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L’arte allusiva nella Commedia: un esempio famoso

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Presentazione sul tema: "L’arte allusiva nella Commedia: un esempio famoso"— Transcript della presentazione:

1 L’arte allusiva nella Commedia: un esempio famoso
Tosto che ne la vista mi percosse l'alta virtù che già m'avea trafitto prima ch'io fuor di püerizia fosse, volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli è afflitto, per dicere a Virgilio: “Men che dramma di sangue m'è rimaso che non tremi: conosco i segni de l'antica fiamma”. (PURG. XXX 40-48). Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei coniugis et sparsos fraterna caede penatis solus hic inflexit sensus animumque labantem impulit. Agnosco veteris vestigia flammae. (ENEIDE IV 20-23)

2 I poeti antichi e moderni come ‘presenze’ nella commedia
Diverse modalità di incontro, trasversali rispetto alle cantiche: vengono menzionati, in absentia (es. Guittone in Purg. XXIV) compaiono come personaggi (i quattro classici in Inf. IV) prendono la parola (Brunetto in Inf. XV) parlano di poesia (Guinizzelli in Purg. XXVI)

3 Inferno I - sequenze La “selva oscura” (1-12) La speranza di salire al colle illuminato dal sole (13-30) L’incontro con le tre “fiere”: la lonza, il leone e la lupa (31-60) L’incontro con Virgilio e la richiesta di soccorso (61-90) Virgilio spiega la presenza delle fiere e profetizza l’avvento del veltro (91-111) La necessità di “tenere altro viaggio” (112-fine).

4 Dalla voce onore nel Dizionario Treccani e nell’Enciclopedia Dantesca
In senso ampio, la dignità personale in quanto si riflette nella considerazione altrui (con significato che coincide con quello di reputazione) e, in senso più positivo, il valore morale, il merito di una persona, non considerato in sé ma in quanto conferisce alla persona stessa il diritto alla stima e al rispetto altrui (con significato equivalente a quello di onorabilità) Oltre che di largo uso o. è una delle parole sottoposte alla meditazione del poeta. Il suo discorso sulla nobiltà del popolo romano prende le mosse dal principio che “o. è premio di virtù” (Mn II III 3 cum honor sit praemium virtutis) più volte ricorrente nell’Etica di Aristotele (IV 7,1123 b 35 " virtutis enim praemium honor "; VIII 16, 1163 b 3-4 " virtutis quidem... et beneficii, honor est retributio ") e nel commento tomistico (III lect. XIV, IV lect. VIII, lect. IX, VIII lect. XIV). Ma il poeta lo rivive originalmente: con l'aggiunta che “ogni posizione di preminenza è o.” (et omnis praelatio sit honor) egli riassorbe il principio, che è anche una definizione, in una sua personale trama di idee politiche, in cui il prestigio e la supremazia morale e politica sono note dominanti.

5 La classificazione degli stili nel De Vulgari Eloquentia II iv 5-8
[5] Nell'ambito poi degli argomenti che si presentano come materia di poesia, dobbiamo aver la capacità di distinguere se si tratta di cantarli in forma tragica, o comica, o elegiaca. Con tragedia vogliamo significare lo stile superiore, con commedia quello inferiore, con elegia intendiamo lo stile degli infelici.  [6] Se gli argomenti scelti appaiono da cantare in forma tragica, allora bisogna assumere il volgare illustre, a di conseguenza annodare la canzone. Se invece siamo a livello comico, allora si prenderà talora il volgare mediocre, talora l'umile, e i criteri di distinzione in proposito ci riserviamo di esibirli nel quarto di quest'opera. Se infine siamo a livello elegiaco, occorre prendere solamente il volgare umile. [7] Ma lasciamo da parte gli altri e ora, come è opportuno, trattiamo dello stile tragico. È ben chiaro che usiamo veramente uno stile tragico solo quando con la profondità del pensiero s'accordano sia la magnificenza dei versi che l'altezza della costruzione e l'eccellenza dei vocaboli.  [8] Per cui se è già stato dimostrato, come si ricorderà, che quanto sta al sommo è degno di ciò ch'è pure sommo, e questo che chiamiamo tragico è il sommo degli stili, gli argomenti che abbiamo distinto come tali da cantarsi a livello sommo vanno cantati solo in questo stile: vale a dire la salvezza, l'amore e la virtù, e i concetti che formuliamo in funzione di essi, purché non siano sviliti da nessun fenomeno accidentale.

