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DALLO “SCONTRO DI CIVILTA’” ALLA “PRIMAVERA ARABA”
Samuel Huntington, The clash of civilizations?, 1993 su Foreign Affairs, poi The clash of civilizations, volume 1996. Y. Courbage, E. Todd, L’incontro delle civiltà, Tropea, 2009 G. Kepel: consigli di letture Rivoluzione: (enc. Treccani): Mutamento radicale di un ordine statuale e sociale. In senso stretto, il processo rapido, e per lo più violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente e di stabilire un nuovo ordinamento. Mutamento profondo e rapido di una situazione politica, sociale, economica, culturale.
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La Tunisia 11 milioni circa di abitanti (minori di 25 anni 42%)
Repubblica parlamentare Presidente: Beji Caid Essebsi PIL pro capite: dollari (2017) 100°su 186 Stati. (FMI) Il Rapporto Freedom House 2015 lo pone dal 2015 fra i paesi liberi.
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Ben ‘Ali e la sua Tunisia, il Paese “dove è dolce vivere”
Il 7 novembre 1987 l’anziano za’im Bourghiba viene deposto e Ben ‘Ali sale al potere definendosi l’artigiano del cambiamento e promettendo di aprire una nuova pagina di pluralismo e democrazia. Amnistia e segnali di apertura politica; multipartitismo. Nel 1988, la Tunisia è il primo paese arabo a firmare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti disumani e nello stesso anno promulga un Patto nazionale di riconciliazione.
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In realtà si tratta di una politica “di facciata”: il presidente si farà rieleggere nel 1994 e poi nel 1999 e ancora nel 2004 per la quarta volta, modificando la Costituzione che glielo avrebbe impedito (ma non prima di aver indetto un referendum “farsa” per chiedere al suo popolo di poter continuare la sua “opera di civilizzazione”). Negli anni Novanta il timore del contagio algerino (violenza terroristica, massacri, destabilizzazione politica) e la lotta al terrorismo dopo l’11 settembre 2001 concederanno al governo ben ‘Ali gli strumenti per mostrare il suo vero volto: politica di repressione incondizionata contro gli oppositori interni e bavaglio a tutti gli organi di informazione.
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Si susseguono le denunce di tutte le associazioni per la tutela dei diritti umani (Amnesty International, Reporters sans Frontieres, Human Rights Watch, Freedom House); sempre più difficile l’attività dei movimenti laici e religiosi di opposizione interna. Funerali blindati di Bourghiba (4 aprile 2000). Tutto il decennio sarà caratterizzato da un inasprimento della repressione e da una sempre più sfrontata gestione patrimoniale e corrotta delle ricchezze del Paese. Nel dicembre 2010, nel piccolo centro di Sidi Bouzidi, un giovane ambulante, Mohammed Bouazizi, si dà fuoco davanti al Comune, stanco delle angherie e delle umiliazioni subite. Scoppia una rivolta spontanea, che si diffonde a macchia d’olio fino a Tunisi. È la rivoluzione del gelsomino. Ben ‘Ali è costretto a dimettersi il 14 gennaio 2011.
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La nuova Tunisia Dopo la caduta di tre governi in tre mesi, si stabilisce che la data per le elezioni della nuova Assemblea Costituente (217 rappresentanti) sarebbe stata il 24 luglio 2012, ma la data sarà spostata al 23 ottobre a causa dell’instabilità politica. Le elezioni vedono la netta affermazione dei partiti di opposizione a Ben Ali, in particolare di al-Nahda, il partito islamico moderato, che ottiene il 37% dei voti e 89 seggi, e del partito laico riformista denominato Congresso per la Repubblica, che ottiene l’8,7% dei voti e 29 seggi. Nel dicembre 2011 l’Assemblea Costituente elegge Presidente della Repubblica Moncef Marzouki, leader del Congresso per la Repubblica, che nomina primo ministro Hamadi Jebali, segretario di al-Nahda. Il nuovo governo è costituito da una coalizione tripartita che comprende al-Nahda, il Congresso per la Repubblica e il Forum Democratico per il Lavoro e la Libertà al-Takattul), che ha ottenuto il 7%.
