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Corso di Antropologia della Musica Lezione 9

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Presentazione sul tema: "Corso di Antropologia della Musica Lezione 9"— Transcript della presentazione:

1 Corso di Antropologia della Musica Lezione 9
Panoramica Etnomusicologica

2 Terminologia e definizioni
La creazione del termine /Etnomusicologia/ è attribuita a Jaap Kunst che lo usò nel sottotitolo del suo libro Musicologica: a Study of the Nature of Ethno-musicology, its Problems, Methods, and Representative Personalities, Amsterdam 1950. Recentemente gli studiosi russi hanno cominciato ad usare la parola / etnomuzikoznaniye/ per indicare lo studio scientifico della musica tradizionale, mentre l’etnografia musicale corrisponde alla registrazione della musica stessa. Oggetto dell’etnomusicologia è la musica viva (oltre agli strumenti musicali e alla danza) di tradizione orale, che non appartenga alla musica colta urbana europea. I principali oggetti di studio sono: la musica dei popoli privi di scrittura (o musica tribale); la musica tramandata oralmente nelle grandi culture dell’Asia (musica di corte, delle alte gerarchie religiose e di altri strati superiori della società) in Cina, Giappone, Corea, Indonesia, India, Iran e nei paesi di lingua araba la musica popolare, che Nettl (1964, p.7) ha proposto di definire come la musica di tradizione orale sviluppatasi in aree dove esiste una cultura “alta”.

3 Queste tre categorie sono le principali aree d’interesse dell’etnomusicologo, ma non sono le uniche.
Mutamenti o influenze culturali, ad esempio, costituiscono un campo d’interesse attraverso il quale intraprendere uno studio della musica tradizionale o commerciale in tutte le parti del mondo. Oggi l’etnomusicologia è riconosciuta come disciplina accademica in USA e in Canada, in Francia, e, in minor misura, in Germania, Olanda, Gran Bretagna e altrove. Gli specialisti di questa disciplina provengono da studi musicologici o antropologici, eccezionalmente da entrambi i campi. La ricerca è condotta in seno ai dipartimenti universitari di musica o di antropologia, nei musei etnografici e in istituti di ricerca presso le accademie nazionali delle scienze, questi ultimi specialmente nei paesi dell’Europa orientale. Forse perché è una branca della musicologia e dell’antropologia, nessuna definizione di questa disciplina ha ottenuto generale gradimento. Le due facce dell’etnomusicologia derivano fondamentalmente dai due modi che abbiamo a disposizione per pensare la musica: il primo consiste nel pensarla come qualcosa di “speciale” che va indagato al suo “interno” per capire come funziona (ed eventualmente cosa significa) il secondo modo è un approccio “esterno” più interessato ai condizionamenti cui la musica è soggetta e alle sue analogie con altri fenomeni che non al fatto musicale in sé.

4 Questo secondo modo di pensare la musica, a sua volta, può assumere due aspetti: ciò che è “esterno” può essere l’insieme della cultura nella quale la musica stessa si manifesta il processo storico che ha portato a quella tale cultura e dunque a quella particolare musica. All’inizio del suo libro più famoso l’etnomusicologo Shima Arom simbolizza la dialettica fra la sostanza “interna” della musica e gli aspetti “esterni” ad essa collegati in una figura di cerchi concentrici. Nel cerchio centrale si trova la materia musicale nel secondo cerchio vi sono i mezzi materiali di cui si serve (strumenti, voci) e quelli concettuali (la lingua, il dialetto, le espressioni idiomatiche particolari); nel terzo cerchio Arom colloca le circostanze in cui un popolo fa musica (cerimonie, riti, danze, lavoro ecc..); in un quarto cerchio egli mostra il panorama simbolico generale del gruppo sociale preso in considerazione: la religione, i miti, la storia tramandata e accettata. La centralità della materia musicale significa che vi è un legame molto stretto fra la musica e “l’altro da sé”, ma significa anche che può essere preso in considerazione uno studio della musica “in sé”, da un punto di vista solo musicologico, senza preoccuparsi di capire se vi siano legami (ed eventualmente di quale tipo) fra la musica e il mondo.

5 Evidentemente la scelta fra i due possibili approcci, o l’elezione di una delle numerosissime possibilità intermedie, non dipende soltanto da un modo generale di vedere il mondo, da una filosofia della vita o da un semplice punto di vista: per mettere in atto l’una o l’altra direzione di ricerca occorre una preparazione particolare, e quella musicologica è certamente la più “tecnica” e la meno disposta all’improvvisazione. In realtà più che fare una scelta unidirezionale fra le due opzioni, è opportuno prepararsi e acquisire gli strumenti necessari per procedere a zig-zag, ossia per riuscire a spostarsi con la dovuta abilità da un campo all’altro in modo da riuscire a fare emergere i legami fra il musicale e il culturale, quei legami di cui nessuno può negare l’esistenza, ma che – altrettanto innegabilmente – non sono biunivoci e quindi vanno continuamente verificati e messi a punto nelle diverse fasi della ricerca. Merriam, un esponente degli antropologi, l’ha definita come lo studio della musica in una cultura.

6 Un rappresentante dei musicologi, George List, definisce l’etnomusicologia come lo studio della musica tradizionale, della musica trasmessa oralmente, non per iscritto, e che è sempre in mutamento. Il lavoro su campo è fatto dal ricercatore e vengono raccolti sia i brani musicali sia i dati provenienti dal contesto, ma non necessariamente la musica è studiata come comportamento umano. Marcel Dubois (1965, p.39) uno dei principali etnomusicologi francesi, ha condensato in un breve passo i principali obiettivi della disciplina: «L’etnomusicologia è strettamente legata all’etnologia, nonostante i suoi naturali caratteri di specializzazione musicologica. Studia le musiche vive; prende in esame pratiche musicali nei loro più ampi contesti; il suo primo criterio è di indirizzarsi verso fenomeni di tradizione orale. Tenta di collocare i fatti della musica nei loro contesti socio-culturali, nel modo di pensare e di agire e nelle strutture di un gruppo sociale, tenta di determinare le reciproche influenze dell’uno sull’altro; confronta questi fatti fra loro e in diversi gruppi di individui di livello culturale e tecnico analogo o diverso» Già alla fine del ‘700 vengono definiti i compiti di due nuove discipline: l’antropologia, come studio dell’uomo «sia fisico che morale» e l’etnologia, come studio dell’uomo nelle forme del sociale. Si tratta della conclusione di un movimento di pensiero che si era sviluppato lungo tutto il secolo accanto alle attività di preparazione dei viaggi alla scoperta di paesi ignoti.

7 Preistoria della disciplina
Le musiche dei popoli “primitivi” hanno suscitato l’interesse dei viaggiatori fin dal medioevo, sia grazie alle relazioni politico-commerciali con i paesi del bacino mediterraneo, sia per lo spirito attento dei missionari (e specialmente dei padri gesuiti). Tuttavia è solo verso la metà dell’Ottocento che si tenta coscientemente di capire e di studiare le forme della musica extra-occidentale.

