Matematiche elementari da un punto di vista superiore Prof Matematiche elementari da un punto di vista superiore Prof. Giovanni Lariccia Lavoro di gruppo di Anna Ballirano Maria Bonomo Stefania Gabriele Noi e i numeri
Breve storia del pensiero matematico “Tutte le cose che si conoscono hanno numero: senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché” Filolao Pitagorico. Breve storia del pensiero matematico da Pitagora a Kant
Ma come possono i numeri spiegare le cose? Pitagora, già nel 550 a. C. sosteneva che tutte le cose che si conoscono hanno un numero: senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché. Ma come possono i numeri spiegare le cose? Pitagora rispondeva che non è vero che i numeri siano privi di concretezza fisica. L’uno, che genera tutti gli altri numeri, era per lui un punto materiale. E, per conferire materialità anche agli altri numeri, fondeva insieme l’aritmetica e la geometria. Se l’uno è il punto, il due è la linea, il tre la superficie, il quattro il volume. Oltre che in termini scientifici, i numeri venivano interpretati anche in un’altra chiave: si riteneva che l’uno significasse la ragione, il due il sesso femminile, il tre il sesso maschile, il quattro la giustizia.
Maschilisti com’erano, i pitagorici associarono subito questa fecondità dei numeri dispari al sesso maschile e i numeri pari a quello femminile. Analogamente, nei brani musicali i suoni più gravi e robusti erano considerati maschi, mentre quelli più fievoli e acuti femminili. I pitagorici giunsero a scoprire, con un po’ di sconcerto, anche il cosiddetto numero “indicibile”. Si tratta di che è il rapporto vigente tra l’ipotenusa e un cateto di un triangolo rettangolo isoscele, come è mostrato dal teorema di Pitagora. La caratteristica di questo numero è di contenere una serie infinita di decimali dopo la virgola. Se questa serie fosse periodica, la si potrebbe determinare a priori, ma non lo è, quindi nessuno potrà mai arrivare a conoscerla del tutto. Chi la scoprì si rese conto di trovarsi davanti a un numero diabolico: non solo era infinito, cosa che già di per sé era considerata una grossa colpa, ma presentava la numerosità di essere infinitamente variabile e imprevedibile.
La leggenda attribuisce questa intuizione a uno dei primi pitagorici del V secolo a. C., Ippaso di Metaponto. I pitagorici erano partiti dalla convinzione di poter calcolare aritmeticamente tutti i rapporti della realtà e, inaspettatamente, dovevano constatare che un rapporto relativo proprio a quel triangolo rettangolo, che era il vanto del teorema di Pitagora, annegava in un mistero che nessuno poteva risolvere. Ippaso risultò due volte colpevole: per aver scoperto il numero indicibile e per averlo rivelato ai profani. Gli dei ne furono indignati e si dice che punirono questo suo tradimento facendolo naufragare.
Dopo lo scandalo del numero indicibile i pitagorici non si dettero per vinti. Le dottrine di Pitagora continuarono a mantenere la loro autorevolezza a prescindere dalla scoperta di Ippaso. La trovata di maggior effetto di Pitagora fu quella del numero dieci. Lo additò ai suoi discepoli come un oggetto di culto. Come si sa, con i numeri è facile giocare e ottenere risultati sorprendenti. Ecco dunque le doti magiche del dieci. Anzitutto è la somma dei primi quattro numeri, che rimandano agli elementi essenziali dello spazio geometrico. Ma in questa supremazia il dieci aveva un rivale, il numero tre, considerato sacro in quasi tutte le religioni dell’antichità. Come metterli d’accordo? Con un espediente ingegnoso, quello del cosiddetto triangolo quaternario. . . . . . . . . . .
Platone, in Sicilia si trovò a frequentare gli ambienti matematici dei pitagorici. La matematica prescinde dalla visione fisica delle cose. Se studio come dividere un quadrato in due triangoli, mi è più d’impaccio che d’aiuto costruirmi il quadrato e i triangoli con materiali plastici. La prima cosa che faccio è rappresentarmi quelle figure nella mente. Prima che con gli occhi del corpo è con quelli della mente che vedo le figure. La geometria è la materia che più si presta a spiegare l’idea platonica degli occhi della mente. In geometria non sono soltanto una metafora, ma un indispensabile strumento di conoscenza. Io posso raffigurarmi mentalmente un esagono anche se non mi è mai capitato di vederne uno con i miei occhi. Questo perché le figure geometriche sono contemporaneamente immagini fisiche e modelli mentali. Al di fuori della geometria, gli occhi della mente sono soltanto una metafora. Sul frontespizio dell’Accademia da lui fondata, dice la tradizione, aveva fatto scrivere: «Non si entra qui se non si è geometri».
