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Lezione 28 maggio 2019 Discriminazioni:
Tipologie Dirette e indirette In fase di assunzione e licenziamento Pari opportunità e azioni positive: Pari opportunità di genere «Discriminazione alla rovescia» Limiti delle pari opportunità Casi pratici: Analisi delle sentenze Discussione in aula
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Regolare distinzione o discriminazione
Regolare distinzione o discriminazione? Quali sono i criteri di differenziazione consentiti? Prima di addentrarci nell’analisi del campo delle pari opportunità e del divieto di discriminazione, sarebbe opportuno chiedersi: Il datore di lavoro ha sempre l’obbligo di trattare i lavoratori in modo eguale tra loro? Oltre quale soglia le differenziazioni in materia di ruoli, competenze, professionalità o retribuzione possono venir considerate discriminatorie? In quali casi le azioni positive rischiano di tramutarsi in «discriminazioni alla rovescia»? Occorre perciò interrogarsi sugli effettivi limiti del divieto di discriminazione e su quali criteri permettono di poter differenziale lecitamente i lavoratori.
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Discriminazioni Il termine «discriminazione» indica generalmente l’insieme di quei comportamenti volti a distinguere o a differenziare tra più situazioni o persone. Nel diritto del lavoro, tale fattispecie assume una connotazione più specifica e riveste molta importanza, poiché tocca situazioni soggettive garantite come i diritti inviolabili della persona. In particolare dunque, per discriminazioni si intendono tutti quei comportamenti volti, volontariamente o meno, a trattare in modo diseguale situazioni che dovrebbero essere trattate alla pari e imputabili al fatto che il soggetto coinvolto appartenga ad una determinata categoria/presenti un determinato carattere.
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Discriminazioni Le discriminazioni, ovvero delle distinzioni che finiscono per differenziare i lavoratori in base ad un giudizio o una classificazione in modo illecito, possono manifestarsi di solito in vari ambiti: Per quanto riguarda il mercato del lavoratore (in sede di assunzione e di licenziamento). Per quanto riguarda iniziative di formazione, orientamento, aggiornamento e perfezionamento professionale. Per quanto riguarda la retribuzione, la classificazione professionale o l’attribuzione di qualifiche e mansioni nelle progressioni di carriera. La discriminazione altro non è che un trattamento differenziato basato su un motivo illecito, cosa che è totalmente in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione (principio di parità e uguaglianza formale): «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
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Il principio di uguaglianza e di parità di trattamento come base del divieto di discriminazioni
Il principio di uguaglianza nell’ordinamento giuridico e sociale italiano viene sancito espressamente all’art. 3 della Costituzione, che stabilisce pari dignità sociale e uguaglianza avanti alla legge per tutti i cittadini (cd. principio di eguaglianza formale). A tal proposito, tale articolo impone al legislatore di emanare regole aventi efficacia generale e valide per tutti a prescindere dall’appartenenza degli individui ad una determinata categoria, ossia senza distinzioni di sesso, etnia, lingua, religione opinione politica e di condizioni personali e sociali. Tale fattispecie viene poi completata dal secondo comma della norma citata, che sancisce il principio di eguaglianza sostanziale, con il quale il legislatore costituente mira alla creazione di un sistema in cui, non solo le leggi risultino uguali per tutti, ma che esse siano altresì orientate e volte ad eliminare gli ostacoli all’attuazione effettiva di una situazione egalitaria per tutti i cittadini. Essi trovano espresso riconoscimento anche nell’ordinamento internazionale a cui l’Italia aderisce e si conforma, visto che il principio di non discriminazione viene ripreso da: Art. 14 CEDU: stabilisce che il godimento dei diritti sanciti dalla Carta deve essere assicurato senza che venga attuata alcuna discriminazione determinata dal qualsivoglia fattore («Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione»). Art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: vieta qualunque forma di discriminazione («È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. Nell'ambito d'applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità»). Per questo motivo, il legislatore interviene da sempre al fine di arginare il fenomeno in analisi; il divieto di discriminazione, infatti, costituisce pacificamente un limite posto al potere direttivo di cui il datore di lavoro è titolare nell’organizzazione e nella gestione dell’impresa. Detto limite opera in riferimento a tutte le attività e a tutte le modalità attraverso le quali l’iniziativa del datore di lavoro si esplica nei confronti dei soggetti presenti nell’impresa. A dimostrazione di ciò, interviene la stessa Costituzione, che a tal fine, prevede una specifica ipotesi di uguaglianza- relativa al lavoro femminile- all’art. 37.
