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Istituto Superiore “Mandralisca”

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Presentazione sul tema: "Istituto Superiore “Mandralisca”"— Transcript della presentazione:

1 Istituto Superiore “Mandralisca”
Progetto Legalità “Frank Di Maio” Mafia delenda est Anno Scolastico 2018/2019

2 Progetto Legalità 2006 … dal 2004 Progetto Legalità 2008

3 Progetto Legalità 2012 Campofelice di Roccella
Progetto Legalità Cinisi

4 Progetto Legalità 2017 Portella della Ginestra Progetto Legalità 2018 1° Torneo “Salvatore Liberto”

5 “Cultura della legalità e lotta alla mafia nelle arti in Sicilia” N
“Cultura della legalità e lotta alla mafia nelle arti in Sicilia” N. 3 Incontri di Formazione storico-antropologica ( Febbraio) Convegno introduttivo dedicato a Frank Di Maio (22 Febbraio) Arte e criminalità in Sicilia (26 Febbraio) I pupi antimafia di Angelo Sicilia (7 Marzo) Natale Giunta, lo chef della Legalità (20 Marzo) Il cinema per la legalità di V. Crivello e C. Gioè (27 Marzo) Debate su mafia e antimafia (3 Aprile) N. 4 Laboratori di Psicologia creativa “Arte del Sé” / N. 3 Cineforum della legalità (IN CONTEMPORANEA – Aprile) Visita al Comando Regionale Carabinieri Tutela BB.CC. (15 Aprile) 4° Cineforum della Legalità – “I cento passi” (2 Maggio) Uscita didattica a Cinisi sui “cento passi” di Peppino Impastato (3 Maggio) dal 6 al 23 maggio 16 ore con l’esperto per la creazione dei Minivideo 24 Maggio: Torneo Volley “S. Liberto” e Consegna Minivideo 30 Maggio: Riunione Giuria per la valutazione dei Minivideo Giornata Finale e Premiazione Borsa di studio “F. Di Maio”: 31 Maggio

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7 Comunemente si ritiene che la parola abbia origine araba (da mahyàs, “spacconeria” o mu’afàh, “protezione” o ma-fi-ha, “non esiste”). Il termine Mafia o Maffia, nei vocabolari, non esiste prima del Il Traina - Vocabolario Siciliano-Italiano – 1868 dice: Mafia: Neologismo per indicare azione, parole od altro di chi vuol fare il bravo: sbracerìa, braveria. Sicurtà d’animo, apparente ardire: baldanza. Mafiusu: Chi opera e si mostra con mafia: bravaccio, sbarazzino. Pitrè e Capuana la ritrovano nel dialetto palermitano per indicare bellezza, baldanza, graziosità, perfezione, eccellenza. Di una bella ragazza si dice che è mafiusa o mafiusedda, perfino le stoviglie e la frutta, se di buona qualità, sono "mafiusi veru!". Il termine, considerato quindi un neologismo, ebbe prima ampia diffusione con l’opera teatrale I Mafiusi della Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca (1863) ambientata nel Centro storico di Palermo. Scrive lo storico E.H. Hobswaun: “I membri delle cosche si riconoscevano fra di loro non tanto da segni convenzionali segreti o da parole d’ordine quanto dall’aspetto, dal vestito, dal modo di parlare e di comportarsi”. Lo conferma quanto riporta S. Nicastro raccontando l’arrivo alla Vicaria di Trapani dei patrioti liberali mazaresi durante la rivoluzione del 1848: “La mattina di buon ora ci si presentò un bell’uomo, alto e robusto, vestito accuratamente, con un berretto rosso fiammante alla sgherra e un gran fiocco scarlatto che gli scendeva sulla spalla. L’abito e il portamento lo rivelavano per un mafioso”. Sull’origine del termine mafioso risulta illuminante un’altra voce del Vocabolario Siciliano-Italiano del Traina (1868): Maffi: Strisce di pelle che dalla groppiera del fornimento dei cavalli, scendono pei fianchi e tengono alte le tirelle: reggitirelle. Va anzitutto precisato che le reggitirelle (o maffi), nella bardatura del cavallo non sono elementi essenziali; costituiscono, invece, un elemento decorativo e ornamentale. Come sostiene qualche anziano, sotto il nome di maffi andavano buona parte degli elementi che ornavano e abbellivano la bardatura del cavallo. E allora, nel dialetto siciliano, un cavallo bardato e ornato con maffi, che cos’è se non un cavaddu maffiusu? Si capisce dunque che alcune qualità e peculiarità attribuite al cavallo bardato quali bellezza, baldanza, accuratezza nei finimenti ecc. sono le stesse che Pitrè, Traina, Nicastro riportano per definire quelli che, in modo metaforico, erano quindi chiamati maffiusi o mafiusi.

8 vMAFIA (o meglio MAFFIA) ◄ MAFFIUSU ◄ MAFFI (senza singolare)
MAFIA ◄ mahyàs “spacconeria” o mu’afàh “protezione” o ma-fi-ha “non esiste” ma, se si chiede direttamente a chi parla Arabo, risponderà che … “NON ESISTONO” ☺ piuttosto strano, inoltre, che un termine avvertito dai linguisti siciliani dell’800 come un neologismo, sia d’origine araba. “Maffi” forse è pure d’origine araba ma molto più antico vMAFIA (o meglio MAFFIA) ◄ MAFFIUSU ◄ MAFFI (senza singolare) Per questo, il termine non è usato né gradito dai delinquenti, che hanno sempre preferito altre definizioni: in America, tra fine ‘800 e primi del ‘900 fu detta “Mano Nera”, oggi di norma l’organizzazione si chiama COSA NOSTRA.

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10 “Quanto meno le colonie greche furono costruite in siti precedentemente occupati da centri indigeni, e ciò è probabile per la maggior parte. In tutti i casi di cui siamo informati, i Greci cacciarono i Siculi [...] con la forza„ (T.J. DUNBABIN, The Western Greeks, Oxford 1948) “The natives will frequently have been enslaved, or at best reduced [...] to supply man-power for agriculture and woman-power for the homes of the dominant race” (K.H. WATERS, The rise and decline of some greek colonies in Sicily, Sydney 1974) 415 a.C. - Il generale ateniese Nicia, parlando a sostegno della spedizione militare in Sicilia durante la Guerra del Peloponneso - descrive il "metodo propedeutico" adottato per la ktisis (“fondazione”) di una città e per la conseguente azione coloniale. “Bisogna pensare che andiamo a fondare una colonia in mezzo a gente di altra razza e nemica, e che ci preme subito, nello stesso giorno in cui potremo sbarcare, la necessità di assicurarci il territorio intorno o di star attenti che, se azzardiamo una mossa falsa, avremo tutti addosso ostili. Poiché temo questo e sono consapevole che dovremo prendere molte decisioni accorte e, ancor più, avere favorevole fortuna (cosa difficile essendo comuni mortali), voglio salpare affidandomi il meno possibile alla sorte e partire sicuro dei preparativi militari secondo le ragionevoli previsioni„ (THUC. VI 23, 2-3)