8 I campi di ricerca dell’etnomusicologia
L’Africa sahariana e subsahariana Ancora oggi perdurano vecchi pregiudizi di derivazione darwiniana ed ereditati dalla mentalità colonialista dell’Ottocento, secondo i quali gli africani — “naturalmente“ dotati di una grande propensione per il ritmo e per la danza — sarebbero rimasti ad uno stato “primitivo” di sviluppo musicale. Recentemente proprio gli studi etnomusicologici hanno invece dimostrato la ricchezza e la varietà delle manifestazioni musicali di questo grande paese; anzi hanno reso palese l’assurdità di parlare di “musica africana”, proprio in base alla grande differenziazione esistente nelle diverse zone. Come non si può parlare di “musica europea” o di “musica asiatica” come di un fatto unitario, così non si può parlare di “musica africana”. Tutt’al più si possono rilevare alcuni caratteri ricorrenti: 1) il concetto di musica, come noi l’intendiamo, non esiste nella maggior parte delle società africane, in quanto non è giudicato sufficiente ad indicare l’immensa quantità di pratiche individuali e collettive legate alla musica cantata, suonata, danzata. In Africa le strutture sociali sono organicamente legate alle forme della musica e l’attività musicale s’iscrive in un contesto socio-religioso che fornisce allo studioso l’indispensabile griglia interpretativa. Il più delle volte una certa musica non si esegue se non in una circostanza particolare, e al di fuori di quella perderebbe il suo significato, mentre al contrario, altre musiche sono così frequenti, codificate e inserite nel quotidiano, da costituire un mezzo di comunicazione.

9 2) La pervasività delle pratiche musicali in tutte le fasce sociali e in tutte le fasi della vita.
Questo sembra essere un carattere legato al fatto che alla musica veniva fino a poco tempo fa affidata la trasmissione del sapere comune in società prive di scrittura. Per orientarsi in questo immenso paese popolato da numerose etnie e ricco di tradizioni culturali diversissime, cominciamo a prendere in considerazione la distinzione proposta da Gilbert Rouget nel suo famoso libro su “Musica e trance” fra due fondamentali sensibilità musicali: una legata alla foresta e l’altra alla savana, con ciò intendendo una distinzione fra una musica puramente “nera” e un’altra aperta in modi diversi alle influenze della cultura islamica. Benché sia ancora una distinzione molto rudimentale, essa tuttavia tiene conto di due criteri molto importanti: l’eredità storica legata alle diverse vicende delle varie regioni, e l’influenza dei fattori climatici e quindi degli stili di vita delle popolazioni. Assai simile alle forme musicali africane sono quelle del Madagascar, che con le sue 18 etnie è una specie di microcosmo in cui si ritrovano caratteri simili a quelli del continente. In tutto il continente i moti indipendentistici e la nascita di nuovi Stati hanno coinciso con l’irruzione di generi musicali “occidentali” di tipo urbano, e hanno dato origine a forme miste, in cui gli stilemi “importati” si modificano a contatto con i gusti e le tradizioni locali.

10 L’India e l’Asia meridionale
Fin dalla storia più antica la civiltà indiana valica di gran lunga le frontiere attuali del paese (benché immenso). La tradizione musicale iscritta in questa cultura manifesta una visione del mondo e dell’uomo al tempo stesso estroversa, generosa e sensuale e insieme intima e sottile. Questa ambiguità di fondo è forse il portato dei rapporti che l’antica cultura indiana intrattenne fin dalle epoche più lontane sia col mondo greco e mediterraneo, sia con l’Asia sud-orientale e perfino con la civiltà islamica. Gli scavi archeologici hanno messo in luce strumenti musicali risalenti a quattro mila anni a.C. nell’attuale Pakistan. Con l’arrivo degli indo-erupei nella regione del Gange nel secondo millennio a.C. s’inizia la tradizione Vedica, fondata sui più antichi testi sacri dell’India, considerati come rivelazione divina. I quattro Veda principali sarebbero all’origine della recitazione, dell’arte mimetica, del canto e dei sentimenti. Questi testi influenzano profondamente tutti gli scritti posteriori sulla musica e la danza, che si limitano ad ampliarli e ad arricchirli con ulteriori codificazioni e precisazioni.

11 Tuttavia la pratica musicale e coreutica, pur facendo riferimento ai testi sacri, si è trasmessa in maniera essenzialmente orale. In India si distinguono nettamente due categorie di musica: quella detta “della via”, e quella “della terra”. La prima indica la musica contemplativa, rituale, funzionale alla meditazione, insomma una “delle vie” dello yoga. L’altra, d’origine rurale, è considerata come popolare, “mondana”, profana. La musica “classica” si suddivide a sua volta in due grandi tradizioni: quella carnatica del sud del paese e quella induista del nord, entrambe evolute nel seno delle corti principesche che erano anche promotrici delle arti. Nella rigida divisione fra le caste che caratterizza specialmente la civiltà induista, spesso la musica era affidata alle caste più basse. Basta considerare la varietà e la ricchezza degli strumenti per rendersi conto delle possibilità foniche di queste musiche.

12 L’Himalaya e le steppe mongole
Sia in Tibet sia in Mongolia troviamo tratti particolari e caratteristici derivati dalle correnti dello sciamnesimo e del buddismo. Le pratiche musicali sciamaniche sono incentrate su tecniche che producono l’estasi e la possessione al fine di condurre l’individuo a comunicare con l’Invisibile. La musica serve essenzialmente a provocare o ad accompagnare la trance dell’officiante (che può essere maschio o femmina) affinché possa entrare in contatto con gli spiriti superiori o inferi. Lo scopo di questi rituali è quello di guarire dalla malattia o di indovinare il futuro. I rituali buddisti consistono invece in un insieme di pratiche liturgiche destinate alle molteplici circostanze della vita monastica e a qualche circostanza della vita laica. Benché il buddismo himalayano si articoli in 4 ordini, esso presenta una sostanziale omogeneità per ciò che riguarda la dottrina e i riti. Nei monasteri i monaci officianti sono messi di fronte in due file secondo una stretta disposizione gerarchica; in questa “offerta musicale” alla divinità si alternano canti e recitazione di testi sacri. Soltanto i grandi rituali danzati e dotati di maschere hanno luogo all’aria aperta. L’emissione della voce è particolare e riesce a produrre un fascio d’armonici ben avvertibili. Questa tecnica è nota anche ai bardi della Mongolia, cantori-tutori delle memorie patrie, ma anche specialisti nel canto lirico. La voce è la protagonista di tutte queste musiche (sciamanica e buddista; sacra e profana), e gli strumenti hanno prevalentemente un ruolo di accompagnamento.

