, la “cosa in sé” non può essere in sé.

La cosa in sé non esiste Proprio perché la cosa in sé è “pensata”, essa non può dunque essere “in sé”, né qualcosa di inconoscibile. Il tentativo di stabilire dei limiti al conoscere, quindi, non può che fallire, perché tali limiti possono essere posti solo in quanto, in qualche modo, si conosce ciò che sta al di là di essi, e cioè solo in quanto essi sono oltrepassati. Tanto più ci si sforza di pensare una dimensione dove le cose sono in se stesse, indipendenti e indifferenti al pensiero, tanto più è presente quel pensiero dal quale si vorrebbe prescindere, e tanto più appare l’impossibilità di pensare la cosa in sé, cioè il non pensato, il non conosciuto, il non concepito Con la negazione dell’esistenza della cosa in sé, l’idealismo giunge quindi alla negazione della tesi kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé.

L’IDENTITÀ MEDIATA DI “CERTEZZA” E “VERITÀ” Mediante la negazione della cosa in sé, l’idealismo giunge ad affermare daccapo che la “certezza” è identica alla “verità” Col toglimento della cosa in sé, il fenomeno non è più qualcosa di semplicemente soggettivo (non è più “certezza” opposta a “verità”), ma è la stessa realtà in se stessa, che appare. Daccapo, nell’idealismo, il contenuto del pensiero è l’essere – e non l’immagine soggettiva e quindi alterante dell’essere. Se quindi per il criticismo kantiano l’essenza dell’essere è di rimanere nascosta all’uomo (la cosa in sé è inconoscibile), per l’idealismo, all’opposto, l’essenza dell’essere è di rivelarsi nella coscienza umana.

Il ritorno della metafisica La negazione kantiana della possibilità della metafisica come “scienza” deriva dall’affermazione dell’inconoscibilità della cosa in sé, e questa affermazione è a sua volta fondata sul presupposto della cosa in sé. Il toglimento idealistico di tale presupposto implica pertanto il ritorno della metafisica come “scienza” epistéme), che non si limita alla considerazione di questa o quella parte della realtà, ma si solleva, come la filosofia greca, alla comprensione del Tutto come “il solo vero”. Quella idealistica è stata chiamata la “metafisica della mente”, per distinguerla dalla “metafisica dell’essere” – dove l’ “essere” è inteso come quella realtà esterna alla mente.