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12 L'insediamento sparso caratteristico dell’età romana e del tardo-antico, basato sull'esistenza di ville grandi e meno grandi e dei vici (agglomerati rustici), sarebbe resistito fıno al VII secolo. Il regime di proprietà della terra, pur in presenza dell'insediamento bizantino e arabo per casali, però, non dovette necessariamente mutare le sorti del latifondo siciliano: dal momento che l’archeologia dimostra che tali conquistatori non mutarono la dislocazione dell'insediamento rurale, è pure ipotizzabile che non ne abbiamo mutato i rapporti di proprietà. In Sicilia – come nota V. D'Alessandro – persiste, prima e dopo l'arrivo dei musulmani, una tendenza all'organizzazione "tribale" dei nuclei contadini. La conquista normanna, nella seconda metà dell'XI secolo, non cambiò il quadro generale del popolamento: il territorio fu organizzato con la "terra" (un villaggio fortificato) dominante su di un distretto popolato di casali. (V. TITONE, Origini della questione meridionale, Milano 1961) Il mondo contadino siciliano ha vissuto nell’arretratezza per millenni, senza venire a contatto con culture più avanzate; queste sono state sì presenti nell’Isola (Arabi, Normanni, Svevi), ma si sono collocate ai margini del mondo contadino, considerato estraneo, e hanno dato vita a culture aristocratiche. (M. GANCI, La nazione siciliana, Napoli 1978)

13 Pietro Ulloa Vincenzo Consolo

14 “Per quanto riguarda il Meridione, per esempio, è stata una grande sciagura - lo dice anche Croce - la persistenza del latifondo. Vi potrei parlare del latifondo siciliano. Era un'ingiustizia sociale e storica, che è durata nei secoli, per volere di quelli che erano i poteri, prima il potere spagnolo e poi il potere borbonico, per la prepotenza di quelli che erano i baroni, i latifondisti, di questi baroni anarchici che ricattavano il potere dei re, dei viceré e che cercavano di mantenere immobili queste nostre zone e contrade. Con quello che significa il latifondo per sfruttamento dell'uomo, umiliazione dell'uomo e anche il depauperamento di quello che era il patrimonio agricolo delle nostre zone. I terreni lasciati incolti o sfruttati sino all'inverosimile sono dei problemi di cui tutti i meridionalisti si sono occupati.” (V. Consolo al Liceo Classico “G.B. Vico” di Napoli – 11/05/1999) «Non c'è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Ci sono in molti paesi delle fra specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz'altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggerlo, ora d'incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori a offrire transazioni per il recupero degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste fratellanza di una protezione impenetrabile, come lo Scarlata, giudice della Gran Corte Civile di Palermo, come il Siracusa alto magistrato... Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; né di trovare testimoni per i reati commessi in pieno giorno. A1 centro di tale stato di dissoluzione c'è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio dei grandi. In questo ombelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l'ignoranza... »   (Pietro Ulloa, procuratore generale a Trapani nel 1838, in L. Sciascia - Storia Illustrata, XVI 173 – aprile 1972)

15 Beati Paoli Palermo, S. Giovanni alla Guilla

16 IL MISTERO DELLA SETTA DEI “BEATI PAOLI” Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento i cantastorie nel loro girovagare tra i paesi del meridione d'Italia raccontavano ancora al popolo, con l'ausilio di teloni dipinti a mo' di quadro, le gesta di una terribile congrega, chiamata la "Setta dei Beati Paoli". Da sottolineare che anche in uno sceneggiato RAI degli anni Settanta, dal titolo "L'amaro caso della Baronessa di Carini", interpretato da Ugo Pagliai, Janet Agren e Adolfo Celi, si fa cenno proprio ad un’enigmatica setta esistente o che all'epoca dei fatti (primi dell’800) sembra sia esistita in Sicilia. Secondo alcuni documenti, come "La Cronaca di Fossanova" del 1186, "L'atto di giustizia" scritto dal sacerdote Giuseppe Ficarra del 1704, il "Viaggio in Sicilia"  scritto da Federico Munter e pubblicato nel 1831, il giornale "Il Vapore" in cui un racconto di Vincenzo Linares fu pubblicato in due parti nel dicembre del 1836, le "Lettere su Messina e Palermo" scritte da un ufficiale borbonico d'origine napoletane e di stanza a Palermo, fino al romanzo di Luigi Natoli, pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia tra il 1909 e il 1910, si evince che la misteriosa setta dei "Beati Paoli" esisteva già all'epoca dei Normanni, ma che le sue gesta iniziarono ad entrare nel folklore popolare soprattutto nel XVII secolo per poi svilupparsi tra il XVIII e il XIX sec. Infatti i "Beati Paoli" sarebbero stati i continuatori dei "Vendicosi" o "Vendicatori"; perseguitati e scoperti nel 1185 ai tempi di Costanza, la figlia del re Ruggero dei Normanni; il loro capo, Adinulfo di Ponte Corvo, fu giustiziato mediante impiccagione, con molti altri accoliti. Dopo di che sorsero i "Beati Paoli", che avevano l’obiettivo di punire i colpevoli lasciati impuniti dalle leggi ordinarie, oltre ad opporsi ai bravacci dei potenti baroni che imperversavano sulla povera gente; divennero così ben presto dei giustizieri. Erano presenti nel meridione d'Italia e in Sicilia ma sembra che operassero soprattutto a Palermo e nei suoi dintorni. Secondi alcuni si riunivano in un sotterraneo di San Giovanni della Guilla, secondo altri nei sotterranei del Palazzo Reale o del Palazzo Marchesi, secondo altri ancora nelle cripte sotterranee della chiesa dell’Annunziata alle Balate. Inizialmente le loro riunioni avvennero, però, certamente, a San Cosimo, nel vicolo di Santa Maruzza; comunque sia, le riunioni erano tenute di notte, iniziavano a mezzanotte e il complesso reticolo di gallerie, tunnel, cunicoli e sotterranei di cui era ed è tuttora costellato il sottosuolo di Palermo si prestava perfettamente per le loro riunioni plenarie, dove i membri non si conoscevano neanche tra di loro, in quanto ognuno, oltre ad indossare un saio, portava un cappuccio con cui coprirsi il capo ed il viso. Questo serviva a raggiungere la massima sicurezza, poiché, se qualche membro veniva catturato, non avrebbe potuto fare in nessun modo, i nomi degli altri adepti. Le soffiate dei loro informatori erano raccolte presso la cassetta delle elemosine posta davanti alla statua di San Paolo nel Duomo di Palermo: appena erano a conoscenza di qualche torto, facevano subito seguire un atto intimidatorio per far smettere il prepotente. Se questo non accadeva, allora si procedeva al processo, che poteva avvenire alla sua presenza o in contumacia. Nel primo caso, se veniva emessa una condanna, il reo veniva legato ad una sedia di ferro e lì lasciato morire in qualche oscuro cunicolo; nel secondo caso invece veniva inviato un sicario che provvedeva ad uccidere il prepotente con un pugnale. Quindi, in conclusione, possiamo affermare che la setta dei "Beati Paoli" nacque per soddisfare la "giustizia" popolare, cioè una presunta “giusta” vendetta, nella Sicilia prima dell'unità d'Italia del 1860, affinché ci fosse qualcuno che si ergesse per difendere i deboli dalla prepotenza dei forti. Comunque nessuno mai saprà chi fossero o a quale ceto sociale appartenessero gli adepti di tale enigmatica setta, facendo rimanere i "Beati Paoli" avvolti da un eterno velo di mistero. (cfr. F. RENDA, I Beati Paoli: storia, letteratura e leggenda, Palermo 1988)