Il più eccellente discepolo di Platone fu il pragmatico, realista e scienziato Aristotele. Ma chi è l’uomo virtuoso? La virtù non è un ideale bello e pronto, ogni uomo deve cercarsela. La virtù è una via di mezzo tra due vizi, uno per difetto, l’altro per eccesso. Aristotele celebra chi si ferma a metà strada, a quello che egli denomina il «giusto mezzo». Se la virtù è un giusto mezzo, raggiungerla non è frutto di un mero calcolo. Il giusto mezzo non va inteso come una proporzione numerica, così come tra il 20 e il 10 il mezzo è il 6, ma in modo più intelligente. Persino nella logica Aristotele riesce ad introdurre un’applicazione della medietà con l’invenzione del suo famoso sillogismo. Il sillogismo è un’argomentazione che, partendo da due premesse, giunge ad una conclusione.
Per Aristotele solo ciò che è determinato può considerarsi perfetto, e siccome non c’era dubbio che l’universo fosse perfetto, non poteva che essere un cosmo chiuso, come un’immensa sfera finita. A demolire questa secolare convinzione Giordano Bruno impegnò ogni sua energia: il suo pensiero, la sua intuizione, la sua fantasia. Ma se l’universo è infinito, pensava Bruno, il nostro non può essere l’unico mondo esistente. Credere che non vi siano altri pianeti all’infuori di quelli che vediamo è come credere che gli unici uccelli esistenti siano quelli che vediamo dalla finestra di casa nostra. Nel delineare la struttura dell’universo Bruno riesce a superare la difficoltà di concepire un universo infinito. Il centro dell’universo è dovunque, mentre la sua circonferenza non è in nessun luogo.
“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.” Galileo Galilei, Il Saggiatore, 6.
La sua formidabile scoperta, il cannocchiale, permise a Galileo di osservare la natura. Tuttavia, tale scoperta, sarebbe rimasta sterile se non si fosse accompagnata a quel potente strumento di conoscenza che è la matematica. La natura è un libro scritto in lingua matematica, ma per comprenderlo bisogna conoscere la lingua e i caratteri nei quali è scritto. Solo grazie alla sua eccezionale fantasia egli riuscì ad escogitare una maniera per collegare il calcolo con l’esperimento quale, per esempio, fu l’esperienza delle biglie sui piani inclinati.
Fra gli ammiratori di Galileo vi fu un personaggio di tale spessore da animare con le sue idee tutto il pensiero inglese del seicento. Thomas Hobbes, dopo il fallimento della quadratura del cerchio, decise di mettere da parte la geometria pura per dedicarsi al calcolo. Secondo lui il calcolo è un procedimento costante della mente cioè ragionare è calcolare.
Isaac Newton vissuto in Inghilterra fra il 1642 e il 1727, ebbe in comune con Galileo l’eccezionale talento fisico-matematico. Il poeta Alexander Pope, suo contemporaneo, lo considerò un eletto del Signore, e in alcuni suoi versi immaginò che Dio avesse illuminato l’umanità facendolo nascere: «La natura e le sue leggi giacevano nella notte. Dio disse: Newton sia! E ogni cose si accese». Newton non aveva un bel carattere e per questo accese una polemica abbastanza virulenta con Leibniz. Tutti e due avevano scoperto, ognuno per conto proprio, il calcolo infinitesimale. Newton sarebbe arrivato per primo se non avesse tardato a pubblicare le sue scoperte.
Leibniz, che non aveva un carattere migliore, invece di chiarire direttamente la questione, si appellò direttamente al tempio della scienza di allora, la Royal Society. Sfortunatamente il diabolico Newton ne era diventato presidente ed ebbe buon gioco nell’istituire una commissione di esperti amici che gliela dettero vinta accusando Leibniz di plagio. Ma il rancore gli rimase, e quando Leibniz morì disse di aver provato grande soddisfazione a spezzargli il cuore. Ma quest’ uomo di grande personalità fu sempre un insoddisfatto. Non disdegnava neppure di servirsi di almanacchi alchimistici per indagare i segreti della natura. Newton voleva procedere per certezze e non per ipotesi. Le leggi fisiche da lui scoperte sono indubitabili. Per lui la gravitazione universale non era un’ ipotesi, era una certezza. Le ipotesi che Newton non accetta non sono quelle che riguardano il come la natura si comporta, ma i perché dei comportamenti naturali, cioè le cause occulte delle leggi fisiche. Egli non intendeva bloccare il progresso della scienza ma soltanto bocciare le ipotesi metafisiche non derivate dall’osservazione. Anche la teoria della gravitazione fu in un primo tempo per Newton un’ipotesi, una spiegazione provvisoria, finchè i calcoli complicati che essa richiedeva non le conferirono lo statuto di teoria scientifica. Newton amava ripetere sempre: «Fisica, guardati dalla metafisica!» Ma il primo a violare questo divieto fu Newton stesso. Dopo aver stabilito che la gravità fosse una forza universale, ammise che la causa e la garanzia della forza di gravità fosse Dio.