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Divieto di discriminazione
Il divieto di discriminazione è dunque un limite esterno ai poteri datoriali di carattere esterno, dal momento che: Riguarda potenzialmente tutte le azioni imprenditoriali. Agisce come argine esterno e non è insito nella natura o nei fini tipici dei poteri datoriali. Concerne le espressioni del potere direttivo, come il potere di controllo, disciplinare (es. licenziamento), di conformazione, etc.
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Normativa in materia di discriminazioni e pari opportunità
Art. 21 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea Art. 14 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali Art. 3 Costituzione Art. 37 Costituzione Art. 15 e 18 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) Legge 903/1977 Legge 125/1991 D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità) D.Lgs. 286/1998 (Testo Unico in materia di immigrazione) D.Lgs. 215/2003 in attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica D.Lgs. 216/2003 in attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro D.Lgs. 5/2010 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
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Discriminazioni: dirette e indirette
Qualsiasi azione, atto, patto o comportamento che produce volutamente un effetto pregiudizievole, finendo per discriminare i lavoratori in ragione di un particolare aspetto (es. sesso, preferenze sessuali, età, orientamento politico, fede religiosa, etc.). Qualsiasi adozione di criteri non essenziali e formalmente neutri che però, a prescindere dall’intento discriminatorio, finiscano per dare uno svantaggio in modo proporzionalmente maggiore a certi lavoratori rispetto ad altri (es. criteri di assunzione incentrati un aspetto fisico che penalizza le donne). Alcune fonti in materia: legge 10 aprile 1991, n. 125; decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198
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Discriminazioni: dirette e indirette
Volendo andare nello specifico.. Discriminazione diretta: imputabile direttamente al motivo illecito che genera la discriminazione verso . In questo caso, una chiara discriminante potrebbe essere che quel requisito sia fondamentale per il lavoro svolto (es. «cercasi uomo/donna di fede cattolica»). ATTENZIONE: in generale, questo corrisponderebbe ad una discriminazione religiosa, ma se quel posto di lavoro fosse presso una scuola cattolica, è chiaro che tale requisito potrebbe benissimo risultare funzionale e naturale alla posizione in oggetto. Discriminazione indiretta: in tal caso, il comportamento tenuto dal datore di lavoro non è direttamente rivolto a discriminare un soggetto, ma, attraverso un criterio di scelta apparentemente neutrale, per esempio, finisce per creare un trattamento discriminatorio verso una determinata categoria di soggetti. Per esempio, un annuncio di lavoro recante la dicitura «cercasi personale di altezza minima 1,80 metri» o «massimo 23 anni», pur non vantando in modo apparente alcuna discriminazione di sorta, finirebbe per precludere la domanda di partecipazione ad alcune categorie (es. discriminazione indiretta verso le donne, poiché statisticamente ne sono maggiormente penalizzate).
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Riferimenti normativi
Legge 10 aprile 1991, n. 125 (art. 4. Azioni in giudizio) Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. Legge 9 dicembre 1977, n. 903 (parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) E' vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. La discriminazione di cui al comma precedente è vietata anche se attuata: attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza; in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso. Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti. Eventuali deroghe alle disposizioni che precedono sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva. Non costituisce discriminazione condizionare all'appartenenza ad un determinato sesso l'assunzione in attività della moda, dell'arte e dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione. 2. La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne. 3. E' vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera. Le assenze dal lavoro, previste dagli articoli 4 e 5 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sono considerate, ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non richiedano a tale scopo particolari requisiti.