17 Gabelloto o campiere (fine ‘800)
Come il Colajanni afferma, rimontando alle origini di questo grave stato di cose si arriva a rinvenirle nella azione deleteria esercitata dal mal governo dei Borboni che spense in tutti la confidenza nella giustizia collettiva: circostanza gravissima che condusse alla creazione della Mafia, dei Campieri e dei Compagni d’armi. La giustizia sotto i Borboni era cosa talmente confusa con gli arbitri polizieschi, che il popolo in ogni accusato finì per vedere una vittima della prepotenza baronale o governativa. La polizia e le autorità giudiziarie stavano infatti agli ordini dei feudatari, che per pecunia o per influenza si trovavano bene con gli alti poteri dello stato. Nacque da ciò, che, venuta meno ogni fede nella equità ed imparzialità di chi stava preposto alla cosa pubblica, grandi e piccoli pensarono tutti a provvedere individualmente alla sicurezza della persona e della proprietà. I ricchi, i nobili, i baroni assoldano bande di campieri, che non differenziano gran che dai sicari, dai bravi, di cui circondavansi i signorotti ed i nobili del Cinquecento e del Seicento, e come questi, i campieri sono scelti fra i più celebri ed arditi malfattori della regione. Esautorato di ogni prestigio, il governo dei Borboni, incapace di frenare gli abusi, che questo stato di cose erigeva a sistema, se ne lavò le mani appaltando la sicurezza pubblica alle Compagnie d’Armi, reclutate fra ladri, banditi e liberati dal carcere, i quali arruolandosi acquistavano la impunità dei precedenti misfatti e si preparavano allegramente a commetterne nuovi, sotto l’egida della legge. Campieri e Compagni d’Arme se la intesero presto, e la loro non fu se non una gara a chi più nuoceva, opprimeva i deboli, gli indifesi, le plebi diseredate. (G. Chiesi, La Sicilia illustrata 1892) Gabelloto o campiere (fine ‘800)

18 Giovanni Verga Bronte, cronaca di un massacro

19 L’eccidio di Bronte (agosto-settembre 1860) e la novella di G
L’eccidio di Bronte (agosto-settembre 1860) e la novella di G. Verga “Libertà” (1882) A Bronte vivevano nel 1860 circa 10 mila abitanti, ma l’81% delle terre era detenuto da appena 19 proprietari, fra cui una Duchessa inglese che aveva messo piede in Sicilia una sola volta e che si limitava alla riscossione delle rendite. La Ducea, infatti, era un feudo-latifondo di 15 mila ettari che re Ferdinando IV di Borbone, usurpando terre comunali, aveva donato nel 1798 all’ammiraglio inglese Horatio Nelson. Poco curata dagli eredi di Nelson, la proprietà era odiata dalla popolazione locale e rivendicata per il ritorno delle terre al demanio. Nemici giurati della Ducea erano contadini e boscaioli, ma il capo dei “comunisti” (cioè allora i sostenitori dei diritti del Comune) era un avvocato, Nic. Lombardo. Il decreto per la divisione delle terre demaniali, emanato da Garibaldi pochi giorni dopo lo sbarco, portò i comunisti a pretendere la redistribuzione delle tenuta. Al rifiuto opposto dagli amministratori, la gente più povera, al comando del muratore Rosario Fidala, insorse al grido “A morti li cappedda” (cioè i benestanti). L’avv. Lombardo non potè calmare gli animi e una folla inferocita assaltò le case di notabili, proprietari, nobili e ovviamente la casina Nelson: fu una strage orrenda (16 i morti accertati e svariati feriti). Verga nella sua novella ha narrato i fatti più cruenti, anche se la famosa scena della defenestrazione della nobildonna inglese non avvenne affatto (si trovava in Inghilterra!). Garibaldi ordinò una spietata rappresaglia e il fidato generale Nino Bixio, già soprannominato dai Siciliani “la Belva” per episodi simili (Resuttano, Centuripe, Randazzo, Regalbuto), non perse tempo: fece subito fucilare 5 comunisti a caso, tra cui l’avv. Lombardo (del tutto estraneo all’eccidio), un nano e un malato mentale. D’altronde, Bixio già aveva espresso quel che pensava dei Siciliani in una lettera alla moglie: “È un Paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili”. Garibaldi e i suoi, del resto, non potevano resistere alle pressioni del console inglese di Palermo, John Goodwin, che li sollecitava a tutelare gli interessi britannici in Sicilia: gli Inglesi avevano sovvenzionato l’azione garibaldina, protetto le navi “rosse” nello sbarco a Marsala, promettevano aiuti per conquistare il Meridione d’Italia. In effetti, lo Stretto fu attraversato poi dai garibaldini sulle navi di Vincenzo Florio (latifondista di Marsala, amico degli Inglesi, abile come un Gattopardo a diventare patriota); i fratelli Thovez, amministratori della Ducea, potevano star tranquilli – come dice il Principe di Salina nel Gattopardo: “Tutto è come prima, anzi meglio di prima”. Ancora nel 1950 la Ducea di Bronte godeva dei privilegi dell’extraterritorialità, d’un esercito privato di 105 guardie esigendo gabelle a chi passava su un ponte della tenuta; infatti, dopo una breve requisizione ad opera dei fascisti durante la Seconda Guerra mondiale, era ritornata ai Nelson allo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, per poi essere in gran parte distribuita ai coltivatori diretti nel 1965; nel 1981 gli ultimi 6 mila ettari e la grande casina (vecchio monastero benedettino, ora museo) furono venduti al Comune di Bronte per 1 miliardo e 750 milioni di lire, ma gli eredi di Nelson hanno ottenuto di conservare il diritto a titolarsi “duchi di Bronte”.

20 Leopoldo Franchetti Sidney Sonnino

21 (L. FRANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia)
“Quello mafioso è un sentimento medievale di colui che crede di poter provvedere alla tutela ed alla incolumità della persona e dei suoi averi, mercè il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall’azione dell’autorità e della legge, sentimento che si accentua nella cosiddetta omertà, per cui si ritiene come primo dovere di un uomo quello di farsi giustizia con le proprie mani dei torti ricevuti” (L. FRANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, 1876) Le Compagnie d’armi pel loro ordinamento erano responsabili dei furti e dovevano indennizzare il danno. In fatto, si accordavano coi ladri pei ricatti e coi derubati per le restituzioni. Guadagnavano con gli uni e con gli altri garentendo quei soli che acconsentivano a regolari tributi; abbandonavano gli altri in balia dei loro affiliati; talvolta sui ladri minori o non ascritti al loro sodalizio davano esempi di severità, spingendosi sino a lasciarli trafitti in luoghi remoti; la giustizia non fiatava e non agiva; l’influenza del malandrinaggio ufficiale diventava alta, temuta, quasi riverita dalle popolazioni educate a simile scuola. (Atti della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla Sicilia, Legge 3 luglio 1875) Il brigante per lo più non deve ricorrere per ottenere ciò che gli fa bisogno, nemmeno ad una mezza minaccia. Il brigantaggio si risolve dunque per i proprietari, nelle circostanze ordinarie, ad una tassa, piuttosto grave, ma fino a un certo punto regolare. I furti ingenti di bestiame, i ricatti clamorosi, sono, relativamente alle condizioni della pubblica sicurezza, piuttosto rari, quantunque possa sembrare a persone di altri paesi che si seguano con una rapidità spaventevole. Essi avvengono solamente quando i briganti siano in un bisogno straordinario, o abbiano a vendicarsi di qualche torto più o meno grave contro un proprietario, o quando si presenti un’occasione favorevole. Veramente, occasione favorevole è talvolta semplicemente la gran ricchezza del proprietario da ricattare. (L. FRANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia)