John Locke sostiene che è solo grazie ai sensi che le idee si sviluppano nella nostra mente. Egli paragona la loro formazione al processo secondo cui un locale vuoto viene arredato a poco a poco. Naturalmente prima sorgono le idee più facili, poi le più difficili. Un adulto sa che 18+19 fa 37 con la stessa evidenza con cui sa che 1+2 fa 3. Invece, per un bambino la cosa è diversa, apprenderà prima le idee dei numeri più piccoli e, solo quando sarà cresciuto, quelle di numeri come 18 e 19.
Immanuel Kant Nacque nel 1724 in una cittadina della Prussica orientale, Königsberg, e lì trascorse tutta la sua vita. Ebbe una vita estremamente provinciale, ma gli aneddoti che lo riguardano sono molto divertenti. Quello più celebre fa di Kant una specie di orologio, tanto che lo soprannominarono “orologio di Königsberg”. Essendo una persona estremamente metodica, Kant scandiva la sua giornata con una serie di azioni e gesti compiuti sempre alla stessa ora: la sveglia, la colazione, le lezioni, il pranzo. La sua puntualità nella passeggiata giornaliera colpì i suoi concittadini: sotto i loro occhi il professore usciva di casa ogni giorno alle tre e mezzo in punto per andare a camminare lungo un viale alberato. Dopo averlo raggiunto, lo percorreva otto volte. Sorse così la leggenda di Kant- orologio di Königsberg: quando lo vedevano uscire, i suoi vicini regolavano gli orologi.
Kant è convinto che tutte le conoscenze consistano in asserzioni, come ad esempio «la terra è sferica». Nella terminologia della logica un’asserzione viene detta «giudizio». Quando si acquisisce una nuova conoscenza, si opera perciò un collegamento prima inesistente, cioè una sintesi di due elementi prima slegati. Il giudizio «Un triangolo ha tre angoli» è un giudizio «a priori» perché non ha bisogno di contare i suoi angoli per sapere che sono tre. Io so che qualsiasi triangolo, anche se non l’ho mai visto, non può che avere tre angoli. Questo giudizio è, però, analitico perché non collega due dati tra loro separati. Quando dico «triangolo» mi riferisco automaticamente a qualcosa che ha tre angoli. Molti giudizi, secondo Kant, sono di questo tipo: a priori, ma analitici. La matematica è sintetica e a priori. Ad esempio, il principio che due rette non possano formare una figura è un principio e un giudizio sintetico che non deriva da una riflessione intellettuale, ma da una pura intuizione. Inoltre, esso è analitico perché nel concetto di due rette non è contenuta la loro incapacità di costruire una figura. Il carattere sintetico delle proposizioni geometriche è più facile da cogliere. Kant diceva: “nella proposizione 7+5=12, il 12 è una conoscenza nuova non ancora contenuta nell’espressione 7+5”. Quindi si tratta di un giudizio sintetico e, per di più, intuitivo perché non deriva da un ragionamento intellettuale.
Questo carattere sintetico e intuitivo del risultato di una somma è uno dei punti più controversi del kantismo. Se la somma avviene tra numeri alti, è difficile dire come possiamo pervenirvi. Kant trova ovvio che non possiamo farlo con il ragionamento analitico. Altrimenti basterebbe analizzare gli addendi e sapremo subito il risultato. I suoi avversari, però, si chiedono come possiamo ottenere la somma con procedimenti sintetici se gli addendi sono numeri come 782986544322. Oggi l’avvento dei calcolatori ha spostato il problema su un altro piano: si risolvono anche le somme complicate mediante una programmazione opportuna, della quale non ha senso dire né che sia sintetica né che sia analitica.
O studianti, studiate le matematiche, e non edificate sanza fondamenti. Leonardo da Vinci