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Il 23 ottobre 2011 l’Assemblea comincia a lavorare alla nuova Costituzione che, il 26 gennaio 2014, è entrata finalmente in vigore. Il 26 ottobre 2014 si sono tenute le elezioni legislative, per l’attribuzione dei 217 seggi previsti per l'Assemblea del Popolo (Parlamento tunisino). Si è trattato delle prime elezioni tunisine giudicate a livello internazionale democratiche e realmente multipartitiche. I risultati ufficiali hanno delineato la conquista della maggioranza relativa da parte del partito laico dell’ex primo ministro Beji Caid Essebsi, Nida’a Tunis (Appello della Tunisia), 85 seggi sul totale di 217, a fronte dei 69 seggi attribuiti al Movimento Ennahda.
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È la conferma della scelta popolare di una sostanziale continuità laica del sistema istituzionale e legislativo in Tunisia. 23 novembre prime elezioni presidenziali a suffragio universale per il presidente della Repubblica (22 candidati; i due più forti sono Caid Essebsi, leader di Nida’a, che risulterà vincitore, e Moncef Marzouki, il presidente uscente). 9 ottobre 2015: Nobel per la Pace 2015 al "National Dialogue Quartet" tunisino per il suo contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralistica dopo la rivoluzione cosiddetta dei "gelsomini".
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L’Egitto Repubblica Araba d’Egitto: 82 milioni di abitanti (fra i 15 e i 18 milioni gli abitanti del Cairo). È il secondo Stato più popoloso dell’Africa. Repubblica semipresidenziale (militari al governo) Presidente: ‘abd al-Fattah al-Sisi PIL pro capite: dollari (2017, FMI) Il Rapporto Freedom House 2017 lo pone fra i paesi non liberi.
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L’intero decennio ( ) della presidenza Sadat è caratterizzato dalla rinascita dell’Islam, soprattutto a livello giovanile e universitario. Le jamā‘āt islāmiyya, o associazioni islamiche, operano nel mondo studentesco ottenendo un grande consenso. Sadat verrà ucciso nell’ottobre 1981 da un gruppuscolo terroristico denominato al-Jihād, dopo la firma degli accordi di Camp David e la pace con Israele e dopo che la rivoluzione iraniana aveva creato un clima di grande tensione fra regimi arabi e opposizione politico-religiosa. Lo sostituirà il vicepresidente della Repubblica, Hosni Mubarak, che si trovava accanto a lui sul palco il giorno dell’attentato. Inizia così il suo trentennio di potere, conclusosi con la rivoluzione di piazza Tahrir nel febbraio 2011.
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Hosni Mubarak e l’Egitto del “Faraone”
Uomo forte, assumerà una funzione riequilibratrice nel tormentato contesto vicino-orientale, in primo piano nei rapporti arabo-israeliani e nella lotta al terrorismo islamico. Anche per lui, come per ben ‘Ali, la sempre più fagocitante presenza della famiglia determinerà coinvolgimenti in loschi traffici e corruzione. Viene rieletto senza soluzione di continuità e con “maggioranze bulgare” ad ogni elezione presidenziale e prepara la strada al figlio Gamal. Sfugge a ben sei tentativi di assassinio, l’ultimo dei quali nel 2005. La presenza di una forte opposizione religiosa incarnata nello storico movimento dei Fratelli Musulmani, lo porterà a ridurre sempre più gli spazi di libertà anche per l’opposizione religiosa. In Egitto era in vigore dal lontano 1981 la legge d’emergenza che consente la sospensione delle libertà previste dalla Costituzione e della libertà d’informazione (oggi la legge di fatto continua a essere in vigore). Mubarak fugge l’11 febbraio 2011.