13 L’Asia orientale Parlando della Cina, culla della civiltà più antica del mondo, ci riferiamo qui a una zona diversa da quella ora delimitata dai confini politici della Repubblica popolare cinese: intendiamo comprendere — sia pure con differenze anche notevoli — le tradizioni coreane, quelle del Giappone e del Vietnam, ma escludiamo le popolazioni turco-mongole e quelle tibetano-birmane. I principi estetici e rituali riferibili all’area musicale di questa antica cultura sono stati raccolti e trasmessi attraverso i testi classici del confucianesimo compilati durante la dinastia Han (ca. 200 a.C. - ca. 200 d.C.), ma hanno le loro radici in una tradizione molto più antica. Il pensiero dominante di tali dottrine è che la musica serve a stabilire un’armonia fra il cielo e la terra, fra il superiore e l’inferiore, il macrocosmo e il microcosmo. Come nella poesia e nella pittura, anche nella musica si riflette una visione del mondo intimamente legata alla natura. Secondo la filosofia cinese, l’eccellenza di un artista non consiste tanto nell’originalità delle sue opere, quanto piuttosto nella sottigliezza allusiva con cui, attraverso le sue opere, egli riesce a mettersi in sintonia con la natura, ossia con le leggi che reggono l’intero universo.

14 La musica assume di frequente toni meditativi, ma altrettanto spesso si piega ad esprimere la nostalgia (tema della separazione degli amanti), la passione dell’ira (guerra, intrighi di palazzo), la serenità (temi del paesaggio e delle stagioni); in questo senso si può dire che la musica cinese sia una musica descrittiva. I musicologi cinesi di oggi distinguono 5 categorie di musica: il canto popolare l’opera il canto narrativo la musica strumentale la musica per danza. Ma si tratta di una classificazione poco rappresentativa, in quanto non tiene conto delle connotazioni rituali di molte di queste musiche, del contesto storico nel quale si sono tramandate e neppure del diverso grado di raffinatezza estetica.

15 Una distinzione più appropriata (anche se ancora più generica) parrebbe essere quella che distingue 3 categorie: le musiche a carattere religioso i generi della “musica elegante” (ad es. il gagaku giapponese) le musiche popolari, comprendendo fra queste anche l’opera, di cui soltanto in Cina si conoscono più di trecento tipi, caratteristici delle diverse regioni. La musica religiosa, a sua volta, si distingue nettamente in 2 tradizioni. La musica intonata nelle cerimonie confuciane è caratterizzata da un rigore monotono che induce la meditazione, ma anche l’ipnosi, ed ha lo scopo di armonizzare il microcosmo umano con il macrocosmo dell’universo. Prevale la voce e la sfera strumentale si articola in “otto sonorità”: pietra, metallo, seta, bambù, legno, pelle, zucca e terra. La musica dei rituali taoisti, invece, è pervasa da vigore popolaresco e prevede forme miste di rito e di opera i cui protagonisti non sono necessariamente dei preti. Il timbro di questa musica — che sembra in netto contrasto con la filosofia taoista del distacco, del non-agire — è dominato da un nutrito gruppo di percussioni (sia di pelle sia di metallo).

16 La musica “elegante” o “di corte” è formata da un largo ventaglio di generi: da quelli cerimoniali-imperiali finalizzati all’esaltazione del potere sovrano e caratterizzati da un monumentale organico di voci, strumenti a percussioni e a fiato, a quelli più intimi, adatti per gli incontri fra filosofi e letterati o per la sala da te. La musica tradizionale è ancora molto viva in tutte le provincie cinesi e in particolare nelle zone rurali. Si tratta prevalentemente di una musica da eseguirsi all’aperto, nella quale hanno il ruolo principale gli strumenti a percussione e a fiato, organizzati in gruppi stabili, rappresentativi di una comunità. I generi sono raggruppati in due grandi categorie: quelli militari e quelli civili. L’influenza della musica occidentale su tutti questi tipi di musica è particolarmente sensibile in Giappone, che si apre al mondo esterno fin dal Superata la fase in cui l’acculturazione musicale avveniva sul doppio binario (giapponese e occidentale) e superata anche la fase di integrazione (musica contemporanea occidentale composta per strumenti tradizionali) oggi il musicista giapponese è pienamente inserito nel linguaggio e nelle forme della musica “internazionale”, sia quella pop per il consumo delle masse, sia quella sperimentale delle avanguardie.

17 L’Asia del sud-est, continentale e insulare
Fin dai primi secoli dell’era cristiana la civiltà dell’India si è disseminata nel sud-est asiatico: in Birmania, Cambogia, Tailandia e Laos, che ancor oggi mostrano varie affinità musicali. Tale influenza, tuttavia, si manifesta più nel forme del teatro, della poesia e della danza (raggruppate attorno ai grandi cicli del Mahâbhârata e del Râmâyana) che sulla musica propriamente detta. Una delle più vistose caratteristica della musica di questi paesi è la presenza dei gongs, tanto che Mantle Hood ha potuto coniare l’espressione “culture dei giochi di gongs”. Sia nelle sontuose regge di Java e di Bali, sia nei più modesti villaggi la presenza di questi strumenti (in bronzo, in ferro o in piombo) o più in generale dei metallofoni, costituisce un tratto caratteristico, anche se — a seconda della forma e del metallo utilizzato — il timbro può variare considerevolmente. I gongs si uniscono ad altri strumenti idiofoni, a membranofoni e aerofoni secondo un’organizzazione musicale che Hood ha definito “stratificazione polifonica”, realizzata attraverso la sovrapposizioni di diversi strati melodico-ritmici fra loro molto differenziati.

18 Agli strumenti a suono fisso, si sovrappongono quelli capaci di produrre delle scale di suoni molto differenziate. Le scale melodiche dell’Asia sud-orientale infatti, sono molto diverse fra loro e variano da tre a sette suoni ugualmente distanti uno dall’altro. Ai diversi generi musicali corrispondono scale diverse ed anche organici strumentali diversi. La Malesia e il Borneo costituiscono fin dai tempi più antichi un ponte economico-culturale fra India e la Cina. Le tradizioni musicali e rituali risentono fortemente di queste influenze incrociate, ma nelle zone più interne, benché i paesi siano completamente cristianizzati o islamizzati, si conservano ancora riti e tradizioni legati agli antichi culti animistici. Nelle tremila isole abitate dell’Indonesia, la cultura dei gongs si manifesta nelle famose formazioni strumentali che eseguono il gamelan, coltivato specialmente a Java e a Bali.

19 L’Oceania La costituzione estremamente frammentata di questa area (formata da circa diecimila isole, dall’immensa Australia a quelle piccolissime della Micronesia) presenta una grandissima varietà sotto tutti i punti di vista: etnico, politico, storico, culturale. Il carattere più vistoso delle pratiche musicali diffuse in quest’area è il predominio della voce, mentre gli strumenti sono costituiti da qualche tipo di idiofono e da aereofoni costruiti con canne di bambù. Ma già dall’inizio del nostro secolo i visitatori curiosi delle abitutdini degli aborigieni e gli studiosi di etnologia hanno notato la quasi totale distruzione delle tradizioni autoctone a seguito della colonizzazione e soprattutto dell’evangelizzazione. Con l’introduzione degli strumenti occidentali e delle forme della musica di massa, si è venuto costituendo uno stile detto “Pop-pan-pacifico”. Solo recentemente le nuove unità nazionali si sono rese conto della necessità di far leva sugli antichi costumi (e strumenti e canti) per costruirsi una propria identità, per cui il didjeridu è diventato lo stumento-simbolo dell’Australia, mentre le danze cantate haka lo sono diventate per la Nuova Zelanda.