22 Mafiosi e campieri (tra ‘800 e ‘900) Gabelloto, fine ‘800

23 Brigantesse Brigante Pagano (Alia)

24 (da una lettera di scrocco scritta dal brigante Nicolò Accorsi)
BRIGANTE SE MORE Ammo pusato chitarre e tamburo E mo cantamme sta nova canzone pecché sta musica s'adda cagnà tutta la gente se l'adda 'mparà simme briganti e facimme paura nun cenne fotte ddu re Burbone e cu a scuppetta vulimme cantà. ma 'a terra è 'a nostra e nun s'adda tuccà. Tutte e paise d'a Basilicata Chi ha visto o lupo e s'e miso paura se so' scetati e vonno luttà nun sape buono qual è a verità pure 'a Calabria mo s'è arrevotata o vero lupo ca magna 'e creature e stu nemico 'o facimme tremmà. è o piemontese c'avimme caccià. Femmene belle ca date lu core Ommo se nasce, brigante se more, si lu brigante vulite salvà ma fino all'ultimo avimme sparà nun 'o cercate, scurdateve 'o nome, e si murimme, menate nu fiore chi ce fa ‘a guerra nun tene pietà. e na bestemmia pe' sta' libertà. “Caro signore, per me non vi ha nulla di impossibile. Tutto ciò che io penso, vengo a realizzarlo con la forza e con la mia possanza”. (da una lettera di scrocco scritta dal brigante Nicolò Accorsi)

25 Briganti Viglianti e Murgia
Brigante Ortolani Mauro

26 Mentre Franchetti e Sonnino, nella loro inchiesta sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, avevano bene rimarcato il legame tra il disagio sociale, le responsabilità politiche, l’organizzazione economica, la struttura della produzione, i contemporanei Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Sicilia (1875) minimizzavano il disagio delle classi più povere e trascuravano ipocritamente di accennare al brigantaggio, concludendo che una vera “questione sociale” in Sicilia non esisteva. L’esatto opposto di quanto affermavano Franchetti e Sonnino.   Vincenzo Rocca, Mauro Daino, Rosario Bruno, Giuseppe Scialabba, Angelo Rinaldi: questa la Banda maurina Rocca-Rinaldi, la più celebre e temuta banda di briganti che abbia mai infestato la Sicilia. Raggiunse, intorno al 1875, la forza di quindici gregari. Avevano, singolare anomalia, non uno ma due capi: Rocca era il braccio violento, Rinaldi la mente geniale. Fu Rinaldi il promotore di una raffinata strategia di alleanze: perciò si ritrovarono a partecipare al sequestro del barone Sgadari nel marzo 1874 quattro diverse bande: i Maurini, la banda di Capraro, venuta per lo scopo dalla provincia di Agrigento, la banda di Leone e quella dei Polizzani […] Rinaldi impresse alla sua banda disciplina ed organizzazione senza eguali. I gregari indossavano una sorta di uniforme ed un anello con l’iniziale R.. Erano dotati delle armi più moderne – carabine Vetterli a retrocarica 1870 – e di cannocchiali, manette e quant’altro potesse servire nelle azioni criminali e nella latitanza. La banda aveva un segretario, Nicolò Accorsi, al quale era demandato il compito di scrivere le lettere di scrocco (P. MORELLO, Briganti, Palermo 1999)   Nelle Madonie il potere assoluto sul territorio non era della mafia, ma dei briganti, che si chiamavano Sacco, Andaloro, Ferrarello (tutti di Gangi), nonché di una nuova banda maurina, temibile quanto l’antica, che si era formata molti anni dopo quella, ai primi di maggio del Erano dodici briganti, agli ordini di Melchiorre Candino, un ex “picciotto” di Garibaldi. Non fu raro che ex garibaldini estromessi dal processo unitario, per cui avevano lottato a fianco di Garibaldi, ora, stanchi di sopportare i soprusi del nuovo regime si dessero alla macchia, come ad esempio il Candino, che, entro breve tempo, sarà giornalisticamente chiamato per le sue azioni brigantesche “il terrore delle Madonie”. Il 22 luglio 1892, il Candino inviò al “Giornale di Sicilia”, pure allora il quotidiano più venduto nell’Isola, una lettera a firma sua e dei suoi compagni d’avventura, con cui si lamentava del tono e della verità artefatta di un articolo comparso sul quotidiano qualche giorno prima a proposito della morte di tal Cassataro, ucciso per vendetta da un membro della banda di Castelbuono. Il Candino concludeva la lettera affermando che a terrorizzare i paesi non era la sua banda, ma i giornalisti come l’autore dell’articolo. “Il resto sono soltanto calunnie. Noi facciamo male a chi ci fa male”. La banda Candino, già decimata dalla 38.a divisione di fanteria del Regio Esercito, inviata dal governo con la missione di dar loro spietata caccia, fu sterminata (25 luglio 1894) dopo essere stata sorpresa a tradimento in una radura da Fr.sco Leanza, sovrastante del duca Colonna di Cesarò e della duchessa di Reitano, dai suoi tre figli (abili tiratori) e dai suoi campieri. Candino riuscì a fuggire avventurosamente all’agguato e minacciò terribile vendetta ancora dalle pagine del “Giornale di Sicilia”, ma era ormai solo, stanco di sangue e di sfide: la sua latitanza, silenziosa ma sotto gli occhi di tutti, durò per altri 25 anni, fino alla prescrizione dei suoi reati decretata dal governo nel Si avviava ormai agli ottant’anni. (G. SCARCELLA, Il brigantaggio in Sicilia, Palermo 2001; M. PINO, La regina di Gangi, Soveria Mannelli 2005)

27 Joe Petrosino Emanuele Notarbartolo

28 Il delitto Notarbartolo La sera del 1° febbraio 1893 un treno corre verso Palermo, nel tratto Termini Imerese – Travia: un uomo si avvicina ad un altro, lo accoltella a morte e poi ne scaraventa il corpo giù sulla scarpata. L’uomo ucciso è il comm. Emanuele Notarbartolo, già direttore generale del Banco di Sicilia: per la sua fama di uomo integerrimo era stato chiamato dal Governo a tale alto incarico nel 1876, dopo alcuni scandali che avevano coinvolto il Banco in un losco giro di speculazioni e di finanziamenti ad imprese non proprio “pulite”; era stato così scoperto un enorme ammanco di oltre un milione e mezzo di lire dell’epoca. Notarbartolo in quattro anni aveva sanato la situazione finanziaria, ma si era anche scontrato con un gruppo di affaristi, capeggiato da Raffaele Palizzolo, tanto vicino alla mafia che, con i suoi voti, questi sarà eletto deputato al Parlamento per il collegio di Caccamo, sua zona d’influenza. Già nel 1882 Notarbartolo fu rapito e rilasciato solo dopo il pagamento di un riscatto: dei banditi solo uno fu catturato, si trattava di un protetto del Palizzolo, ma la storia fu conclusa così. Nel 1890 il ministero del Tesoro sciolse, per i continui contrasti interni, il consiglio d’amministrazione del Banco e collocò a riposo il Direttore generale. Palizzolo, allora, intensificò le sue sporche operazioni, ma i movimenti di denaro furono poi scoperti da un onesto impiegato, tal Rammacca, che si confidò con Notarbartolo. Il ministro stava probabilmente per far tornare Notarbartolo alla Direzione generale, quando appunto avvenne il delitto. Le indagini, con molte incertezze ed errori, si indirizzarono – anche per dichiarazioni dei familiari di Notarbartolo e di qualche timido testimone – verso Palizzolo e una cosca mafiosa a lui vicina, quella di Villabate. L’istruttoria si trascinò fino al 1899, quando il processo ebbe inizio – a Milano – con imputati Palizzolo come mandante e un tal Fontana (esecutore), più vari complici. Il Palizzolo fu arrestato dopo autorizzazione a procedere del Parlamento, ma nel frattempo avvocati e mafiosi si diedero da fare a Palermo per spargere voce che le accuse contro l’onorevole erano un complotto dei socialisti per colpire una brava persona e screditare l’intera Sicilia; nel contempo, il processo fu spostato a Bologna e affidato a un giudice amico del procuratore generale di Palermo, Cosenza, uomo vicino al deputato. Comunque, grazie alle dichiarazioni di alcuni testimoni sugli imbrogli interni al Banco, la Corte condannò gli imputati per l’omicidio di Notarbartolo (1902). Se nel resto d’Italia le reazioni dell’opinione pubblica furono entusiastiche, a Palermo la condanna fu fatta passare da molta gente influente (e dai giornali) come un insulto all’Isola, tanto che si formò un certo numero di comitati “Pro Sicilia” in favore di Palizzolo, che, alla fine “pro bono pacis”, ottennero persino l’appoggio del Prefetto e segretamente del governo Giolitti. Nel 1903 la Corte di Cassazione annullò, per un cavillo formale, il processo a Palizzolo fu annullato; il nuovo processo si trascinò stancamente in un’atmosfera distratta, con ritrattazioni di testimoni e il suicidio molto sospetto del più importante. Gli imputati furono assolti e Palizzolo portato in trionfo a Palermo, anche se la sua carriera politica e mafiosa finirà lì. Fine della storia. Dopo lunghi anni di lotte, il figlio di Emanuele Notarbartolo, Leopoldo, completerà un suo libro dossier – pubblicato solo nel 1949 – in cui dimostrerà la rete mafiosa che mortalmente si era chiusa su suo padre: prima che dalla mano omicida l’onesto comm. Notarbartolo, che sognava “una Palermo europea con le casse comunali in ordine, gli ospedali funzionanti, le strade pavimentate, l’immondizia raccolta, le facciate dei palazzi rinnovate, i luoghi di sepoltura ben ordinati e i teatri aperti ai più qualificati spettacoli” (La Sicilia, 23/5/1884), fu assassinato dai silenzi e dall’isolamento che lo avevano circondato proprio nell’esercizio del suo dovere. Voleva solo essere un uomo normale in una città normale.