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Il nuovo Egitto Il potere politico sotto il controllo del Consiglio supremo delle forze armate (SCAF), composto da 18 militari e presieduto da Mohamed Hoseyn Tantawi, che diventa capo di Stato provvisorio dell’Egitto. Ai militari viene demandato il compito di traghettare il paese verso la democrazia. Il governo rimane ufficialmente in carica, ma il parlamento viene sciolto dal Consiglio, che decide anche per la sospensione della Costituzione. Viene decisa inoltre l'istituzione di un comitato che lavorerà ad emendare la Carta costituzionale. Dopo una serie di rivolgimenti, si tiene un dibattuto referendum sui primi emendamenti alla Costituzione della Repubblica araba d'Egitto (19 marzo 2011). La consultazione registra il 77,2% di sì, che consentono in questo modo l'implementazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro la fine dell'anno.
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Il 28 novembre hanno inizio le lunghe elezioni parlamentari che
sanciranno la vittoria del partito dei Fratelli Musulmani “Libertà e Giustizia” e del partito salafita “an-Nur”. Fra maggio e giugno si svolgono le elezioni presidenziali che vedranno vincitore Mohamed Morsi, uomo dell’ala pragmatica della Fratellanza. Novembre 2012: proteste contro il decreto presidenziale che accentra ogni potere nella figura del presidente Morsi e contro la bozza costituzionale “pro-shari‘a”. 15 dicembre 2012: referendum per approvare la Costituzione: alle prime votazioni vince il sì. L’Egitto è scosso da proteste e manifestazioni contro il nuovo regime, a causa della forte crisi economica e sociale (disoccupazione, violazione dei diritti), delle debolezze vecchie e nuove dei soggetti politici al potere e dell’inconsistenza delle opposizioni. Divisioni tra islamisti e laici, conservatori e liberali. Continuano le rivolte e le rivendicazioni da parte dei gruppi di opposizione, riuniti nel Fronte di Salvezza Nazionale (Mohamed el Baradei, Amr Mussa e Hamdin Sabbahi).
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Piazza Tahrir
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La Libia 6,4 milioni di abitanti Repubblica parlamentare
Governo provvisorio PIL pro capite: dollari (2017, FMI) Il Rapporto Freedom House 2017 lo pone fra i paesi non liberi.
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Con la risoluzione 748 l’Onu ha sancito, nell’aprile 1992, un pesante embargo durato fino al 1999, in seguito al quale il paese è stato isolato almeno fino al 2004 dal resto della comunità internazionale. La Libia non aveva di fatto istituzioni di governo; il suo congresso di 760 delegati era una istituzione vuota e di facciata e la politica era (ed è tuttora) di fatto gestita da alleanze tribali. Il patto con il suo popolo si è mantenuto in piedi grazie a un Pil pro capite piuttosto alto (14 mila dollari), a un sistema economico stabile, a un sistema scolastico di buona qualità, ad una propaganda capillare e inesorabile. (Va ricordato tuttavia che dopo l’attentato in un locale di Berlino nel 1986, si era avuta la reazione militare degli Usa di Ronald Reagan che avevano bombardato Tripoli e Bengasi nello stesso anno, uccidendo fra gli altri una figlia di Gheddafi).
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Il 10 giugno 2009, per la prima volta in visita ufficiale a Roma, Gheddafi firma il Trattato di amicizia italo-arabo; ritornerà per la riunione della Fao ed infine, nello scorso agosto, per la seconda visita ufficiale. Il 17 febbraio 2011 cominciano le prime manifestazioni in Cirenaica. Reazione durissima del regime. Segue una vera e propria guerra civile fra forze lealiste e gli insorti riuniti nel CNT. Il 17 marzo 2011 viene votata dall’ONU la risoluzione La Nato assume il 31 marzo il comando delle operazioni militari. Dopo mesi di violentissimi scontri, Gheddafi viene scovato e ucciso il 20 ottobre 2011 a Sirte, sua città natale, dove aveva cercato rifugio. La sua morte viene filmata da molti dei presenti al linciaggio e vista da tutto il mondo. Comincia per la Libia una fase di forte instabilità politica.