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Discriminazioni: tipologie
Come spiegato in precedenza, si verifica un trattamento discriminatorio quando il datore di lavoro tiene un atteggiamento tale da comportare un trattamento differente nei confronti di uno o più lavoratori rispetto a quello tenuto nei confronti della generalità di essi e, contestualmente, quando il suddetto comportamento non è sorretto da una ragione/esigenza idonea a giustificarlo ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa. Pur non essendovi un preciso elenco tassativo di discriminazioni, tra i casi più frequenti si ritrovano: Esempi di discriminazioni Discriminazioni di genere Discriminazioni basate sulla disabilità Discriminazioni in base alla razza Discriminazioni basate sullo stato di salute; Discriminazioni basate sulle convinzioni personali. Discriminazioni basate sull’età Discriminazioni religiose Discriminazioni politiche Discriminazioni basate sulle condizioni sociali Discriminazioni basate sulla lingua Discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale Discriminazioni basate sull’origine etnica Discriminazioni sindacali Molestie e molestie sessuali (discriminazioni fondate sul sesso secondo l’art. 26 del Decreto legislativo n. 198 del 2006) Discriminazioni basate sulle caratteristiche fisiche, sui tratti somatici, sull’altezza, sul peso
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Discriminazioni determinate da ragioni sindacali (art
Discriminazioni determinate da ragioni sindacali (art. 15 della legge 300/1970) La discriminazione determinata dall’affiliazione o dalla non appartenenza ad un’associazione sindacale è, come accennato, disciplinata specificamente dall’art. 15 Statuto di lavoratori, che mira in particolare a colpire tutti i comportamenti- intesi come atti o come patti- diretti a: subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte, ossia comportamenti discriminatori tenuti nella fase di selezione e/o nella fase di assunzione ; licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche, mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli in altro modo pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero, ossia comportamenti discriminatori tenuti nella fase di svolgimento del rapporto di lavoro e nel licenziamento. Per la verità, sembra sin d’ora opportuno rilevare che la legge 903/1977 e il decreto legislativo 216/2003 hanno ampliato il campo di applicazione della norma che si sta esaminando anche a fattori differenti da quello strettamente sindacale, contemplando così nel suo campo di applicazione anche le discriminazioni sorrette da motivi politici, religiosi, razziali, di lingua, di sesso, di handicap, di età o di orientamento sessuale. Gli atti o i patti discriminatori sono sanzionati: con la nullità: ciò significa che la discriminazione può essere fatta valere in ogni tempo (imprescrittibilità) e da chiunque vi abbia interesse (quindi anche dal sindacato eventualmente coinvolto nel comportamento discriminatorio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice; con il procedimento e le relative conseguenze (ordine di cessazione del comportamento e rimozione degli effetti mediante decreto pronunciato dal giudice) previste dall’art. 28 Statuto dei lavoratori, qualora detto comportamento sia stato perpetrato per scopi antisindacali; con l’ammenda e/o le sanzioni amministrative pecuniarie previste.
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Discriminazioni di genere
Il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazione hanno trovato specifica applicazione con riguardo al lavoro femminile e ai comportamenti discriminatori tenuti in ragione del sesso del lavoratore/lavoratrice. Fondato sul principio costituzionale previsto dall’art. 37 della Carta, il divieto ha trovato poi puntuale attuazione in una normativa che si è evoluta nel tempo, costituendo l’oggetto principale della Legge 903/1977 prima e della Legge 125/1991 poi (peraltro più volte modificata da interventi normativi specifici ed infine confluita nel cd. Codice delle pari opportunità fra uomo e donna citato). È stato così creato nel tempo un vero e proprio sistema normativo per le pari opportunità che, nel suo complesso, è stato redatto con l’intento di attuare, in prima battuta, il principio di uguaglianza formale, e successivamente di rimuovere gli ostacoli (per vero ancora parzialmente presenti) alla realizzazione di un’effettiva situazione di pari opportunità per lavoratori di sesso maschile e femminile. Siffatto sistema, come detto, è stato oggetto di recenti modifiche determinate dalla necessità di recepire le disposizioni del diritto comunitario (da sempre sensibile alla tematica in esame) previste dalla direttiva 2006/54/CE. Il D.Lgs. 5/2010, in particolare, interviene in punto di: pensione di vecchiaia (abolendo l’obbligo di comunicazione preventiva dell’intenzione di proseguire la propria attività oltre il periodo di pensionamento previsto) e pensioni complementari (rafforzando la parità su accesso, contributi e prestazioni a favore di entrambi i sessi); sanzioni penali e amministrative previste per il datore di lavoro in caso violazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne (il mutamento è previsto nel senso di un loro inasprimento rispetto a quelle previste dalla normativa previgente); retribuzione; adozioni internazionali (sancendo il divieto di licenziamento nel periodo intercorrente fra la comunicazione della proposta di adozione e il compimento di un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare); organismi di parità e diritto all’aggiornamento professionale.