29 Giuseppe Petrosino, detto Joe (Padula, 30 agosto 1860 – Palermo, 12 marzo 1909) Emigrò con la famiglia a New York nel 1873 e crebbe nell'ambiente di Little Italy. Per vivere si era messo a vendere giornali, a lucidar scarpe e a studiare la lingua inglese. Nel 1877, Joe (come ormai si chiamava) prese la cittadinanza americana, facendosi assumere poi come spazzino dall'amministrazione newyorkese. L’immigrazione aveva posto le autorità americane di fronte a gravissimi problemi, primo quello dell'ordine pubblico. I poliziotti, quasi tutti ebrei o irlandesi, non riuscivano a capire gli immigrati né a farsi capire da loro: questo generava un clima a favore delle organizzazioni criminose che giunsero in breve a controllare tutta la Little Italy, ghetto malsano, fetido, superaffollato, dove una povera umanità sradicata (e che s'era portata appresso la propria sfiducia nell'autorità costituita) doveva lottare ogni giorno per la vita. Little Italy era il terreno ideale per la pianta del crimine. Con gli emigranti ansiosi di lavoro erano sbarcati negli Stati Uniti avventurieri, evasi e latitanti. Petrosino, nel 1883, non senza difficoltà, fu ammesso in polizia. Faceva un certo effetto vedere quell'uomo basso e tarchiato (non oltre il metro e sessanta), tra i giganteschi poliziotti irlandesi: in compenso, Petrosino aveva spalle larghe, bicipiti possenti e, ciò che più contò per il suo arruolamento, grinta e intelligenza: ciò gli permise di superare l’ostacolo di essere l'unico poliziotto italiano, e perciò deriso dai connazionali e guardato con un certo sospetto dai colleghi. Determinante ai fini della sua carriera, oltre al suo impegno, era stata la stima riposta in lui da Theodore Roosevelt, assessore alla polizia (e poi presidente degli Stati Uniti): grazie al suo appoggio, Petrosino era stato promosso detective e destinato alla conduzione d'indagini. I criminali di Little Italy si trovarono subito di fronte ad un nemico che parlava la loro stessa lingua, che conosceva i loro metodi, che poteva entrare nei loro ambienti. Joe Petrosino nutriva una sorta di cupo, rovente rancore verso quei delinquenti che stavano dissipando il patrimonio di stima che gli immigrati italiani avevano costruito. Risolti brillantemente numerosi casi, nel 1905 gli fu affidata l'organizzazione d'una squadra di poliziotti italiani, l'Italian Branch, e ciò rese più proficua ed efficace la sua lotta senza quartiere contro la Mano Nera, una tenebrosa organizzazione a carattere mafioso, con ramificazioni in Sicilia, tramite la quale si esprimeva il racket. E proprio seguendo una pista che avrebbe dovuto portarlo ad infliggere, forse, un decisivo colpo alla Mano Nera, Petrosino giunse in Italia.

30 Alle di venerdì, 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione, e un quarto sparato subito dopo, suscitano il panico nella piccola folla che attende il tram a capolinea di piazza Marina a Palermo. C'è un generale fuggi fuggi: solo il giovane marinaio anconetano Alberto Cardella (Regia Nave Calabria) si lancia coraggiosamente verso il giardino Garibaldi, nel centro della piazza, da dove sono giunti gli spari: in tempo per vedere un uomo cadere lentamente a terra, ed altri due fuggire scomparendo nell'ombra. Non c'è soccorso possibile, l'uomo è stato raggiunto da tre pallottole: una al volto, una alle spalle, e una terza mortale alla gola. Poco dopo si scopre che si tratta del detective Giuseppe Petrosino, il nemico irriducibile della malavita italiana trapiantata negli Stati Uniti, celebre in America come in Italia quale protagonista della lotta al racket. Il console americano a Palermo telegrafa al suo governo: Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire. Il governo mise subito a disposizione la somma di lire, per chi avesse fornito elementi utili a scoprire i suoi assassini ma la paura della mafia sarà più forte dell'attrazione esercitata da quella pur elevata offerta di soldi. Le bocche rimarranno chiuse. Circa persone parteciparono al suo funerale a New York, un numero fino ad allora mai raggiunto da alcun funerale in America. Si ritiene che il responsabile della sua fine sia il boss Vito Cascio Ferro di Bisacquino, tenuto d'occhio da Petrosino sin da quando questi era a New York, ed il cui nome fu trovato in cima ad una "lista di criminali" redatta dal poliziotto italoamericano e trovata nella sua stanza d'albergo il giorno della morte. Probabilmente (e questo fu un sospetto anche della polizia palermitana dell'epoca) vi è un collegamento tra la morte di Petrosino e alcuni personaggi malavitosi appartenenti alla cosca newyorkese di Giuseppe "Piddu" Morello noti per il loro presunto legame al caso del "corpo nel barile" (un famoso omicidio avvenuto a New York nel 1903). Infatti due uomini di questa cosca erano ritornati in Sicilia nello stesso periodo del viaggio di Petrosino rimanendo in contatto con il boss newyorkese. L'ipotesi più verosimile è che Morello e Giuseppe Fontana (emigrato in America dopo l'assoluzione per l'omicidio Emanuele Notarbartolo e aggregatosi alla banda di Giuseppe Morello) si siano rivolti a Vito Cascio Ferro affinché organizzasse l'omicidio del poliziotto per loro conto. Quando Cascio Ferro venne arrestato gli fu trovata addosso una fotografia di Petrosino. Il malavitoso aveva però un alibi grazie a un suo amico deputato. Quando, anni più tardi, Cascio Ferro fu arrestato e condannato all'ergastolo per un omicidio, il boss fu intervistato in prigione; dichiarò di aver ucciso un solo uomo in tutta la sua vita e disse di averlo fatto in modo disinteressato.