20 Il didjeridu è un aerofono costituito da un ramo di eucalipto svuotato dalle termiti e chiuso ad una estremità con cera d’api o gomma di cautciù. E’ particolarmente utilizzato dalle popolazioni aborigene del nord del paese. Non è quasi mai utilizzato da solo, ma lo si trova preferibilmente accompagnato da tamburi di legno e dalle voci. In Polinesia e in Micronesia la musica è solitamente vocale, collettiva e legata alla danza. Nel 1972 è stato inaugurato il “Festival delle arti del Sud-Pacifico” che ogni anno ha luogo in località diverse di questa immensa area; ma, ovviamente, il suo effetto non è quello di riportare in luce le antiche forme artistico-rituali, ma piuttosto quello di fornirne un’ummagine folkloristica e accattivante, una sorta di ricostruzione ideale a spese della sostanza culturale delle pratiche che vengono inscenate a scopo spettacolare.

21 Le civiltà circumpolari e amerindie
Gli studiosi di etnologia e di storia sono oggi concordi nell’ipotizzare che gli antenati degli indiani d’America siano venuti dall’Asia attraverso lo stretto di Bering. In seguito si sarebbero disseminati lungo tutto il continente americano fino alla terra del fuoco, per poi essere confinati dai colonizzatori occidentali nelle terre più inospitali: nelle foreste equatoriali, sulle alte montagne e nelle pianure desertiche. Alcuni etnomusicologi hanno recentemente effettuato delle ricerche per dimostrare l’esistenza di parentele musicali fra le popolazioni circumpolari, parentele che verrebbero a sostenere l’ipotesi più sopra descritta. Ad es. Jean Jacques Nattiez, ha dimostrato che nell’isola giapponese di Hokkaido si praticano dei “jeux de gorge” simili a quelli degli Inuit delle zone artiche canadesi. Altri ricercatori hanno trovato maniere simili di emettere suoni vocali in Alaska, in Groenlandia e presso i Lapponi della Scandinavia settentrionale. Le pratiche musicali degli indiani del Nord America sono fra i repertori meglio studiati di tutta l’etnomusicologia e presentano fra loro una certa omogeneità.

22 Assai diverso è invece il panorama delle musiche dell’America centrale, dove sono quasi del tutto scomparse le tracce delle grandi civiltà Olmeca, Maya e Atzeca fiorenti dal IV secolo della nostra era; i massacri compiuti dalla conquista spagnola a partire dai primi anni del sec.XVI, infatti, hanno costretto i nativi a rifugiarsi nelle foreste e nei luoghi più inospitali in uno stadio di vita rurale e molto primitivo, che non ha consentito il mantenimento delle tradizioni regali dell’epoca precedente. Dalle fonti scritte si sa che presso i Maya e gli Atzechi la musica era parte integrante delle cerimonie di corte ed era affidata a dei professionisti. Di questi repertori, una volta distrutte le corti, non è rimasto nulla. Tracce più sensibili dell’antica cultura si sono invece conservate sull’altopiano delle Ande, dove i campesinos praticano tuttora dei rituali accompagnati da musica a seconda dei cicli stagionali. Le popolazioni delle terre basse possono essere suddivise in due grandi gruppi: quelli che vivono in zone di savana (Argentina e Cile) e quelli che vivono nelle foreste (Amazonia e Mato Grosso). Le musiche e le danze autoctone che sopravvivono nel primo di questi due gruppi di etnie, hanno tratti di antiche tradizioni sciamaniche simili a quelle degli indiani delle pianure nord-americane e si manifestano soprattutto nei cicli dell’anno e durante il carnevale. Gli indiani che vivono nell’immensa foresta tropicale sono stati ancora poco studiati; le ricerche si sono intensificate a partire dagli anni Sessanta, ma a tutt’oggi si sa ancora poco sia dal punto di vista etnico, sia da quello linguistico-culturale a causa dell’estrema dispersione di piccoli gruppi isolati l’uno dall’altro. Dai primi sondaggi, tuttavia, pare di poter affermare che la pratica musicale e l’insieme degli strumenti sono molto diversificati e ricchi.

23 Le culture meticce d’America
Nel nord del continente americano a partire dall’epoca della tratta degli schiavi si è sviluppata la musica afro-americana nelle due principali forme religiosa (spirituals, gospels, jubilee) profana (canti di lavoro, danze). Nelle sue varie e ben note forme, la musica afro-americana è il risultato dell’incontro di scale pentatoniche africane (caratterizzate dalle note “abbassate” o blu notes) e da una forte tendenza a dare importanza al ritmo e alle percussioni da una parte, e dall’altra da strumenti di tipo occidentale e da strutture armoniche di chiara ascendenza “colta”. Questi ultimi “ingredienti” a loro volta, si possono considerare l’interpretazione americana di tradizioni inglesi o comunque nord-europee. A sud del Rio Grande, invece, le musiche latino-americane sono il prodotto dell’incontro di tradizioni autoctone con repertori portati dai colonizzatori spagnoli, francesi e anche italiani. Lo strumento più diffuso è la marimba, chiaramente derivata dagli xilofoni di origine africana. Nelle isole caraibiche si incontra una profusione di forme musicali, dalle più popolari/antiche alle più sofisticate/urbanizzate. L’influenza africana si manifesta soprattutto nelle musiche religiose.

24 L’Europa Le culture musicali europee, diverse da paese a paese, per tradizione e storia, hanno però un importante tratto in comune: ovunque e lungo tutto l’arco della storia, si può notare un continuo flusso bi-direzionale fra forme sacre e profane, fra repertori colti e forme popolari (quest’ultima asserzione presenta sempre più numerose eccezioni a partire dall’inizio di questo secolo). I fenomeni d’emigrazione e lo spostamento delle frontiere hanno creato intrecci complicatissimi nelle tradizioni popolari delle varie regioni così che la suddivisione in differenti aree non può tener conto semplicemente della lingua ed ancor meno dei confini politici. In generale si può dire che ai nostri giorni le musiche di tradizione orale in Europa sopravvivono al margine delle culture musicali dominanti (quella colta e quella popular) o sono oggetto di operazioni di folk-revival. Nella parte orientale del continente prevalgono le musiche vocali di tipo polifonico, derivazione dei riti della chiesa bizantina e della sua influenza su tutte le popolazioni slave. Questo carattere accomuna le forme religiose e quelle profane, come, ad esempio, i canti per il rito matrimoniale, che Stravinskij riprende nella sua opera Les Noces.

