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Discriminazioni di genere
Venerdì 15 settembre 2017 Workshop: Parità di trattamento e discriminazioni Discriminazioni di genere Dott.ssa Clotilde Fierro
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ART. 37 COST. E’ vietata qualsiasi discriminazione fondata in particolare sul sesso (….)
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Art. 1 legge 903/77 (modificato dall’art
Art. 1 legge 903/77 (modificato dall’art. 3 legge 145/2005 poi abrogato dal d.lgs. 198/2006) E' vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. La discriminazione di cui al comma precedente è vietata anche se attuata: 1) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza; 2) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso. Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti. Eventuali deroghe alle disposizioni che precedono sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva. (….)
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Le disposizioni di cui al comma precedente (nullità) si applicano altresì ai patti o atti diretti ai fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso
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Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n
Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa (…).
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Art. 25 d. lgs. 198/2006 come integrato dall'art. 1 d. lgs
Art. 25 d.lgs. 198/2006 come integrato dall'art. 1 d.lgs. 5/2010 di attuazione della direttiva 2006/54/CE Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, (qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento), nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. 2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. (2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti).
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Art. 119 trattato CEE: Gli stati membri sono tenuti ad assicurare ed a mantenere l’applicazione del principio della parità della retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Art. 1 direttiva 75/117/CE: Il principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, previsto dall'articolo 119 del trattato, denominato in appresso «principio della parità delle retribuzioni», implica, per uno stesso lavoro o per un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, l’eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sul sesso in tutti gli elementi e le condizioni delle retribuzioni. In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni basate sul sesso.
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È vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne (ed essere elaborati in modo da eliminare le discriminazioni)
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Il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritiene sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordini all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione davanti al giudice che decide con sentenza immediatamente esecutiva.
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Due elementi peculiari del giudizio avente ad oggetto la discriminazione
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Prima della sentenza 6575/2016 “l’attrazione del licenziamento discriminatorio alla fattispecie del licenziamento determinato da motivo illecito, ai sensi dell’art 1345 c.c.” era affermazione corrente nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che da un lato assimilava licenziamento discriminatorio e recesso intimato per un motivo illecito determinante e dall’altro, in relazione ad entrambi indifferentemente, assumeva non essere sufficiente che il licenziamento fosse ingiustificato, essendo invece necessario che il motivo pretesamente illecito fosse l’unico determinante. Inoltre il particolare riparto dell’onere probatorio veniva in effetti rovesciato nella giurisprudenza nazionale a causa dell’equiparazione tra motivo illecito e discriminazione, che aveva come conseguenza l’onere del lavoratore o della lavoratrice di provare l'intento discriminatorio o il motivo illecito e la sua esclusiva efficacia determinativa della volontà del datore di lavoro.
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La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della l. n. 604 del 1966, l'art. 15 st.lav. e l'art. 3 della l. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita).
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ART. 19 DIRETTIVA 54/06: impone agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio di parità di trattamento. ART. 40 D.LGS. 198/2006: quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti idonei a fondare, in termini precisi e concordanti la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere di provare l’ insussistenza della discriminazione.
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In tema di prova per presunzioni (la quale rappresenta uno strumento, normativamente concesso al giudice, che permette di arrivare alla conoscenza di un fatto per il quale non sia possibile dare una diretta dimostrazione, attraverso un procedimento logico), giacché non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità.
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Precisione e concordanza Cass. 14206/2013
In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l'art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall'art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.