31 Il prefetto Mori Il brigante Ferrarello (Gangi)

32 Nei rapporti tra mafia e fascismo devono essere distinti tre momenti
Nei rapporti tra mafia e fascismo devono essere distinti tre momenti. Nel primo ( ) la mafia e il fascismo convissero. Spesso, nella sua prima fase di consolidamento, il fascismo, anche se formalmente accusò la mafia, ad essa si appoggiò. Un esempio di questa collaborazione si ebbe durante le elezioni amministrative del 1924, quando mafiosi già in camicia nera fecero sentire la loro presenza davanti alle urne. Erano quelli momenti difficili per il fascismo che, alle prese con problemi di sopravvivenza, accettava qualsiasi collaborazione, anche se macchiata di disonestà e di precedenti impresentabili. La mafia aveva saputo trarre grande profitto e ingrossare le sue fila durante la Grande Guerra, un periodo di ancor maggiore “lontananza” dello Stato dalla Sicilia e di debolezza delle istituzioni: molti disertori e molti reduci finirono, per varie ragioni, la nuova manovalanza mafiosa. La nuova mafia spesso non si accordò con la parte agraria di quella vecchia, ma scelse la via politica intuendo l’ascesa inarrestabile del fascismo e il pericolo che essa avrebbe corso con l’avanzare dei partiti di massa (popolare, socialista, comunista). Mussolini si scandalizzò per il potere detenuto dai “padrini” di paese, ma non ebbe esitazioni ad accogliere nelle sue fila personaggi come Alfredo Cucco e Angelo Abisso, ex-nazionalisti senz’altro di prestigio ma pesantemente invischiati in una politica clientelare e appoggiata dalla mafia. D’altronde, il fascismo non voleva scontentare neppure i vecchi proprietari terrieri promettendo ordine e rispetto: finché ci furono le elezioni tutti i voti che la mafia controllava facevano comodo a Mussolini. Nella seconda fase ( ) il fascismo ormai al potere, volendo darsi un volto legalitario e rispettabile, non poteva più accettare le collaborazioni che avevano evidenti connotati illegali. In questa fase di scontro, gli elementi più vistosamente invischiati in fatti mafiosi subirono regolari processi. D’altronde, fu lo stato fascista ad esercitare il potere con tutti i mezzi che erano stati mafiosi: la coercizione fisica, le funzioni di protezione, il rigido controllo sulle istituzioni statali e non statali, la distruzione del tessuto culturale di base. Sono gli anni dell’invio in Sicilia del prefetto Cesare Mori con pieni poteri per smantellare il regime di mafia e imporre “sicurezza, tranquillità e libertà di lavoro”: per mafia si intendeva indistintamente ogni delinquenza radicata nel territorio. Si profilò subito lo scontro con il potere mafioso-fascista di Alfredo Cucco, assai noto medico oculista originario di Castelbuono, divenuto federale di Palermo e segretario provinciale del PNF: o meglio, finché l’azione di Mori si indirizzò contro la piccola malvivenza e contro i briganti dell’interno (sulle Madonie furono attuate, con torture e rastrellamenti, vere azioni di guerra nei territori di Gangi, S. Mauro, Caltavuturo, Polizzi e le Petralie), Cucco e il suo giornale “Sicilia Nuova” lodarono il prefetto pur rivelandosi ostili a certi metodi sbrigativi e all’uso continuo della parola mafia, nociva la buon nome della Sicilia. Però, quando Mori cominciò a scoperchiare la trama di relazioni esistenti tra la mafia e la politica di molti centri (a cominciare dalle frazioni di Palermo, per arrivare a Termini, Mistretta, Misilmeri, Bagheria, Girgenti, Piana dei Greci, Marsala), mettendo in galera padrini come l’avv. Ortoleva, Calogero Vizzini, Ciccio Cuccia, Genco Russo, Vito Cascio Ferro e arrivando a far luce sui legami e affari illeciti di Cucco e del ministro della guerra Di Giorgio (costretti alle dimissioni), lo scontro fu frontale e l’opinione pubblica fu abilmente indirizzata alla difesa dei notabili ingiustamente perseguitati: Cucco fu assolto al processo e successivamente riabilitato dal duce; l’azione di Mori fu giudicata conclusa e il prefetto fu sostituito il 2/6/1929 con un secco telegramma. Un terzo periodo, che va dal allo sbarco degli alleati in Sicilia, rappresenta una fase di pacificazione e di quiescenza, in quanto il fascismo volle ignorare la mafia, che riteneva compressa e depotenziata nelle sue manifestazioni più eclatanti e fastidiose per il regime. Ma le sue radici profonde e i suoi uomini “eccellenti” non ne furono minimamente intaccati, anzi.

33 Lo sbarco alleato in Sicilia avvenne a Gela, Licata e Pachino il 9 e 10 Luglio 1943 (Operazione Husky) Soldati USA a Petralia St.

34 Al Capone Lucky Luciano

35 Gli Alleati e la Mafia Che la mafia, malgrado le spettacolari retate del prefetto Mori, covasse in realtà sotto la cenere e mantenesse un suo controllo sulla società siciliana sembra confermato dalle vicende dell'estate del 1943, in occasione dello sbarco in Sicilia degli Alleati. La strategia militare che il Pentagono decise di attuare, nel momento in cui si decise di aprire uno nuovo fronte contro i nazi-fascisti in Italia, fu quella di iniziare l'offensiva dalla Sicilia, sia per evidenti ragioni geografiche (per evitare l'accerchiamento da parte del nemico), sia perché si poteva costituire una testa di ponte in Sicilia proprio sfruttando la mafia. In guerra quasi sempre non si va molto per il sottile: così, la CIA contattò alcuni importanti boss mafiosi italo-americani in carcere negli Stati Uniti, e gli offrì un patto: la libertà in cambio di un appoggio al momento dello sbarco. Fu ciò che avvenne: alla fine della guerra molti mafiosi americani furono liberati ed espulsi dagli Stati Uniti come "indesiderabili", con il tacito accordo che sarebbero tornati in Italia. I casi più noti riguardarono i boss Lucky Luciano e Vito Genovese, il quale prestò addirittura servizio per il quartier generale alleato di Nola. Contemporaneamente, gli Alleati affidarono molte cariche nei governi provvisori della Sicilia dopo lo sbarco, a noti mafiosi: Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo divenne sindaco di Musumeli, Vincenzo Di Carlo fu nominato responsabile dell'Ufficio per la requisizione del grano, Michele Sindona di un importante deposito di vettovaglie, ecc. Ciò diede nuova autorità ai mafiosi, oltre a concrete possibilità di arricchimento e di accrescimento del loro potere.