25 Ma anche questi caratteri “autentici” sono stati commercializzati: si pensi ai canti dei cosacchi del Don, resi famosi da films e commedie televisive, o all’espansione discografica delle polifonie femminili note come “Voix bulgares”. I paesi nordici conservano tradizioni strumentali abbastanza antiche, mentre nei paesi d’origine celtica si cerca di valorizzare quanto di tipico è ancora reperibile; in Grecia avviene l’incontro fra tradizioni occidentali e orientali. In generale, tuttavia, l’interesse dell’etnomusicologo che si occupa di musiche europee non dovrebbe essere tanto quello di dedicarsi ad una sorta di “archeologia” delle forme musicali antiche, bensì piuttosto quello di studiare come l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa produca forme diverse nei vari paesi, a causa dell’incrocio fra tradizioni antiche tramandate oralmente e musicali diffusi dai mezzi di comunicazione di massa . A questa descrizione “geografica” dei campi di studio dell’etnomusicologia se ne deve accostare un’altra, di tipo “trasversale”, che individua 5 temi applicabili a ciascuna delle 10 aree prese in considerazione.

26 Riportiamo qui l’illustrazione delle 6 tesi secondo Merriam 1983, pp
La prima è stata chiamata «cultura musicale materiale» e si riferisce principalmente allo studio degli strumenti musicali [...]. Una seconda area di studio riguarda i testi e prevede l’analisi del testo come comportamento linguistico, della relazione tra linguaggio e musica e di ciò che i testi rivelano con le parole [...] La terza area di studio comprende le categorie della musica, considerate dall’analista, per motivi di convenienza, e dalla gente comune dei tipi di canto differenziati. In questo caso lo studioso include nel suo programma di registrazione campioni di ogni genere di musica, ricavati sia dalle esecuzioni ufficiali che da quelle quotidiane. La quarta area di interesse per l’etnomusicologo è costituita dai musicisti. Questa include sia l’istruzione musicale sia i modi per diventare musicisti.[...] Una quinta quinta area di studio riguarda l’uso e la funzione della musica in rapporto ad altri aspetti della cultura. [...] Infine l’operatore sul campo studia la musica come attività culturale e creativa; in tal caso è fondamentale uno studio che si concentri sulle idee presenti nella società in esame relative alla musica.

27 I pionieri della disciplina
Lo studio scientifico della musica, con la quale l’etnomusicologia si riconosce e che fu quasi subito chiamata / musicologia comparata/ comincia negli anni Ottanta dell’Ottocento. Gli inizi si possono collocare nello schema tracciato da Guido Adler nel 1885 per lo studio scientifico della musica, che egli suddivise in due grandi categorie: lo studio storico e quello sistematico. Nella seconda categoria, suddivisa in tre rami principali (teorico, estetico e pedagogico), ne appariva opzionalmente un quarto, chiamato ‘musicologia’ o più precisamente, ‘musicologia comparata’ «in quanto dava a se stessa il compito di confrontare i prodotti sonori e specialmente i canti di differenti popoli, paesi e territori a scopo etnologico, per raggrupparli e suddividerli sulla base delle differenze nella loro natura». L’anno successivo fu pubblicato lo studio di Carl Stump sulla musica degli indiani Bela Cola abitanti la Columbia britannica; il lavoro comprendeva analisi di canti trascritti ad orecchio nel 1885, quando un gruppo di questi indiani si era esibito in Germania. Anche questa è una data significativa.

28 Per la ricerca scientifica della nuova disciplina due innovazioni tecniche rivestono grande importanza: l’invenzione del grammofono (1877) le scoperte del fisico e fonetista A.Ellis, che inventò un sistema ancor oggi in uso per misurare gli intervalli fra altezze diverse per mezzo di numeri facilmente confrontabili. Si tratta della divisione del semitono ben temperato in 100 parti uguali dette cents, introdotta in un saggio intitolato On the musical scales of various nations, anch’esso del 1885. Il grammofono permise la ripetizione di un’esecuzione musicale, i cents resero possibili precisi confronti fra sistemi tonali diversi. E’ opportuno notare che gli studiosi che s’interessarono con acribia all’analisi musicale, e specialmente alla misurazione degli intervalli usando le migliori attrezzature scientifiche esistenti, provenivano quasi tutti dalle scienze naturali. Carl Stumpf, benché fosse soprattutto un filosofo, cercava i fatti attraverso gli esperimenti nello spirito delle scienze naturali. Hornbostel era un chimico.

29 Nel 1890 (non nel 1889 come spesso si afferma) J
Nel 1890 (non nel 1889 come spesso si afferma) J. Walter Fewkes registrò prima gli indiani Passamaquoddy nel Maine poi i Zuni nel Nuovo Messico, e questa sembra essere stata la prima ricerca su campo con il fonografo di Edison. I canti registrati degli Zuni vennero trascritti in notazione occidentale da Benjamin Ives Gilman e pubblicati nel 1891 nel “Journal fo American Archaeology and Ethnology”; la lunga recensione e la parziale traduzione che ne fece Stumpf in un articolo del 1892 prova gli stretti contatti fra gli studiosi di quel tempo. Fra i primi europei che intrapresero registrazioni su campo si devono citare Béla Vikár in Ungheria (dal 1886) e Evgenya Linyova in Russia (dal 1897 e oltre). Questo senza tener conto delle registrazioni fatte nelle città. I cilindri e il fonografo di Edison, con tutti i successivi perfezionamenti, continuarono ad essere usati fino al 1950. Il registratore a nastro venne utilizzato nelle ricerche su campo soltanto a partire dai primi anni Cinquanta.

30 Gli archivi e i primi centri di studio
Lo sviluppo logico della disciplina avvenne a cavallo del secolo con la fondazione di archivi per conservare le registrazioni. Il primo fu quello di Vienna, fondato nel 1899 e pienamente attivo a partire dal 1901. Il Musée Phonographique della Société d’Anthropologie di Parigi fu fondato nel 1900, mentre Carl Stumpf iniziò nel 1900 la raccolta che doveva portare alla costituzione dell’archivio presso l’Istituto di Psicologia dell’Università di Berlino nel 1905, diretto da Erich von Hornbostel dal 1905 al 1933. Il fatto che attorno all’archivio si sviluppò un centro di ricerca, e le vaste relazioni di Hornbostel con ricercatori di tutto il mondo, conferirono un ruolo di guida all’archivio berlinese. Sia prima sia dopo la Prima guerra mondiale i vasti studi sugli indiani condotti dagli antropologi statunitensi prevedevano anche registrazioni musicali come parte della documentazione su una certa cultura. I primi esempi sono le registrazioni di Franz Boas [...] di Livingstone Farrand [...], di Frank Speek [...] e di Joseph K. Dixon che furono raccolte — insieme a quelle di altri ricercatori fra i quali Fewkes di cui si è detto — nell’American Museum of Natural History fin dal [...].