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Dopo la morte di Gheddafi il CNT è diventato istituzione provvisoria per il governo della Libia. Ha poteri legislativi e di nomina del governo provvisorio che è guidato prima da Mohamoud Jibril (fino a ottobre 2011), poi per pochi giorni da Ali Tarhouni e successivamente da El-Keib. Febbraio-aprile 2012: elezioni dei Consigli locali. Le elezioni per l’Assemblea Nazionale Generale (200 seggi), che deve nominare il Governo ad interim e la Commissione Costituente, si svolgono il 7 luglio 2012. Vince le elezioni l’Alleanza delle forze nazionali, che raccoglie 58 partiti ed è guidata da Mohamoud Jibril. Il 9 agosto, a Tripoli, Il CNT trasferisce i suoi poteri all’Assemblea Nazionale Generale. L’Assemblea nomina come capo provvisorio dello Stato Mohammed Mgarief, storico oppositore di Gheddafi, economista e islamico moderato. Il 15 ottobre 2012 Ali Zeidan, ex funzionario in esilio dal 1980 e diplomatico in Europa per il CNT durante gli scontri, è stato nominato premier dell’Assemblea e, in quanto tale, incaricato di stilare la lista dei ministri del nuovo governo.
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La Siria 23 milioni di abitanti Presidente: Bashar al-Assad Il Rapporto Freedom House 2014 lo pone fra i paesi non liberi Guerra civile in corso
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Il regime degli Asad Dal 1970 gli Asad sono al potere, prima con Hafez, poi - dal con il figlio Bashar, il “giovane riformatore”. Sono rappresentanti del forte partito Ba‘ath, partito unico da quasi mezzo secolo (“potere al popolo” e “lotta contro il potere sionista”) e appartengono alla minoranza degli alawiti (11%), concentrati nei potenti clan dei Makhluf, degli Shalish, dei Khayr Bek. Gli Alawiti costituiscono l’élite al potere mentre ai bassi livelli dell’amministrazione vi sono rappresentanti delle altre minoranze religiose (sunniti, cristiani, ismailiti, drusi). Il ruolo dei sunniti (maggioranza) con Bashar è stato fortemente ridimensionato (“asadizzazione” dell’apparato di controllo e repressione), così come il ruolo dello storico partito Ba‘ath, che oggi è solo una facciata dietro la quale si cela il vero potere. Anche il ruolo dell’esercito regolare, dopo il ritiro dal Libano nella primavera del 2005, è molto meno importante, rispetto alle Forze speciali e alla Guardia Repubblicana. L. Trombetta, Siria, verso la transizione, in F. Corrao, Le rivoluzioni arabe, Mondadori, 2011. 1963, conquista del potere da parte del partito Ba’ath. 1970, movimento correttivo di Hafez al-Assad. Alawiti:
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La politica degli Asad, secondo un modello simile a quello delle altre autocrazie arabe sin qui esaminate, è sempre stata basata su un potere reale e un potere formale: pubblicamente poggiava su due pilastri: resistenza (muqāwama) e sfida (tahaddī) al potere israelo-americano nell’area, nel contesto di un sistema che prevedeva un governo, un parlamento, una Corte di giustizia e delle amministrazioni locali. Il potere reale in realtà poggia su tre pilastri: mukhābarāt (sistema di sicurezza), corpi speciali dell’esercito (“gli occhi e le orecchie del ra‘īs”) e un sistema di oligarchia finanziaria legata alla famiglia del presidente.