36 Calogero Vizzini

37 Monumento alle Vittime di Portella della Ginestra

38 Il corpo di Salvatore Giuliano
a Castelvetrano (5/7/1950) Era nato a Montelepre il 16/11/1922

39 La Mafia e il Mis In questo stesso periodo, la mafia cercò di organizzare la sua presenza, anche politica, in Sicilia, contribuendo alla nascita del Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), formazione politica che si prefiggeva l'indipendenza della Sicilia dal resto d'Italia e, in alcuni momenti, persino la stramba idea di far aderire la Sicilia agli Stati Uniti. Il MIS non fu composto solo da mafiosi, ma ebbe diverse anime e diverse adesioni. Certo, però, la componente mafiosa, o vicina alla mafia, era molto importante. D'altro canto, i mafiosi potevano vantare, paradossalmente, di essere stati "perseguitati" dal Fascismo, facendosene un merito. Il MIS ebbe un sviluppo molto ampio dal 1943 al 1947, sia per il seguito popolare, sia perché "i responsabili del governo militare di occupazione affidarono il 90% delle amministrazioni a politici separatisti", come denunciava la prima relazione della Commissione parlamentare antimafia del La crescita di potere e di consensi del movimento portò il MIS a costituire persino un suo esercito, l'EVIS (Esercito volontario di indipendenza siciliana), in cui militarono banditi e mafiosi di grosso calibro. Capo dell'EVIS fu Salvatore Giuliano e fu proprio questi a provocare la fine dell'esperienza separatista, con la strage di Portella della Ginestra, dove, "il 1 maggio 1947 i lavoratori della zona per celebrare la festa del lavoro. In quella occasione, erano pervenuti nella località molti gruppi di lavoratori con le proprie famiglie ed era iniziato da poco il discorso del segretario socialista della zona quando, improvvisamente, dalle alture circostanti partirono i primi colpi di mitra. Ci fu un improvviso clamore, quasi di gioia, perché i più ritenevano che si trattasse di spari festosi. Poi le prime urla e quindi un confuso fuggire tra lamenti e pianti." (il racconto è ancora tratto dalla Relazione della commissione antimafia del 1972). Vi furono 14 morti e 27 feriti. L'orrore suscitato in tutta Italia dalla strage provocò una reazione decisa da parte dello Stato. Tuttavia, si trovò una soluzione al problema molto ambigua, cioè si vollero distinguere nettamente le responsabilità del bandito Giuliano da quelle dei politici del MIS e dei mafiosi. Si contrattò segretamente con la mafia la fine di Giuliano, che fu tradito da un suo luogotenente (Gaspare Pisciotta), ucciso e il corpo consegnato alla polizia. Prima si fece passare la versione che Giuliano fosse morto in uno scontro a fuoco, ma, grazie ad alcune inchieste giornalistiche, si ricostruì infine la verità. Quando, un paio di anni dopo, Pisciotta cominciò a far intendere di essere disposto a rivelare alcuni scottanti retroscena, fu trovato morto nel carcere dell'Ucciardone, a Palermo, per aver bevuto un caffè alla stricnina.

40 Placido Rizzotto (Corleone, 2/1/1914 – 10/3/1948) Accursio Miraglia (Sciacca, 2/1/1896 – 4/1/1947) Epifanio Li Puma (Petralia Soprana, 6/1/1893 – 2/3/1948) Carmelo Battaglia (Tusa 1923 – 24/3/1966)

41 Rocco Chinnici con Ninni Cassarà e Giovanni Falcone

42 Cesare Terranova Gaetano Costa

43 Antonino Saetta Rosario Livatino

44 Solo alcuni fra molti altri …
Solo alcuni fra molti altri … Rosario Livatino Al di fuori della giurisdizione delle grandi «famiglie» avviene l'omicidio di un giovane magistrato tutto casa e lavoro, Rosario Livatino. La sua è una barbara esecuzione in un mattino pieno di sole, il 21 settembre 1990, lungo la superstrada Canicattì - Agrigento. Livatino la percorre ogni giorno per raggiungere la procura. È figlio unico di due anziani e religiosi possidenti. Di lui i giornali non si sono mai occupati, le sue inchieste sono circondate da un riser­bo d'altri tempi. Tuttavia, come sempre capita in questi luoghi remoti della Sicilia, chi deve sapere, sa. Livatino è impegnato in una delicata inchiesta sugli « stiddari », che hanno trasformato la provincia di Agrigento in un loro caposaldo. Le bande sono venute a conoscenza dell’inchiesta e di quel giudice inflessibile: il delitto ha sì uno scopo preventivo, ma è anche una pro­va di forza nei confronti di Cosa Nostra, un modo obliquo di met­tersi in pari con la spietata eliminazione, poco tempo prima, del giudice Saetta e del figlio. Anche in questo caso compare l'ombra di Giuseppe Di Ca­ro, il regista di quel duplice omicidio, fedele alleato dei corleonesi, che già nel '78 era stato provvidenziale nel fornire le basi logistiche e le dritte a Giovanni Brusca, Nino Marchese, Bagarel­la e Andrea Di Carlo impegnati nell'eliminazione degli accoliti di Di Cristina. Inquisito nell'88 da Falcone e costituitosi da poche settimane perché afflitto da un tumore, Di Caro è agli arresti domiciliari. La sua abitazione sta da quarant'anni al piano sopra quella dei Livatino. Il boss è tra i primi a dolersi con l'anziano genitore: il suo comportamento lascia sbigottiti, ma serve a escludere la matrice mafiosa e a indirizzare le indagini verso la folta colonia di canicattesi emigrati in Germania. A sbrogliare la matassa, a individuare i quattro responsabili, è un coraggioso rappre­sentante bergamasco di porte blindate, Pietro Nava. Ha assistito all'assalto contro l'utilitaria del magistrato, alla sua inutile fuga nel campi sottostanti. Nava non si tira indietro, compie fino in fondo il proprio dovere di cittadino. Ne avrà l'esistenza sconvol­ta, dovrà abbandonare il lavoro, l'Italia. Il libro e il film che sono stati tratti dalla sua vicenda rappresentano una parzialissima ricompensa per questo eroe sconosciuto. La genesi del delitto Livatino si comprende meglio il 14 febbraio 1991 allorché è ucciso Giuseppe Di Caro. Un omicidio che sconvolge gli equilibri della zona. I Di Caro, infatti, sono inseriti dal dopoguerra nel vertice mafioso. Li ha messi lì un capomafia “leggendario”, Calogero Ferro, deceduto nel '69, dopo mezzo secolo di «guida illuminata» del paese. Prima di morire nel letto di casa, Ferro - proprietario di un feudo che ha la caratteristica di estendersi in quattro province: Agrigento, Ragusa, Siracusa, Caltanissetta - ha imposto ai suoi luogotenenti (Di Caro, Guarneri e Ferraro) di stringere un patto fra loro per evitare la probabilissima guerra di successione. Gli omicidi Livatino e Di Caro rappresentano la rottura del patto, il tentativo degli «stiddari» di sostituirsi alle «famiglie» egemoni. Il 18 febbraio gli «stiddari» tendono un agguato contro il nipote di Di Caro, Lillo, il quale, benché colpito, risponde al fuoco e ferisce uno degli aggressori. Per gli «stiddari» comincia il conto alla rovescia: in pochi mesi verranno annientati.  

45 Cap. Emanuele Basile Boris Giuliano

46 Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa e
la moglie Emanuela Setti Carraro Paolo Giaccone

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48 Pio La Torre Piersanti Mattarella con Sandro Pertini