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Discriminazioni di genere
A tal proposito, la Repubblica si assumere l’obiettivo di rimuovere ogni forma di impedimento che comporta tale diversità, andando ad intervenire sugli squilibri che sussistono. Tra i soggetti maggiormente colpiti dai suddetti impedimenti sul piano sia nazionale che internazionale, abbiamo le donne, che risentono particolarmente anche della difficoltà nel conciliare la vita familiare e lavorativa (dati ISTAT 2016: donne lasciano il lavoro per un figlio e in 5,5 milioni rinunciano alla maternità per non perdere l’impiego). Nonostante l’articolo 37 della Costituzione sancisca una parità di trattamento retributivo tra uomo e donna, possiamo notare come il gender gap sia di circa ancora evidente: Indice specifico: 5,3% per l’Italia e 16,2% per la media EU. Indice più generale sui redditi annui medi: 43,7% per l’Italia e 39,6% per la media EU. «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione». Le forme di discriminazione, chiaramente, non si limitano al solo caso della discriminazione femminile, ma possono spaziare sotto molti aspetti. Per questo, lo Statuto del lavoratore che all'articolo 15 (Atti discriminatori), che inizialmente era dedicato ai soli comportamenti discriminatori nei confronti del sindacato, è intervenuto per disporre la nullità di tutti gli atti discriminatori. Poi questa tutela fu estesa anche alla politica e alla religione e infine con la modifica della legge n. 903/1977 e 216/2003 di normativa comunitaria (viene ancora di più allungato il catalogo introducendo anche la tutela contro la discriminazione razziale, di lingua, di sesso, contro gli handicap, di età, di orientamento sessuale e di convinzioni personali).
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Principali cause di discriminazione sul lavoro per le donne
Secondo la ricerca di Swg ("In che modo al giorno d'oggi le donne sono discriminate sul posto di lavoro?") svolta tra marzo ed aprile del 2017, la maggior parte dei 1500 intervistati (italiani dai 18 anni in su) ritiene che il primo motivo della discriminazione sul lavoro per le donne riguardi il diritto ad avere figli (47% degli uomini e il 44% delle donne). A seguire, abbiamo la scarsa possibilità di fare carriera (34% degli uomini, 43% delle donne), il salario (34% degli uomini, 40% delle donne) e, infine, la possibilità stessa di ottenere un posto di lavoro (18% degli uomini, 26% delle donne).
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Approfondimento delle varie sanzioni amministrative previste
Le discriminazioni sul lavoro, che fino a pochi anni fa costituivano un reato, vengono ora regolate decreto legislativo del 6 febbraio 2016, n. 8 ed equiparate ad un illecito amministrativo. Tuttavia, se la riforma, da un lato, elimina diverse sanzioni penali sulla discriminazione del lavoratore, dall’altro rende le violazioni notevolmente più salate: si passa, infatti, dalle precedenti ammende comprese tra 250 e euro alle nuove sanzioni pecuniarie che spaziano tra i a euro e che risultano applicabili a qualsiasi tipologia di discriminazione (vale a dire è in base al sesso, alla nazionalità, alla religione, alle opinioni e a qualunque ulteriore condizione).