6 Inferno II - sequenze Dante riflette sulla difficoltà del viaggio e si paragona ai suoi troppo più illustri precedenti Enea e San Paolo (1-42) Virgilio rassicura Dante e gli spiega che il suo viaggio è il frutto di una decisione presa in Cielo, e riferisce il suo colloqui con Beatrice (43-126) Dante ritrova coraggio e si prepara a cominciare il cammino (127-fine).

7 I due ‘predecessori’ di Dante nell’esperienza del viaggio nell’Aldilà
Enea: secondo il racconto dell’Eneide (VI libro, vv. 295 ss.), scende nell’Ade con l’aiuto della Sibilla Cumana. Trova negli Elisi l’anima di Anchise, che gli profetizza la grandezza di Roma e dell’impero. San Paolo: nella II Lettera ai Corinti (12, 2-4) racconta di essere stato rapito fino al terzo cielo: che nel sistema tolemaico e dantesco è quello di Venere (spiriti amanti), ma nell’antica tradizione rabbinica era (dopo il cielo aereo e quello stellato) l’empireo, cioè la sede divina.

8 Inferno IV - sequenze Dante riprende i sensi dopo il suo primo svenimento, e si trova oltre l’Acheronte, nel Limbo (1-45) Spiegazione di Virgilio circa la discesa agli Inferi di Cristo e la liberazione dal Limbo delle anime degli Ebrei virtuosi (46-63) I poeti della “bella scola” (64-105) Il castello degli “spiriti magni”: personaggi dell’epos e della storia classica, filosofi e scienziati: l’enciclopedia della virtù ( )

9 Poeti epici all’Inferno: IV, 70 ss.
Di lungi n’eravamo ancora un poco, ma non sì ch'io non discernessi in parte ch'orrevol gente possedea quel loco. "O tu ch'onori scïenzïa e arte, questi chi son c' hanno cotanta onranza, che dal modo de li altri li diparte?". E quelli a me: "L'onrata nominanza che di lor suona sù ne la tua vita, grazïa acquista in ciel che sì li avanza". Intanto voce fu per me udita: "Onorate l'altissimo poeta; l'ombra sua torna, ch'era dipartita". Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand'ombre a noi venire: sembianz‘ avevan né trista né lieta. Lo buon maestro cominciò a dire: "Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire: quelli è Omero poeta sovrano; l'altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano. Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, fannomi onore, e di ciò fanno bene". Così vid'i' adunar la bella scola di quel segnor de l'altissimo canto che sovra li altri com'aquila vola. Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, e 'l mio maestro sorrise di tanto; e più d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' sì mi fecer de la loro schiera, sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

10 Una definizione di “epica”
Col termine ‘epica’ si indica solitamente un racconto in versi (eredità del modo originariamente solo orale di trasmissione del testo), di carattere esemplare, che ha per oggetto imprese eroiche compiute in tempo più o meno lontano, comunque affine o sovrapponibile al mondo mitico. Al centro del racconto epico c’è l’eroe, dotato di qualità sovra-umane o semi-divine, isolato dalla collettività, rispetto alla quale svolge una funzione «archetipica», offre cioè un modello di comportamento e di definizione dei valori comuni. Per questo il genere epico è il genere classico per eccellenza, e al codice epico si conformano i testi più antichi della nostra tradizione.

11 L’incipit epico del Purgatorio (I 1-12)
Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; e canterò di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Calïopè alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. Dolce color d'orïental zaffiro, che s'accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta che m'avea contristati li occhi e 'l petto. Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti... [Aen. IX 525] Le figlie di Pierio, re di Tessaglia, superbe della loro bellissima voce, osarono sfidare al canto le stesse Muse, ma furono vinte da Calliope, e per punizione trasformate in gazze (piche) cfr. Met. V

12 L’incipit epico del Paradiso (I 10-27)
Veramente quant'io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsïa traesti de la vagina de le membra sue. O divina virtù, se mi ti presti tanto che l'ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedra'mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. Il satiro Marsia, suonatore di flauto, aveva sfidato Apollo, l’inventore ed eccelso suonatore della lira, in una gara musicale. Apollo vinse e lo scorticò vivo per punirlo della sua presunzione. cfr. Met. VI

13 Stazio epico e la sua conversione (Purgatorio)
XXI "Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond'uscì 'l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là", rispuose quello spirto, "famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; de l'Eneïda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz'essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando". XXII Ed elli a lui: "Tu prima m'invïasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m'alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte, quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenïe scende da ciel nova'. Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, a colorare stenderò la mano.