31 A Mosca fu istituita una Commissione musico-etnografica nel 1901, che aveva come principale obiettivo quello di registrare e trascrivere scientificamente i canti popolari russi e la musica tradizionale di altre nazionalità nell’immenso impero sovietico. [....] Gli archivi e gli studiosi che li dirigevano, divennero presto centri propulsori di progetti di ricerca anche negli altri continenti, mentre la disciplina si affermava in campo internazionale: Hornbostel presiedette sessioni di Musicologia comparata durante i convegni della Società Internazionale di Musicologia a Vienna (1909), Londra (1911) e Parigi (1914). Dopo il 1918 l’attività dell’archivio di Vienna andò declinando, mentre quella di Berlino s’allargò. Negli USA, grazie specialmente all’attività di Franz Boas alla Columbia University e di Edward Sapir a Yale, s’intensificarono gli studi fra gli indiani americani e gli eschimesi [...]. In Polonia vennero istituiti due importanti centri per la conservazione delle registrazioni a Poznan e a Varsavia.

32 Durante la prima metà del secolo musicologi che desideravano ampliare le loro conoscenze al di là dei repertori della musica occidentale colta e antropologi che desideravano approfondire l’aspetto musicale delle civiltà analizzate, si spinsero fino nelle zone più inospitali del globo registrando e filmando riti, cerimonie e pratiche musicali di ogni tipo. Queste campagne furono favorite dal perfezionamento dei mezzi di registrazione sia sonori sia filmici. L’ampliarsi degli studi creò le condizioni per la fondazione della prima rivista etnomusicologica (il “Journal of the International Folk Music Council”, 1949), della Società Internazionale di Etnomusicologia (1955) e dell’organo ufficiale di questa, la rivista “Ethnomusicology”.

33 Obiettivi, teorie, metodi, tecniche
I metodi e le tecniche tipici dell’etnomusicologia vengono trattati in tutti i testi “classici” della disciplina. Qui li affrontiamo dall’angolazione proposta da Alan Merriam nel terzo capitolo del suo libro (pp ), facendo citazioni, riassunti e commenti dei passi principali. Presupposti di lavoro Merriam elenca 4 presupposti comuni al lavoro di ogni etnomusicologo. Qui ne citiamo solo tre, in quanto uno si riferisce più ai compiti della disciplina che alla prassi della ricerca. 1) l’etnomusicologia mira ad avvicinarsi ai metodi scientifici, per quanto ciò sia possibile in una disciplina che si occupa del comportamento umano e dei suoi prodotti. Cosa significa «metodo scientifico» per Merriam? Per metodo scientifico intendo la formulazione di ipotesi, il controllo e la valutazione obiettiva dei dati raccolti, e il raggruppamento dei risultati al fine di pervenire a generalizzazioni definitive sul comportamento musicale che possono valere per tutti gli uomini più che per gruppi specifici di individui. Dunque il primo presupposto teorico di Merriam non mira a trovare “regole” ossia principi generali della musica, bensì ricorrenze e regolarità nei comportamenti umani. Inoltre si nota (altro presupposto teorico) la sua fiducia negli “universali”, ossia in principi generali valevoli per tutti gli uomini.

34 2) l’etnomusicologia si presenta sia come analisi sul campo che come ricerca di laboratorio; il che vuol dire che i dati vengono raccolti dall’analista tra la gente su cui si indaga, e che solo una parte di questi dati in seguito viene sottoposta ad analisi di laboratorio. I risultati dei due metodi alla fine verranno presentati in un unico studio. Benché questo presupposto appaia come un’ovvietà, a ben guardare non lo è affatto, anzi contiene una presa di posizione ben precisa e molto critica nei confronti di quegli studiosi (musicologi) che si basano sui dati etnografici raccolti da altri, oppure analizzano repertori registrati da altri. A dir la verità, non sempre quest’ultima evenienza si configura come una scorrettezza metodologica: a volte è perfino una necessità, ad esempio quando — da un punto di vista puramente musicologico — voglio “misurare” i mutamenti avvenuti nel modo di cantare una certa canzone a cinquanta-cento anni di distanza. Né questo è l’unico caso in cui ricerca su campo e lavoro a tavolino non possono essere condotti dalla stessa persona. Qualcuno può citarne altri? 3) anche se le tecniche della ricerca sul campo devono necessariamente differire da società a società e, più generalmente, tra società colte e società non-colte, il metodo di tale ricerca rimane essenzialmente lo stesso dappertutto a prescindere dalle specificità delle società analizzate. Poco più oltre, Merriam contraddice questo “presupposto”, correggendo il tiro.

35 Critiche 1) in etnomusicologia, in massima parte, non si è riusciti a comprendere ed a riconoscere il valore del metodo della ricerca sul campo, e conseguentemente non lo si è saputo applicare proficuamente. Anche se esistono delle ovvie eccezioni dobbiamo riconoscere di essere stati bloccati da due serie difficoltà. Una riguarda il fatto che gli studi sul campo sono stati presentati in termini troppo generali e troppo poco specifici; cioè sono stati progettati senza conoscere la natura e i limiti dei problemi. L’altra è che l’etnomusicologia ha dovuto sopportare la presenza del “collezionista” dilettante, privo di una conoscenza totale o parziale della disciplina. Tali collezionisti partono dal presupposto che l’unica cosa importante sia la raccolta di suoni musicali e che questi suoni musicali spesso raccolti indiscriminatamente e senza pensare, per esempio, ad una campionatura, possono essere alla fine sottoposti ad un analista di laboratorio che «ne farà qualcosa». Quali sono i problemi di una ricerca su campo? Cosa significa “campionatura” riferita ai suoni musicali?

36 2) l’etnomusicologia nel passato si è occupata della raccolta di “fatti” più che della soluzione dei problemi generali affrontabili attraverso lo studio della musica come parte della cultura umana. Questo fatto è evidente in quella parte della letteratura etnomusicologica volta soprattutto all’analisi del suono musicale senza riferimento alla sua radice culturale, alla descrizione fisica degli strumenti musicali e solo raramente a ciò che la musica è e fa nella società umana. L’etnomusicologia in questa fase si è interessata a materiali e a studi descrittivi, mettendo l’accento sul «che cosa» più che sul «perché» e sul «come» del suono musicale. Il principio cui Merriam fa appello è certamente molto nobile, al di là dell’appartenenza ad una scuola o a un’altra. Peccato che resti, appunto, una sorta di petizione di principio e non si traduca in esemplificazioni pratiche. Ad esempio, Merriam non ci dice quali siano i «problemi generali affrontabili attraverso lo studio della musica come parte della cultura umana».