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Pari opportunità: definizione
In generale, con l’espressione “pari opportunità” siamo soliti indicare il principio giuridico, sancito dalla Costituzione Italiana, che mira a rimuovere ogni sorta di ostacolo discriminatorio dalla partecipazione degli individui alla vita politica e sociale e al mondo del lavoro. Si tratta quindi di una condizione di parità ed uguaglianza sostanziale introdotta per garantire a tutte le persone il medesimo trattamento e per impedire che vi siano forme di discriminazione basate su genere, età, preferenze sessuali, etnia, disabilità, orientamento religioso e politico, etc. Il fine delle politiche connesse alle pari opportunità, come per esempio le azioni positive, si basa in particolare sulla ricerca di un’uguaglianza giuridica tra gli individui che elimini ogni genere di differenza discriminante nell’accesso e nella partecipazione alla dimensione sociale, economica e politica della vita quotidiana. In definitiva, l’obiettivo delle misure incentrate sulle pari opportunità è quello di realizzare una serie di iniziative e provvedimenti volti a superare le condizioni avverse alla parità tra sessi nell’ambito sia lavorativo che politico e sociale; tra queste possiamo trovare per esempio la predisposizione di un determinato numero di posti adibiti alle quote rosa o l’agevolazione, per quanto riguarda la flessibilità d’orario, dei permessi atti a conciliare la vita familiare con quella lavorativa. A tal proposito, ci riferiamo in particolar modo alle cosiddette “politiche di genere”, vale a dire tutte quelle azioni positive e misure volte a rimuovere ogni aspetto discriminatorio diretto o indiretto, sotto il profilo formale o sostanziale, nei confronti delle donne. Si tratta quindi di un insieme di norme, iniziative e politiche volte a realizzare l’effettiva parità tra sessi nell’accesso al mondo del lavoro e ad eliminare tutti gli ostacoli sfavorevoli alla realizzazione del principio delle pari opportunità.
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Pari opportunità Per pari opportunità di “genere" si intende “quel principio giuridico e sociale che implica la mancanza di una discriminazione, diretta o indiretta, tra i sessi, con particolare riguardo per il campo politico e civile, per quanto concerne la diversità di diritti, partecipazione alla vita politica, la retribuzione e tutto ciò che fa parte della vita di un cittadino”. Nel linguaggio comune odierno tale espressione viene solitamente ricondotta al differente trattamento tra uomini e donne nel mondo del lavoro, con particolare riferimento alle discriminazioni professionali e retributive. Le politiche adottate per applicare il principio delle pari opportunità di genere si focalizzano principalmente sul vietare ed eliminare ogni componente discriminatoria per quanto riguarda l’accesso al lavoro e alle prestazioni previdenziali, la retribuzione, il livello professionale, l’accesso agli impieghi pubblici, etc. Quote rosa Azioni positive Agevolazione e incentivi all’occupazione femminile
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Azioni positive Le azioni positive consistono in misure volte alla rimozione degli ostacoli che impediscono la concreta realizzazione delle pari opportunità e sono dirette a favorire l'occupazione della categoria svantaggiata (es. donne) e a realizzare l'uguaglianza sostanziale tra le parti. Strumento, dunque, duttile e temporaneo (destinato, infatti, ad esaurirsi nel momento stesso in cui il suo obiettivo dovesse essere pienamente realizzato), che deve servire a rimuovere quegli specifici ostacoli materiali che si frappongono alla reale e sostanziale parità tra lavoratori e lavoratrici: considerato che le donne si sono affacciate al mondo del lavoro, seppure sempre in posizione subalterna, da un tempo relativamente breve e ciò non può non comportare tuttora un obiettivo svantaggio a loro carico.
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Azioni positive Carattere diseguale delle azioni positive Mentre il divieto di discriminazione ha valenza bidirezionale, le azioni positive sono destinate ad operare soltanto in favore del genere svantaggiato (delle donne)carattere temporaneo delle azioni positive –giustificazione e condizioni di legittimità delle azioni positive come misure di diritto diseguale Quote riservate si o no? Promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità (lett. e) art. 42, 2°c.) Parità nei punti di partenza parità nei risultati? Ci si chiede se “pari opportunità” significhi eguaglianza nei punti di partenza o anche nei risultati; se cioè ci si debba fermare ad una nozione «procedurale» delle pari opportunità, ovvero alla messa in condizione del gruppo svantaggiato di concorrere ad armi pari lasciando che vincano i migliori o se si debba arrivare, come può succedere con le quote riservate all’assunzione (o nelle promozioni), alla «pre-costituzione di risultati di eguagliamento, non altrimenti conseguibili».