14 Inferno XIII - sequenze
L’ingresso nella selva mostruosa (1-30) La pianta-uomo (31-54) Pier delle Vigne e la sua scelta suicida (55-78) La sorte delle anime dei suicidi: dubbio di Dante e risposta di Pier (79-108) Il peccato degli scialacquatori e la caccia tragica ( ) Il fiorentino suicida ( )

15 Il mito delle Arpie e la fonte virgiliana (Eneide III, 209 ss.)
Secondo la tradizione mitologica le Arpie erano figlie di Taumante ed Elettra (non la figlia di Agamennone e Clitemnestra), divinità arcaiche legate al mare e alla luce. Nell’Eneide le Arpie imbrattano le mense che Enea e i suoi compagni hanno apparecchiato approdando alle isole Strofadi: l’evento viene interpretato come un segno divino, che sconsiglia all’eroe troiano di fermarsi in quel luogo. Inoltre l’arpia Celeno profetizza un infausto seguito del viaggio.

16 La pianta-uomo e la fonte virgiliana (Eneide III, 22 ss.)
Nel III libro dell’Eneide Virgilio racconta che Enea, facendo sosta sulle rive della Tracia, raccoglie alcuni ramoscelli di mirto per coprire l’altare e sacrificare agli dei. Ma dai rami vede colare sangue, e sente una voce: è quella di Polidoro, figlio di Priamo ed Ecuba, ucciso dal re Polimestore, presso cui il padre lo aveva mandato per proteggerlo, con una parte del tesoro della città di Troia. Quando era arrivata in Tracia la notizia della caduta di Troia, Polimestore si era sbarazzato di Polidoro per impossessarsi del tesoro. Trafitto dalle lance, Polidoro era caduto sulla spiaggia senza ricevere una giusta sepoltura., perciò la sua anima non aveva potuto entrare nell'Ade. Enea si affretta allora a tumularlo secondo il rito, prima di ripartire lasciando quel luogo ostile e sacrilego.

17 Un uomo pianta nell’Orlando Furioso (VI, 26 ss.)
26 Quivi stando, il destrier ch'avea lasciato tra le più dense frasche alla fresca ombra, per fuggir si rivolta, spaventato di non so che, che dentro al bosco adombra: e fa crollar sì il mirto ove è legato, che de le frondi intorno il piè gli ingombra: crollar fa il mirto e fa cader la foglia; né succede però che se ne scioglia. 27 Come ceppo talor, che le medolle rare e vòte abbia, e posto al fuoco sia, poi che per gran calor quell'aria molle resta consunta ch'in mezzo l'empìa, dentro risuona, e con strepito bolle tanto che quel furor truovi la via; così murmura e stride e si coruccia quel mirto offeso, e al fine apre la buccia. 28 Onde con mesta e flebil voce uscìo espedita e chiarissima favella, e disse: - Se tu sei cortese e pio, come dimostri alla presenza bella, lieva questo animal da l'arbor mio: basti che 'l mio mal proprio mi flagella, senza altra pena, senza altro dolore ch'a tormentarmi ancor venga di fuore Al primo suon di quella voce torse Ruggiero il viso, e subito levosse; e poi ch'uscir da l'arbore s'accorse, stupefatto restò più che mai fosse. A levarne il destrier subito corse; e con le guancie di vergogna rosse: - Qual che tu sii, perdonami (dicea), o spirto umano, o boschereccia dea. 30 Il non aver saputo che s'asconda sotto ruvida scorza umano spirto, m'ha lasciato turbar la bella fronda e far ingiuria al tuo vivace mirto: ma non restar però, che non risponda chi tu ti sia, ch'in corpo orrido et irto, con voce e razionale anima vivi; se da grandine il ciel sempre ti schivi.

18 La metafora delle due chiavi: auctoritates
Isaia XXII 22: Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. Vangelo secondo Matteo, XVI, 18-19: E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III parte: Questio 17: Le chiavi della Chiesa; art. 3: Se le chiavi siano due o una sola -> [parafrasando] le chiavi di Pietro devono essere due, perché rappresentano rispettivamente l’autorità di giudicare, che viene da Dio, e la sapienza del ministro che esercita questa autorità. Su questa base Dante assegna due chiavi all’angelo che custodisce la porta del Purgatorio (Purg. IX).

19 Nicola della Rocca e l’elogio di Pier delle Vigne in forma di interpretatio nominis (cfr. Claudia Villa in “Strumenti critici”, 1991) Piero -> Pietro, custode della Chiesa, depositario delle chiavi, artefice di giustizia; Vigna -> pianta fruttifera, che si adatta ad essere trapiantata (da Capua alla corte di Federico), allegoria della buona vita cristiana.