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La questione confessionale
Come in tutti gli Stati creati a tavolino dai colonizzatori nel Medio Oriente, la conflittualità a sfondo confessionale è una costante: il conflitto storico (come quello attuale) è tra i Fratelli musulmani sunniti e il fronte alawita degli Asad. Nonostante la politica di repressione durissima (Fratellanza fuori legge dal 1980 e pena di morte per i suoi affiliati, secondo il codice penale siriano; massacro di Hama, 1982), Hafez era riuscito creare una sorta di equilibrio anche nelle regioni sunnite più difficili. Bashar ha invece concentrato il potere nelle mani alawite e nelle città di Damasco e Aleppo, dimenticando le periferie, discriminando i sunniti ed “ergendosi” a protettore delle altre minoranze. Infine, il sistema “laico” e moderno di Bashar ha in realtà incentivato le frange sunnite più conservatrici e meno attive politicamente, per guadagnare una fetta di consenso e nello stesso tempo scompaginare il campo avversario.
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Una visione comparata Molti elementi accomunano la parabola politica di questi (ed altri) leader del mondo arabo e i movimenti di dissenso che li combattono: da un lato le speranze suscitate al momento della presa del potere, le promesse di apertura democratica rispetto ai precedenti regimi, l’appello al consenso popolare, la strumentalizzazione delle paure delle rispettive popolazioni di aggressioni esterne, delle ingerenze imperialistiche e, non ultimo, del contagio del terrorismo islamico, che indubbiamente hanno fatto il gioco della repressione e del progressivo scivolamento delle istituzioni verso una gestione autoritaria e corrotta del potere. Dall’altro le nuove generazioni, che hanno da tempo dimostrato di non essere più passive di fronte alla retorica della minaccia imperialistica dell’Occidente, della necessità di forti padri della nazione, o infine della paura del caos e del terrorismo islamico.
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Le differenze tuttavia esistono (come stanno dimostrando le vicende della fase finale del loro potere): storie personali e politiche dei leader in questione; parametri sociali ed economici, diverso ruolo a livello internazionale, differente composizione sociale dei paesi coinvolti (es. rilevanza dell’elemento clanico-tribale in Libia o in Siria) ed ancora la specifica funzione dell’esercito in ognuno dei tre Paesi. I presidenti di Tunisia e Egitto hanno giocato la loro credibilità internazionale puntando proprio sulla lotta al terrorismo e si sono accreditati come Stati amici dell’Occidente; Gheddafi si è costruito un consenso come leader panafricano e ostile all’Occidente imperialista (basti pensare al bacino d’approvvigionamento di mercenari dall’Africa Nera di cui solo la Libia ha potuto godere nella spaventosa repressione della rivolta).
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La rivoluzione dei giovani, ovverosia le folgoranti potenzialità della rete
Internet come strumento formidabile per la creazione di movimenti di opinione e di massa, gli smartphone come video per diffondere le immagini in tutto il mondo in mancanza di possibilità di reale diffusione tramite l’informazione ufficiale. Non movimenti di opposizione tradizionali, ma piazze virtuali che si muovono all’unisono guidate da indicazioni via facebook o twitter, capaci di mobilitare migliaia di persone contemporaneamente, di guidare le varie fasi della rivolta e di mostrare in tempo reale al mondo quello che succede. Una vera rivoluzione tecnologica che ha svelato bruscamente anche alla vecchia Europa che esistono nuovi linguaggi, nuovi strumenti, nuove piazze per parlare e fare pressione politica.
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Questa peculiarità delle rivolte arabe del XXI secolo è strettamente collegata all’età media delle popolazioni di questi paesi: società di giovani (istruiti ma disoccupati, traditi nelle loro aspettative, soffocati nelle loro libertà fondamentali) governate da uomini anziani (ricchissimi e corrotti, circondati da un entourage arrogante e potentissimo, appoggiati dall’Occidente). Va ricordato che prima e accanto ad internet le tv satellitari (al-Jazeera, solo per citarne una) avevano già scardinato il monopolio dell’informazione di Stato, da sempre strumento infallibile della propaganda governativa nei paesi arabi.