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Caso 1. Azioni positive discriminati?
Corte di Giustizia Caso Lommers (causa C-476/99) Nel caso in oggetto, per esempio, si andava a valutare se la scelta di un ministero olandese di mettere a disposizione un certo numero di posti in asili nido esclusivamente per i figli delle dipendenti e non anche per quelli dei dipendenti di sesso maschile fosse da ritenere una legittima azione positiva o se fosse da intendere come «discriminazione alla rovescia». La Corte ha ritenuto legittima tale scelta, poiché il ministero olandese ha lasciato ai dipendenti di desso maschile la possibilità di usufruire di tali posti nel caso di comprovate necessità (es. padri single con difficoltà nel trovare altre soluzioni per conciliare la vita lavorativa con quella in famiglia).
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Discriminazioni: premessa ai casi pratici
Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n (attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) Art. 3. Ambito di applicazione Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni
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Discriminazioni: premessa ai casi pratici
Vi sono inoltre delle eccezioni nel campo delle discriminazioni: Per vero, lo stesso art. 3 di entrambi i decreti introduce un regime di eccezioni alla regola di discriminazione che lascia un ampio spazio di non applicazione della disciplina in parola. In particolare, è stabilito che: quanto alle discriminazioni dirette, non costituiscono comportamenti discriminatori i trattamenti fondati su razza, origine etnica, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale qualora tali fattori costituiscano un requisito essenziale e determinante al fine dello svolgimento di una particolare attività lavorativa o assumano rilievo per lo svolgimento di talune specifiche funzioni (forze armate e servizi di polizia, penitenziari o di soccorso), sempreché, tuttavia, detti trattamenti siano caratterizzati da proporzionalità e adeguatezza e purché comunque la finalità sia legittima; In generale, sono comunque fatte salve disposizioni che prevedono trattamenti differenziati in ragione dell’età, essendo giustificata la fissazione di un limite di età minimo o massimo, di uno standard di esperienza professionale o anzianità di lavoro, nonché la previsione di speciali condizioni di accesso ed occupazione per i giovani, gli anziani o con persone a carico allo scopo di favorirne inserimento professionale e protezione.
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Analisi delle sentenze: discriminazione in sede di assunzione e di licenziamento
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Caso 1. Discriminazione legata a maternità e matrimonio (e per età) in sede di assunzione
25 In questo caso possiamo notare una discriminazione di genere, che mira a trattare differentemente le lavoratrici in base alla loro sfera personale. Inoltre, il criterio dell’età massima deve essere opportunamente motivato da ragioni tecniche. Tuttavia, non vi sarà diritto ad alcun risarcimento se il candidato viene riammesso a colloquio di lavoro: la sentenza (Corte di Giustizia UE sentenza C-423/15) afferma che il candidato, escluso da un bando per sopraggiunti limiti massimi di età e successivamente richiamato per il colloquio lavorativo, non possa più chiedere il risarcimento del danno, essendo stato il suo diritto (alla valutazione della sua candidatura) ormai soddisfatto. Discriminazione all’assunzione «Qualsiasi discriminazione all’accesso all’impiego, sia che si tratti di lavoro dipendente, che autonomo o parasubordinato, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, costituisce ora un illecito amministrativo punibile con una sanzione che va da a euro; la stessa sanzione è applicata anche per le discriminazioni sulla promozione dei lavoratori, in qualsiasi ramo o settore di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale».