20 Inferno XV - sequenze Il cammino sull’argine e la schiera dei sodomiti (1-21) L’incontro con Ser Brunetto (22-45) Dante spiega la propria presenza nell’inferno (46-54) La stima di Brunetto e la sua profezia (55-78) La risposta di Dante al maestro (79-99) I letterati sodomiti ( )

21 Le opere di Brunetto (1220 [circa]-1294)
Tresor, opera in prosa francese, di carattere enciclopedico: la sua impostazione influì sicuramente sul progetto del Convivio dantesco Tesoretto, in distici di settenari italiani a rima baciata, sorta di riduzione in versi dell’opera maggiore. Se ne veda l’incipit qui a destra-> Favolello, trattato in versi (ancora settenari italiani a rima baciata) sul tema dell’amicizia. BL tradusse inoltre l’Etica Nicomachea [ma non direttamente da Aristotele] e la Retorica di Cicerone. Al valente segnore di cui non so migliore sulla terra trovare: ché non avete pare né 'n pace né in guerra; sì ch'a voi tutta terra che 'l sole gira il giorno e 'l mar batte d'intorno san' faglia si convene, ponendo mente al bene che fate per usaggio, ed a l'alto legnaggio donde voi sete nato; e poi da l'altro lato potén tanto vedere in voi senno e savere a ogne condizione, un altro Salamone pare in voi rivenuto; […]

22 Inferno XXI-XXII - sequenze
Lo spettacolo della pece bollente nella bolgia dei barattieri (1-21) Il diavolo psicopompo (22-45) L’infierire dei Malebranche sul dannato (46-57) Il colloquio tra Virgilio e Malacoda (58-87) Dante esce dal nascondiglio (88-102) L’inganno di Malacoda ( ) La malvagia decina ( ) La “fiera compagnia” (1-15) I barattieri nella pece (16-30) La ‘pesca’ del barattiere (31-42) Il Navarrese (43-54) Un dialogo travagliato (55-90) Il patto tra il Navarrese e Alichino (91-117) La beffa del Navarrese ( ) La zuffa dei diavoli ( )

23 I due viaggi di Virgilio fino al Cocito
Nel canto XXI Virgilio cade nella trappola di Malacoda pur avendo già percorso una volta la voragine infernale. Il poeta stesso ha raccontato a Dante (IX 22-27), infatti, che poco dopo la sua morte la maga Erittone (personaggio noto a Dante attraverso la Farsaglia di Lucano) lo aveva mandato nella Giudecca a recuperare uno spirito che voleva richiamare in vita, forse per affidargli una profezia, come nel caso raccontato da Lucano. Poiché tuttavia questo primo viaggio di Virgilio attraverso l’inferno era avvenuto prima della discesa di Cristo agli Inferi, egli non poteva sapere che in realtà tutti i ponti sulla VI bolgia erano crollati, e che perciò Malacoda lo stava ingannando.

24 Barattieri e giullari: tutti ribaldi
In lingua oitanica (antico francese) barattiere si dice ribaud -> da cui poi l’italiano ribaldo (usato anche in INF XXII 50). Ma il termine «allude ad una ben precisa esperienza culturale e si applica ad una delimitata classe sociale: lo troviamo infatti associato e spesso identificato con ioculaor e termini affini (giullare, mimo, istrione, goliardo, buffone, scurra, trutannus, comicus, comoedus ecc.)» (così Picone). Barattieri / ribaldi / giullari sono accomunati dalla stessa propensione a vivere di espedienti, vendendo quel che dovrebbe essere fonte di onore, e quindi non commerciabile = la propria carica, la propria dignità poetica.

25 Ipotesti per i canti della baratteria
Fabliaux = “contes à rire en vers” (definizione di Joseph Bédier, 1894), dove i versi sono quasi sempre ottosillabi rimati (rima baciata) o assonanzati. Diableries = rappresentazioni comiche (spesso in fora di drammatizzazione dei fabliaux) dove i protagonisti sono diavoli, vagabondi, e ‘ribaldi’, che si insultano e si azzuffano. I ‘giullari’ che cantavano o drammatizzavano questi “contes à rire” sceglievano pseudonimi, molti dei quali rimasti famosi, e corrispondenti ai nomi dei diavoli della ‘malvagia decina’ dantesca. Il giullare più famoso della tradizione oitanica fu Rutebeuf ( circa), che scrisse tra l’altro un compianto per la morte del re di Navarra Tebaldo.


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