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Legge della Provincia di Trento che prevede come criterio di selezione nel relativo concorso pubblico il possesso da parte dei candidati - tanto se di sesso maschile, quanto se di sesso femminile - di una determinata statura minima (pari a metri 1,65). Nel condizionare la partecipazione al concorso pubblico sopra detto al possesso del requisito fisico di una determinata statura minima, identica per gli uomini e per le donne, il legislatore provinciale ha individuato come destinataria del precetto normativo contestato una generalità di cittadini, senza distinguere all'interno della categoria le persone di sesso femminile da quelle di sesso maschile. Tale classificazione risponde evidentemente a una valutazione legislativa che è basata su un presupposto di fatto erroneo, vale a dire l'insussistenza di una statura fisica mediamente differenziata tra uomo e donna, ovvero è fondata su una valutazione altrettanto erronea, concernente la supposta irrilevanza, ai fini del trattamento giuridico (uniforme) previsto, della differenza di statura fisica ipoteticamente ritenuta come sussistente nella realtà naturale. Nel primo caso, la violazione del principio di eguaglianza, stabilito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, è indubitabile, per aver il legislatore classificato una categoria di persone in relazione a caratteristiche fisiche non rispondenti all'ordine naturale, avuto presente che il fine obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di selezionare l'accesso al posto di lavoro sulla base di criteri attinenti alla statura fisica. Non meno evidente è la violazione dello stesso principio costituzionale nel secondo caso: in quest'ultima ipotesi, infatti, l'aver previsto un requisito fisico identico per l'uno e per l'altro sesso sul presupposto della irrilevanza, ai fini dell'accesso al posto di lavoro, della diversità di statura fisica tra l'uomo e la donna - mediamente consistente, come risulta da rilevazioni antropometriche, in una differenza considerevole a sfavore delle persone di sesso femminile - comporta la produzione sistematica di effetti concreti proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso femminile, proprio in ragione del loro sesso. In altri termini, l'adozione di un trattamento giuridico uniforme - cioè la previsione di un requisito fisico per l'accesso al posto di lavoro, che è identico per gli uomini e per le donne, - è causa di una "discriminazione indiretta" a sfavore delle persone di sesso femminile poiché svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in considerazione di una differenza fisica statisticamente riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso.
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La natura discriminatoria della condotta consiste nel mancato computo nel premio di risultato delle assenze per gravidanza, congedi parentali e permessi per malattia dei figli. Dati statistici: le dipendenti donne fruiscono dei permessi per malattia dei figli in misura 8 volte superiore ai dipendenti maschi godono di maternità facoltativa in misura superiore stesso discorso per i congedi parentali
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Trattamento retributivo di una dirigente deteriore rispetto ai colleghi di sesso maschile.
Il tribunale, raffrontando le retribuzioni percepite dalla ricorrente e quelle dei quadri e degli impiegati , ha accertato che vi era una differenza del 40% in più rispetto alla retribuzione riconosciuta alla ricorrente; ha quindi affermato l’irrilevanza della congruità della retribuzione rispetto alle mansioni svolte ed ha quindi accolto la domanda.
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Progressione stipendiale che prevede quale criterio da utilizzare per la formazione della graduatoria l’esperienza di servizio maturata con attribuzione di un punteggio ridotto ai lavoratori in part time. - Tribunale di Torino 11 giugno 2013 r.g.l. 5790/12 accoglie il ricorso sulla base dei dati statistici e la Corte d’Appello territoriale (sent r.g.l. 601/15) riforma ritenendo indimostrata la discriminazione.
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Motivazione del Tribunale: la percentuale di dipendenti di sesso femminile in part time è superiore all’84%; la percentuale di vincitori in full time è pari al 39,40% e quella dei dipendenti part time è pari al 20%; degli 83 dipendenti che hanno ottenuto la progressione solo 5 dipendenti ina prt time hanno ottenuto la progressione e di questi solo 3 donne. Il criterio selettivo comporta discriminazione indiretta ex art. 25 d. lgs 198/2006 essendo sufficiente che i l criterio ponga gli appartenenti ad un certo sesso in una condizione svantaggiata rispetto ai lavoratori dell’altro sesso restando preclusa ogni valutazione sulla ragionevolezza del criterio stesso posto che l’unica eccezione al divieto tassativo di discriminazione è rappresentata dall’ipotesi in cui la condizione di svantaggio sia giustificata da requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa . Un criterio di per sé ragionevole e legittimo se comporta nei fatti una posizione svantaggiosa per le lavoratrici di sesso femminile diviene per ciò solo illegittimo. La norma sposta la valutazione sulla legittimità del criterio selettivo dal momento della sua elaborazione al momento applicativo del criterio stesso e se l’effetto finale è quello di mettere i lavoratori di un certo sesso in una posizione svantaggiosa il criterio selettivo non può essere adottato in quanto lesivo del principio di non discriminazione.