37 Obiettivi, teoria, metodo, tecniche
Cercheremo qui di ordinare secondo questa successione logica le idee veramente basilari che Merriam illustra alle pp in modo alquanto contorto. Il primo problema....è il più spinoso dell’etnomusicologia: il fine dei nostri studi è la registrazione e l’analisi della musica o la comprensione di questa nel contesto del comportamento umano? Se accettiamo il primo punto di vista allora l’operatore sul campo si orienterà verso la registrazione di un campione musicale, o il trasferimento di questo in laboratorio per l’analisi. Lo scopo principale è quello di fare un’analisi strutturale e accurata della musica registrata; lo studio si basa, in primo luogo, su un approccio descrittivo che prevede la raccolta dei dati. Se, d’altro lato, il fine è capire la musica nel contesto del comportamento umano, l’operatore sul campo diviene quasi automaticamente un antropologo, perché il suo interesse non nasce più dal campione registrato ma da questioni più ampie legate all’uso e alla funzione della musica, al ruolo ed allo status dei musicisti, ai concetti che sottintendono il comportamento musicale, ed altri argomenti di questo tipo [...].

38 Il secondo problema emerge dalla differenza di finalità tra gli studi che possiamo chiamare estensivi e quelli intensivi. Per studi estensivi intendo quelli in cui l’analista che ha viaggiato in lungo e in largo senza fermarsi per molto tempo da nessuna parte, raccoglie quanto più materiale possibile, e nel più breve tempo possibile. Il risultato di tale progetto è l’accumulazione di dati relativamente superficiali e provenienti da diverse aree geografiche. L’utilità [...] consiste nel fatto che in questo modo si ha un’idea generale relativamente ad una certa zona geografica. L’analista può osservare le caratteristiche della musica ed i modi in cui le variazioni si manifestano all’interno di quell’area. Quest’approccio, laddove pervenga all’indicazione di fatti rilevanti, ci fornirà una visione di insieme e naturalmente spingerà a ricerche future più dettagliate. Con lo studio intensivo, d’altro lato, lo studioso seleziona un’area particolare e limitata e ad essa presta completa attenzione: lo scopo di questo studio consiste nell’analisi il più possibile approfondita di materiali musicali di un’area ristretta. [...] Un terzo problema [...] riguarda lo scopo ultimo di ogni studio sull’uomo. Questo scopo consiste solo nella ricerca di conoscenza a fini personali, o nel tentativo di suggerire soluzioni a problemi pratici e oggettivi?

39 L’obiettivo concreto viene individuato in base ai tre criteri appena illustrati e dopo una fase di ricerca preliminare: se non conosco la situazione in cui mi inserirò non sono in grado di individuare l’obiettivo della mia ricerca. Una volta individuato l’obiettivo la rilevanza della teoria per il metodo è un punto fondamentale. Nessun problema può essere affrontato senza aver prima affrontato le questioni teoriche generali. Herskovits ha notato che «...lo schema concettuale dello studioso influenza profondamente non soltanto la soluzione di un dato problema di campo, ma anche il modo in cui esso viene formulato ed affrontato» (Herskovits 1954, p.3). Sebbene Herskovits parli esplicitamente di metodo antropologico, e non musicologico, vale la pena rivedere i suoi esempi, specie dal momento che alcuni modi di affrontare i problemi etnomusicologici sono stati ricavati direttamente dall’antropologia.

40 Quali sono le teorie che possono guidare nella ricerca una volta individuato l’obiettivo?
Merriam, citando Herskovits, ne indica due: la prima, che viene criticata, possiamo collocarla nell’ambito teorico dello strutturalismo o comunque delle discipline “scientifiche” che tendono a ricondurre anche i fenomeni umani più complessi a fatti “misurabili”: «Il fatto più significativo era rappresentato dall’ipotesi secondo cui la cultura è un fenomeno storico che può essere capito ricostruendo i contatti fra i popoli, riflessi nelle somiglianze e nelle divergenze degli elementi componenti i rispettivi modi di vita, e considerando questi modi dei momenti distinti, così da essere studiati separatamente e da essere descritti in termini matematici» La seconda è:«la posizione teorica dei funzionalisti, per i quali la struttura di una cultura è così intrecciata che separare un singolo elemento significa fare violenza al tutto; il fine era dunque, la raccolta di materiali che rivelassero la globalità dei modelli di comportamento».

41 Una differenza dello stesso tipo si riscontra fra gli studi di coloro che accentuano il concetto di società, e quelli invece che accentuano il concetto di cultura; in questo caso i primi «....si soffermano più sui dati ottenuti in risposta al ‘che cosa?’, gli altri sulla dinamica e sui dati ottenuti in risposta al ‘perché?’». Tali differenze non stanno ad indicare che una posizione sia migliore dell’altra; ciò che importa è che l’orientamento teorico si rifletta, inevitabilmente, sul punto di vista, sul metodo, sulla formazione delle ipotesi, sul modo di risolvere i problemi, e su tutte le altre considerazioni che accompagnano il metodo e si riflettono sulle tecniche di ricerca sul campo. Quale che sia l’obiettivo della ricerca e la teoria su cui la si vuole basare, occorre in ogni caso un’attenta pianificazione e la conoscenza dei criteri che possono guidarci a stendere un buon progetto. Merriam assume qui 4 criteri di base da un saggio di Raymond V. Bowers, che si trova nello stesso volume in cui si legge il saggio di Herskovits appena citato: Criterio della praticabilità della ricerca per scongiurare l’eventualità che si perda solo tempo e fatica. [...] Lo studioso deve conoscere quanto è stato già pubblicato, inclusi i materiali che riguardano l’ipotesi particolare da lui formulata, ma anche le ricerche su culture diverse dalla sua, in particolare la letteratura etnografica. Se il progetto prevede un lavoro collettivo, vanno presi in considerazione i problemi relativi alla disponibilità del personale [...].

42 Il secondo criterio è quello della formualzione esplicita degli obiettivi; questa è un’area di cui l’etnomusicologia non si è molto curata ostacolando così la sostituzione di precisi obiettivi a dichiarazioni d’intenti vaghe e indifferenziate. [...] Bowers nota giustamente che la differenza fra formulazioni precise e formulazioni imprecise equivale alla differenza fra indagine scientifica ed indagine prescientifica. [...] Il terzo criterio è quello dell’esplicitazione metodologica della ricerca in corso [...] primo perché un risultato specifico si può raggiungere solo in seguito all’applicazione di una metodologia specifica a cui è fortemente legato; secondo perché attraverso la descrizione della metodologia «l’esperienza della ricerca può essere rivista in maniera adeguata, valutata e condivisa con altri». [...] Infine Bowers ricorda il «criterio della spiegazione dei risultati della ricerca. [...] L’obiettivo ha fatto sorgere alcune domande a cui il progetto metodologico risponde selezionando e canalizzando i dati empirici. Il lavoro del ricercatore non può dirsi concluso [se non quando ci avrà illustrato] in termini il più possibile precisi e formali, quali sono stati i risultati sia positivi che negativi del suo studio».