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Caso 2. Discriminazione per caratteristiche fisiche ed aspetto fisico
26 In questo caso possiamo notare una discriminazione di genere, che mira a trattare differentemente le lavoratrici in base alla loro sfera personale. Inoltre, viene palesemente effettuata una discriminazione in base al all’aspetto fisico (peso). Il criterio dell’età deve essere opportunamente motivato da ragioni tecniche e inerenti allo svolgimento della mansione. Discriminazione all’assunzione «Qualsiasi discriminazione all’accesso all’impiego, sia che si tratti di lavoro dipendente, che autonomo o parasubordinato, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, costituisce ora un illecito amministrativo punibile con una sanzione che va da a euro; la stessa sanzione è applicata anche per le discriminazioni sulla promozione dei lavoratori, in qualsiasi ramo o settore di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale».
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Caso 3. Discriminazione per caratteristiche fisiche
Corte di Cassazione, sentenza n del 15 novembre 2013 [La bassa statura non impedisce le mansioni di capotreno] «Può svolgere mansioni di capo servizio treni anche chi ha una statura inferiore a un metro e sessanta». Lo si evince dalla sentenza n del 15 novembre 2013 con cui la sezione lavoro della Cassazione ha dato ragione ad una donna, la quale, pur avendo superato positivamente la selezione per essere assunta a svolgere tali funzioni, era poi stata giudicata inidonea da Trenitalia per «insufficienza della statura». La Corte d’Appello di Roma, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva dichiarato il diritto della donna a essere assunta come capo servizio treno. I giudici di secondo grado avevano anche stabilito un risarcimento danni a suo favore, ritenendo che le fonti normative relative alle tabelle sui «requisiti fisici» per i vari profili professionali, in cui veniva stabilita la statura minima di 1,60 cm per i capi treno e i conduttori, fossero «di grado secondario e, dunque, al giudice ordinario era consentito valutarne incidentalmente la legittimità ed eventualmente disapplicarle». Tale normativa, inoltre, rilevavano i giudici d’appello «prevedendo un requisito di statura minima unico ed indifferenziato per uomini e donne, violava gli articoli 3 e 37 della Costituzione», in quanto, come dichiarato dalla Consulta nel 1993, realizzava una discriminazione indiretta ai danni dei candidati di sesso femminile». Ogni normativa che, nei concorsi per l’assunzione – avevano sottolineato ancora i giudici d’appello, stabilisse una limitazione di natura fisica per l’accesso alla selezione «doveva rispondere a un criterio di ragionevolezza», sia «per il concorso pubblico, stante i principi costituzionali di non discriminazione per diversità fisiche e di imparzialità della pubblica amministrazione», sia «nel settore privato, in cui i criteri di selezione devono rispondere ai principi di correttezza e buona fede». La Cassazione ha condiviso tali conclusioni, parlando di «percorso motivazionale esaustivo e coerente».
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Caso 4: Discriminazione per fede religiosa?
La corte di giustizia europea e il velo islamico (Corte di Giustizia Europea 14 marzo 2017, nella causa C-157/15) «Non viola il divieto di discriminazione il datore di lavoro che pattuisce con i propri dipendenti o impone loro unilateralmente il divieto di indossare il velo islamico o altri indumenti o segni della loro fede religiosa od orientamento filosofico, purché il divieto sia riferito a tutti gli orientamenti». Il divieto, imposto dal datore di lavoro, di indossare segni visibili che esprimano qualsiasi ideologia politica, filosofica o religiosa, non rappresenta una discriminazione diretta. La Corte di Giustizia europea, pronunciatasi su due fattispecie (l’una francese, l’altra belga) concernenti il diritto di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro, ha stabilito che, al contrario, tale regola può costituire una discriminazione “indiretta” nell’ipotesi ove venga fornita la prova che, l’obbligo apparentemente neutro dalla stessa previsto, comporti, di fatto, un particolare svantaggio per gli individui che aderiscono ad una determinata religione o ideologia. Al contempo, il collegio non esclude che il giudice interno possa interpretare la norma interna, nel senso che rappresenti, “indirettamente”, una disparità di trattamento fondata sulla religione o sulle convinzioni personali: in tal caso dovrebbe essere