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Corte d’Appello: manca la prova che dal criterio neutro possa derivare una posizione di svantaggio per i lavoratori di un determinato sesso. Il criterio adottato produce una differenziazione fra lavoratori part time e lavoratori a tempo pieno, ma colpendo i primi indifferentemente dal genere non è idoneo a determinare un vantaggio per i lavoratori rispetto alle lavoratrici. I dipendenti part time partecipanti alla progressione economica erano 81, dei quali 67 donne (82%) e 14 uomini (18%); all’esito della procedura hanno ottenuto la progressione 33 dipendenti part time dei quali 30 donne (91%) e 3 uomini (9%), con esclusione di qualsiasi squilibrio a favore del sesso maschile. Conclude la Corte affermando che, se è vero che con riferimento al gruppo dei dipendenti part time all’esito della procedura sono risultate danneggiate le lavoratrici in numero maggiore dei dipendenti maschi, ciò non è l’effetto diretto o indiretto del criterio di cui si discute, ma semplicemente della circostanza che all’interno del gruppo osservato le dipendenti donne rappresentano la percentuale di gran lunga superiore (80%).
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Elementi di natura statistica, fondati su modalità di prestazione con riduzione dell'orario, appaiono elementi del tutto labili ed inidonei a fondare una seria valutazione in ordine alla sussistenza di discriminazione indiretta, in quanto sprovvisti dei necessari caratteri di stabilità ed univocità. Non può oggi stabilirsi l'indissolubile connessione tra benefici o modalità di lavoro ridotte, quali il part time, ed il favor per le relazioni tutelanti della madre nei confronti del figlio e, pertanto, considerarsi come ipso facto discriminatoria nei confronti della donna l'atto, il fatto o provvedimento che riservi un trattamento differenziato alla categoria dei lavoratori in part time. A fronte delle attestazioni rese in prime cure secondo cui, essendo i candidati utilmente collocati nella graduatoria di II fascia pari a 157, di cui 74 di sesso maschile (47,13%) e 83 di sesso femminile (52,87%), a fronte di un personale complessivamente in servizio in Lombardia pari al 54% di sesso femminile e 47% di sesso maschile - dovendosi pertanto desumere, dalla quasi perfetta corrispondenza percentuale tra occupati e utilmente collocati in graduatoria dei due sessi, l'assenza di incidenza della riparametrazione proporzionale del part time sul collocamento utile in graduatoria sulle risorse di sesso femminile - l'opponente non ha offerto, neanche nella presente sede, argomenti o dati a supporto della tesi contraria, limitandosi a insistere sull'esorbitante maggioranza (88%) delle donne impiegate in part time nell'amministrazione opposta. Non può, infatti, ritenersi sufficiente, ai fini della considerazione della discriminatorietà del criterio adottato dal bando in esame, il fatto che la fruizione del part time sia più frequente tra il personale di sesso femminile, laddove appunto, manca un effetto discriminatorio concreto.
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La giurisprudenza della Corte di giustizia Ce (CGCE 84/170 Bilka, CGCE 80/86 Jenkins) è consolidata nel senso che la rilevazione statistica per cui un certo tipo di lavoratori è composto in stragrande maggioranza da lavoratori di un certo sesso ed in particolare da quello delle donne è sufficiente a fondare una presunzione di discriminazione indiretta per sesso riguardo a misure che trattino detti tipi di lavoratori in maniera meno favorevole degli altri; Non è contestato che la stragrande maggioranza di lavoratori impiegati a tempo parziale sia di sesso femminile (83%) nonostante la maggioranza del personale totale sia di sesso maschile (55,7%): il criterio selettivo che valuta l’esperienza professionale in rapporto percentuale al part time si applica quindi ad una classe di lavoratori composta in maggioranza da donne; Nel sistema di selezione, l’anzianità economica costituisce di gran lunga fattore di selezione più rilevante senza controbilanciamenti effettivi e quindi la scelta di ridurre percentualmente l’anzianità di servizio per i part timers dà luogo ad un particolare svantaggio per i part timers e per essi alle donne.
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Grazie per l’attenzione!
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