43 Trascrizione ed analisi acustica
La trascrizione di musica tradizionale in notazione visiva è da molto tempo considerata come compito essenziale dell’etnomusicologo. Abbiamo oggi una quantità di ‘materia prima’ proveniente dalle campagne di registrazione di buona qualità tecnica e dotato di larghe informazioni sul suo contesto; ma questa musica può essere confrontata e anlizzata con grande difficoltà finché rimane un documento sonoro su cilindro, su disco o su nastro. Per un’indagine preliminare, per la catalogazione in un archivio, per l’analisi delle strutture e per confrontare almeno quacuno dei caratteri musicali, la rappresentazione visuale è indispensabile. Tuttavia ci sono parecchi ostacoli nei confronti della trascrizione in notazione musicale convenzionale. Prima di tutto: è soggettiva. L’orecchio non afferra e non registra tutto ciò che viene eseguito, anche se la registrazione viene risentita più volte, inoltre l’acutezza di percezione dei singoli trascrittori è molto varia. Seconda ragione: la notazione occidentale non è stata concepita per rendere visibile la musica di tradizione orale. Terzo punto: nessuna notazione, neppure quella occidentale con l’aggiunta di segni speciali per le altezze non convenzionali ecc. è in grado di comunicare l’originale qualità sonora, le particolarità dello stile vocale o strumentale.

44 Sarebbe bello poter dire che questi problemi sono oggi in parte risolti grazie agli strumenti elettroacustici a disposizione degli studiosi quali l’oscillografo, il sonografo e il melografo. Il Melografo Modello C di Charles Seeger può analizzare, visualizzare e produrre un grafico permanente di 30 minuti di musica. L’analizzatore elettronico del suono produce una rappresentazione grafica di altezza, ampiezza e spettro simultaneamente. All’università di California (Los Angeles) è stato usato per studiare altezze e ambito vocali, vibrato ed altri ornamenti in particolari tradizioni. [...]. Tuttavia, benché questi strumenti siano “oggettivi”, vi sono delle contro-indicazioni nel loro uso, inoltre vi sono dei materiali che essi non possono analizzare. Da una parte essi mettono a disposizioni più informazioni di quante non siano utili alla ricerca, mentre dall’altra possono analizzare solo una linea melodica, mentre non possono trattare le polifonie strumentali e nemmeno due persone che cantano insieme. Un problema fondamentale consiste nell’equilibrare la soggettività dell’orecchio umano (dal momento che nessuno è perfetto) con l’oggettività dello strumento elettronico che percepisce più esattamente e di più di quanto non faccia l’orecchio. Di fatto la trascrizione deve essere basata su ciò che l’orecchio umano può percepire, con l’aiuto degli strumenti “oggettivi” per quegli aspetti, come le altezze instabili, che il nostro orecchio non è stato allenato a riconoscere.

45 Questo ci conduce a discutere del secondo problema fondamentale: lo scopo del trascrittore è di notare quello che è essenziale e tralasciare quello che non lo è. Ma, come si fa a sapere quello che è essenziale e quello che non lo è? Collegato a questo problema è la scelta fra una notazione molto dettagliata e una sorta di notazione schematica [che può bastare a chi conosce il repertorio e la cultura che sta trascrivendo...]. Ulteriori problemi nascono quando il trascrittore non ha partecipato alla ricerca su campo. In questo caso egli può notare soltanto quello che sente dalla registrazione, che può anche non essere ciò che l’esecutore intendeva comunicare. Quando il ricercatore è incapace di individuare una “gerarchia dei valori musicali” dagli informatori di una certa cultura, tenta di scoprire l’importanza relativa dei vari elementi stilistici sulla base della loro frequenza e della loro stabilità, piuttosto che sulla loro variabilità. Perciò è più prudente — se si lavora con materiale non conosciuto —fare una trascrizione molto dettagliata. [...] Dopo qualche decennio di lavoro con sonografi, melografi ed altri strumenti gli etnomusicologi professionisti preferiscono un adattamento della notazione tradizionale all’uso dei grafici.

46 Benché si tratti di un sistema imperfetto, è pur sempre adatto all’uso.
Gli elementi della musica vocale solistica che vengono studiati attraverso l’analisi sono: l’ambito melodico, il profilo della melodia, gli intervalli e l’ornamentazione; metro e ritmo; scala (modo) e nota finale; stile vocale. Le polivocalità e la musica strumentale vengono studiate anche per ciò che riguarda la relazione fra le parti, le consonanze verticali e gli stilemi cadenzali. Gli specialisti centro-ed-est-europei che lavorano dal 1964 nell’International Folk Music Study Group on the Analysis and Sistematization of Folk Music, stanno studiando i metodi di classificazione delle melodie popolari in uso nei vari archivi nazionali con l’obiettivo di unificarli in un possibile catalogo-tipo internazionale. Lo scopo ultimo è di rendere possibile un confronto sistematico della musica tradizionale di tutta Europa.

47 Gli strumenti Classificazione occidentale degli strumenti musicali
In genere tutti gli strumenti hanno un corpo vibrante che è il vero produttore di suono e una cassa di risonanza che serve ad amplificarlo. Le varie culture dei diversi paesi classificano i propri strumenti secondo i criteri più diversi. La musicologia occidentale li ha classificati (a partire dalla fine del secolo scorso) a seconda della natura del corpo vibrante: la terminologia usata è la seguente: Idiofoni: il suono è prodotto dal materiale stesso di cui lo strumento è costituito grazie alle sue proprietà di durezza e di elasticità. Nella maggior parte dei casi si tratta di rumori o di suoni molto mescolati ad aspetti di rumore. La sollecitazione che produce il rumore (o suono) è prodotta per percussione (gong, piatti, campane, triangoli, xilofoni, marimbe, ecc.) oppure per scuotimento (sonagli, maracas, ecc.) oppure per sfregamento, ecc. Membranofoni: il suono è prodotto facendo vibrare una membrana tesa sopra una cassa di risonanza. Appartiene a questa categoria l’innumerevole famiglia dei tamburi: di forme o dimensioni diverse, con una pelle o due pelli, battuti con le dita, con mazze di legno o di feltro, sollecitati per sfregamento, ecc. ecc.

48 Cordofoni: il suono è ottenuto per vibrazione di una o più corde
Cordofoni: il suono è ottenuto per vibrazione di una o più corde. La sollecitazione delle corde può avvenire mediante pizzico, con le dita o con un plettro (arpa, chitarra, mandolino, clavicembalo, ecc.), mediante percussione con bacchette (salterio, cetra, ecc.) o con martelletti (pianoforte), mediante sfregamento (in tutti gli strumenti ad arco come il violino o il violoncello). Aerofoni: il mezzo di produzione del suono è una colonna d’aria. La sollecitazione dell’aria (che il suonatore riesce alternativamente a comprimere e a rarefare all’interno dello strumento) può avvenire in modi diversi a seconda dell’imboccatura dello strumento stesso: nel flauto il soffio passa direttamente attraverso una fessura; negli strumenti ad ancia (zampogna, oboe, clarinetto, fagotto, saxofono, ecc.) l’aria è immessa nella canna attraverso una linguetta (o ancia) che vibrando condensa e dilata l’aria; negli strumenti a bocchino, come la tromba o il trombone, sono gli stessi muscoli delle labbra che mettono l’aria in vibrazione. Elettrofoni: il suono è ottenuto mediante oscillazioni elettriche che mettono in moto la membrana di un altoparlante.


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