49 Giuseppe Fava Mauro De Mauro Mario Francese

50 Pippo Fava Con rare eccezioni, Catania è una città che, un po' per calcolo un po' per orgoglio, non accetta l'evidenza della supremazia mafiosa e lo dimostra il comportamento tenuto in occasione del delitto Fava (5 gennaio 1984). Giuseppe Fava è un giornalista alle soglie dei sessant'anni. L'hanno definito il «poeta con il pallone» a causa di uno smisurato amore per il calcio. Fava non è un poeta, anzi è un siciliano di forte temperamento, calato nella realtà. Gli piace la vita, gli piacciono la Sicilia, le sue spiagge, il mare, il sole, quei profumi intensi che sollecitano passioni altrettanto intense. E stato a lungo il capocronista di un giornaletto del pomeriggio (Espresso sera). Tra il 1967 e il 1968 una sua inchiesta sulla mafia, ospitata da La Sicilia, ha scatenato nei licei cittadini travolgenti dibattiti e tormentate prese di coscienza. Fava ha scritto romanzi, saggi, opere teatrali. Ha l'alone dell'uomo di successo, conta ammiratori nella Catania popolare e nella Catania colta, che rimpiange l'epoca di Verga e Brancati. La maturità lo ha condotto su posizioni di accanita contestazione. Dopo l'esperienza di un quotidiano (Il Giornale del Sud) vissuto poco e male - il vero proprietario era uno dei Cavalieri del Lavoro, Graci -, Fava ha fondato un periodico (I siciliani) sul quale conduce battaglie spericolate e solitarie. La sua forza non sono le inchieste o gli approfondimenti, non possiede la pazienza necessaria per le ricerche, ma la straordinaria capacità di dare spessore alle denunce. Con Fava la mafia catanese da problema locale diviene problema nazionale. In quell'inizio dell'84, Catania è lontanissima da Palermo, dal pool di Caponnetto, dagli implacabili sceriffi, Cassarà e Montana. Vive la sua stagione dell'ambiguità, nessuno ha voglia di rompere la crosta che protegge la città e soprattutto le tresche de­gli imprenditori, dei politici, del clan Santapaola. I nemici di Fa­va lo sbeffeggiano dicendo che le sue sono cantate alla luna. Fosse anche vero, e non lo è, significa che la città che ama gli «sperti» diventa estremamente permalosa persino per un'innocua cantata alla luna. Fava non è un poliziotto, non è un magistrato, non ha prove, tuttavia capta la morsa che sta strangolando la «sua» Catania, di cui lui continua a coltivare un'idea romantica, legata a un passato che forse, neppure in questo caso, è mai esistito. Il Tempo Galantuomo si è incaricato di dargli ragione su quasi tutto, persino sulle denunce che parevano più avventate, come quelle sulle infiltrazioni mafio­se nelle basi NATO. Fava, al pari di La Torre, aveva segnalato il pericolo che gli appalti miliardari di Comiso, dove furono dispiegati i Cruise in risposta agli SS20 sovietici, ingrassassero le finanze di Cosa Nostra. Gli arresti del dicembre '97 hanno dimostrato che a Sigonella, rimasta in funzione dopo la chiusura di Comiso, agiva una lobby composta da funzionari statunitensi e da uomini del clan Santapaola. I cinque colpi di pistola che in una sera piena di pioggia e di freddo spengono Fava spezzano in due la città. I pochi amici, gli scatenati ragazzi della redazione, quanti accettano l'evidenza e respingono le favole, tutti costoro, che sono poi un'esigua mino­ranza, intuiscono e gridano a squarciagola che è un delitto mafioso. La Catania ufficiale traccheggia. II palazzo di giustizia, il municipio, la questura, il comando dei carabinieri, con la scusa che le indagini non escludono alcuna pista, cercano altro. Cercano un appiglio, il quale consenta di stabilire che la mafia non c'entra niente, non fosse altro perché “a Catania la mafia non esiste”. Ciò che dieci anni dopo diventerà verità incontrovertibile nell’84 è lontanissimo da ogni accertamento. Nelle tante cronache dell’omicidio non una volta appare il nome di Nitto Santapaola, che poi sarà riconosciuto mandante della morte di un giornalista, che però aveva dato fastidio ad altri, i cui nomi restano nell’ombra.

51 Mauro Rostagno con Paolo Borsellino
Beppe Alfano

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53 Peppino Impastato Nella primavera del 1978 il boss Gaetano Badalamenti sente il cerchio stringersi, si è rintanato in campagna, protetto da un nutrito gruppo di guardaspalle. Il suo potere traballa anche a Cinisi. Dai microfoni di Radio Aut, un trentenne di raro coraggio l'ha sfottuto per mesi con l'appellativo di «Tano seduto». Si chiama Peppino Impastato, appartiene a un'antica famiglia mafiosa, molto contigua ai Badalamenti. È andato via di casa a 15 anni, ha un rappor­to tempestoso con il padre, Luigi, al quale rimprovera l'assidua militanza in Cosa Nostra. Luigi Impastato vive uno dei tanti drammi che hanno spesso segnato la mafia, che hanno trasformato in un inferno l'esistenza dei suoi affiliati. Impastato padre ritiene che l'essere un « uomo di rispetto » costituisca una medaglia da appuntarsi sul petto, non riesce a immaginare un mondo migliore del suo. Di conseguenza non si dà ragione del disprezzo di Peppino, a volte lo maledice, vorrebbe non averlo mai procreato. Tuttavia, quando capisce che l'aria per il suo ragazzo è divenuta infida, vola dai parenti negli Stati Uniti a perorarne 1'incolumità. Cerca raccomandazioni importanti che possano far desistere i suoi amici e gli «amici degli amici» dalla decisione di ammazzare quel pazzo scriteriato che comunque resta suo figlio, il bimbo che cullò tra le braccia. A una cugina della moglie, con cui è in rotta a causa di Peppino, dice: «Non gli faranno nulla. Prima devono passare sul mio corpo». Ritorna dagli Stati Uniti sfiduciato. Muore in uno strano incidente stradale. In casa scon­giurano Peppino di smettere, di non scherzare con il fuoco. Ma Peppino vuol far combaciare l'impegno in Democrazia Proletaria con l'impegno di cittadino, insegue un riscatto che compensi la complicità dei parenti. In un'intervista all'Ora spiega gli imbro­gli, le compromissioni, i favori che hanno punteggiato la costru­zione dell'autostrada Palermo - Punta Raisi: Badalamenti e gli amici hanno fatto soldi a palate imponendo che il percorso si snodasse lungo i terreni che avevano provveduto ad acquistare per due lire. La mattina del 9 maggio (lo stesso giorno in cui il cadavere di Aldo Moro, ucciso dalle BR, è fatto ritrovare in Via Caetani a Roma), sui binari della ferrovia Palermo-Trapani viene rinvenuto il corpo dilaniato di Peppino Impastato. All’inizio, facendo leva sul suo credo ideologico e sul fatto che i mass-media in quei giorni sono impegnati su altro, provano a farlo passa­re per vittima di un attentato terroristico di cui egli stesso sarebbe stato l'autore. I carabinieri di Cinisi si sforzano di non sapere, di non capire, di non vedere. E dire che il tenente colonnello Russo, indicato a torto o a ragione come il massimo protettore di Badalamenti, è morto da mesi. La verità viene fuori con forza irresistibile. Peppino viene eletto, da morto, al consiglio comunale di Cinisi. La sua uccisione, la sua elezione sono altrettanti schiaffi a Badalamenti. Quale carisma può vantare chi pubblicamente è preso in giro dal figlio di un subalterno? Come fa a pretendere di comandare chi in casa propria non riesce a evitare l'elezione di un avversario morto? Non è una bella estate per Badalamenti, costretto a vivere da braccato ogni ora del giorno e della notte. Diventa un peso anche per la sua «famiglia», che a fine settembre lo abbandona. Don Tano si dà alla macchia.

54 Libero Grassi Giovanni Bonsignore
Libero Grassi e Giovanni Bonsignore Nell'estate del 1991, la mafia ha qualcuno di cui deve assolutamente liberarsi: i boss Madonia non riescono a far tacere la voce di Libero Grassi, un imprenditore che non solo rifiuta di pagare il « pizzo », ma fa anche opera di proselitismo in Tv. Se la passasse liscia, po­trebbe indurre altri a seguirne l'esempio. La mattina del 29 ago­sto Mauro Favaloro, assistito da Salvino Madonia, scarica la pi­stola su Grassi, che si reca in azienda a piedi, senza protezione. La stessa procedura di morte era stata impiegata, circa un anno prima, per liberarsi di un integerrimo funzionario regionale, Giovanni Bonsignore. Aveva pronunciato così tanti no davanti a offerte e minacce, tanto di personaggi influenti quanto di mafiosi, che risulta molto difficile individuare quello che gli è costato la vita. Solo nell'ottobre '99 comincerà a essere squarciato il velo su mandanti ed esecutori dei due omicidi.

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