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La presidenza Obama e il ruolo degli USA
Quali avrebbero potuto essere gli esiti di queste rivolte di massa durante gli anni della presidenza di George W. Bush? Quale è stato il ruolo del discorso di Obama al Cairo nel giugno 2009? Qui si entra nel campo rischioso delle ingerenze vere o presunte, più o meno dirette, dell’amministrazione americana sui fatti in questione. Alcuni osservatori parlano di rivolte eterodirette, finalizzate a sbarazzarsi di leader ormai impresentabili e a proporre nuove alleanze con presidenti solo apparentemente più democratici ma legati comunque da un lato agli eserciti locali e dall’altro alle potenze occidentali, USA in primis. Altri invece propongono la tesi di rivolte popolari autonome, che hanno colto di sorpresa la comunità internazionale, a cui ha fatto seguito tuttavia una frenetica attività diplomatica e di intelligence internazionale, nel tentativo di adeguamento delle politiche estere di fronte alle nuove realtà politiche emergenti e ai nuovi equilibri nel mondo arabo mediterraneo.
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L’effetto domino La rivoluzione dei gelsomini in Tunisia ha avuto effetti dirompenti nel resto del mondo arabo: le rivolte sono oggi diffuse anche in Paesi diversissimi. Questo effetto domino sembra far riemergere i legami ancestrali, “ummici”, di tipo religioso-culturale, la lingua e la fede, la storia comune, elementi non meno globalizzanti della tecnologia informatica. Ma l’effetto domino si ferma qui: la tradizione ha uno spazio molto limitato in questi avvenimenti e le modalità sono del tutto inedite per il mondo arabo-islamico e aprono prospettive nuove tutte da valutare: ognuno di questi paesi ha una sua dolorosa storia di repressione e violazione dei diritti umani e sta percorrendo una sua strada personale verso una transizione democratica.
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La deriva islamica e le rivoluzioni tradite
È innegabile la cifra sostanzialmente laica e progressista di questi movimenti di piazza, dove gli slogan religiosi non hanno avuto la meglio, non ci sono state bandiere degli Stati Uniti o di Israele bruciate né altri segni di militanza islamica (neppure in Libia). Il tema della deriva islamica poi non va assolutamente confuso con la deriva terroristica, proprio perché il maggior nemico del terrorismo è proprio lo sviluppo di regimi democratici o, se si vuole, di una via islamica alla democrazia. Le disastrose conseguenze delle guerre civili scatenatesi in Libia e in Siria hanno motivazioni che esulano dal conservatorismo religioso e si collegano piuttosto alle divisioni interne, alle ingerenze politiche ed economiche esterne, alla destabilizzaizone delle regioni in questione.
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A mo’ di conclusione. Compatibilità fra Islam e democrazia
Da decenni si affronta il tema della incompatibilità fra cultura e religione islamica e democrazia, uno dei punti di forza dei fautori, ancora tanti, dello scontro di civiltà. Una via islamica alla democrazia significa, nel rispetto delle peculiarità delle culture, dei contesti politico-istituzionali e delle storie recenti dei paesi in questione, libertà di pensiero, di parola e di informazione, istituzioni democratiche e non corrotte, governanti legittimati da libere elezioni, alternanza politica, gestione oculata e corretta della ricchezza nazionale, giustizia sociale.
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Queste piazze infiammate stanno squarciando finalmente il velo di mistificazione che da sempre oscurava la verità. Finalmente si può sperare in una risposta a questo dilemma che esca dalle teorizzazioni molteplici che ne sono state fatte e si faccia realtà concreta per il bene e il benessere dei popolari arabi mediterranei e di tutto il mondo musulmano. In questa fase difficile ma straordinaria l’Europa e gli Stati Uniti hanno un ruolo fondamentale: sarebbe gravissimo perdere l’occasione che ci viene offerta per inaugurare una nuova fase di rapporti internazionali più corretti, equilibrati, umani, onesti e, non da ultimo, capaci di creare un mondo più sicuro e prospero per tutti.
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