dimostrato che l’obbligo formalmente neutro, in essa contenuto, comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia. Pur ribadendo che soltanto il giudice nazionale investito della specifica controversia risulta legittimato a stabilire se, ed in quale misura, la norma aziendale interna sia conforme ai sopra descritti requisiti, al contempo la Corte di Giustizia ha chiarito che risulta “legittima la volontà di un datore di lavoro di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici sia privati, un’immagine di neutralità, in particolare qualora siano coinvolti soltanto i dipendenti che entrano in contatto con i clienti. Tale intenzione, infatti, rientra nell’ambito della libertà d’impresa, riconosciuta dalla Carta”. Sentenza della Corte di Giustizia Europea 14/03/2017 n° C-157/15
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Apparato sanzionatorio e tutele per i licenziamenti discriminatori
Tutela obbligatoria [articolo 8 della Legge 604/1966] Tutela reale dello Statuto dei lavoratori [articolo 18 della Legge 300/1970] Riforma Fornero [Legge 92/2012] Jobs Act [decreto legislativo 23/2015]
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Tipologia di licenziamento
Tutela contro il licenziamento discriminatorio: tutela obbligatoria [articolo 8 della Legge 604/1966] Tipologia di licenziamento Tutela prevista Licenziamento discriminatorio, comunicato in forma orale, nullo per violazione di legge Il licenziamento viene considerato nullo e pertanto si procede al ripristino del posto di lavoro con tanto di risarcimento monetario per quanto riguarda le mensilità non percepite (comunque non inferiore alle 5 mensilità).
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Tipologia di licenziamento OPPURE (a discrezione del lavoratore)
Tutela contro il licenziamento discriminatorio: tutela reale [articolo 18 della Legge 300/1970] Tipologia di licenziamento Tutela prevista Licenziamento discriminatorio, comunicato in forma orale, nullo per violazione di legge Il licenziamento viene considerato nullo e pertanto si procede al ripristino del posto di lavoro con tanto di risarcimento monetario per quanto riguarda le mensilità non percepite (comunque non inferiore alle 5 mensilità). OPPURE (a discrezione del lavoratore) Risarcimento, al posto della reintegra, mediante un’indennità monetaria di 15 mensilità dell’ultima retribuzione.
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Tipologia di licenziamento OPPURE (a discrezione del lavoratore)
Tutela contro il licenziamento discriminatorio: Riforma Fornero [Legge 92/2012] Tipologia di licenziamento Tutela prevista Tutela reale piena Licenziamento discriminatorio, comunicato in forma orale, nullo per violazione di legge Il licenziamento viene considerato nullo e pertanto si procede al ripristino del posto di lavoro con tanto di risarcimento monetario per quanto riguarda le mensilità non percepite (comunque non inferiore alle 5 mensilità) al netto dell’aliunde perceptum. OPPURE (a discrezione del lavoratore) Risarcimento, al posto della reintegra, mediante un’indennità monetaria di 15 mensilità dell’ultima retribuzione.
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Tipologia di licenziamento OPPURE (a discrezione del lavoratore)
Tutela contro il licenziamento discriminatorio: Jobs Act [Decreto legislativo 23/2015] Tipologia di licenziamento Tutela prevista Tutela reale piena Licenziamento discriminatorio, comunicato in forma orale, nullo per violazione di legge o motivi di disabilità psicofisica Il licenziamento viene considerato nullo e pertanto si procede al ripristino del posto di lavoro con tanto di risarcimento monetario per quanto riguarda le mensilità non percepite (comunque non inferiore alle 5 mensilità) al netto dell’aliunde perceptum. OPPURE (a discrezione del lavoratore) Risarcimento, al posto della reintegra, mediante un’indennità monetaria di 15 mensilità dell’ultima retribuzione.
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Spunti di riflessione In che modo le imprese possono avvalorare i criteri di selezione da loro scelti? Oltre quale soglia le differenziazioni in materia di ruoli, competenze, professionalità o retribuzione possono venir considerate discriminatorie? In quali casi le azioni positive rischiano di tramutarsi in «discriminazioni alla rovescia»? Le azioni positive che interessino maggiori incentivi economici ad una categoria di soggetti sono da considerarsi discriminatorie? Come si prova l’effettiva discriminazione da parte del datore di lavoro?
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