REFERENDUM TRIVELLE IL 17 APRILE 2016 SI E' TENUTO IN ITALIA UN REFERENDUM ABROGATIVO INDOTTO DA NOVE CONSIGLI REGIONALI E APPOGGIATO DA NUMEROSI PARTITI.

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REFERENDUM TRIVELLE IL 17 APRILE 2016 SI E' TENUTO IN ITALIA UN REFERENDUM ABROGATIVO INDOTTO DA NOVE CONSIGLI REGIONALI E APPOGGIATO DA NUMEROSI PARTITI E ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE TRA CUI NO TRIV.

RASSEGNA STAMPA

Quando si svolge il referendum? Il referendum si svolgerà il 17 aprile. In molti chiedevano di spostare il voto a giugno, quando in diverse città italiane si terranno le elezioni amministrative, per risparmiare sull’allestimento dei seggi. La concomitanza tra amministrative e referendum avvantaggerebbe i promotori del quesito referendario, perché aumenterebbe la possibilità di raggiungere il quorum necessario affinché il referendum sia valido. Per raggiungerlo, deve andare a votare la metà degli aventi diritto. Il governo e il presidente della repubblica hanno deciso di convocare il referendum abrogativo il 17 aprile. La legge (decreto 98 del 2011) non prevede che le elezioni possano svolgersi in concomitanza con un referendum. Cosa chiede il quesito referendario? Nel quesito referendario si chiede: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”. Il quesito riguarda solo la durata delle trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa, e non riguarda le attività petrolifere sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una distanza superiore alle 12 miglia dalla costa (22,2 chilometri). Quali effetti può avere il sì al referendum? Se vincerà il sì, sarà abrogato l’articolo 6 comma 17 del codice dell'ambiente, dove si prevede che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente. La vittoria del sì bloccherà tutte le concessioni per estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa italiana, quando scadranno i contratti. Tra gli altri saranno interessati dalla misura: il giacimento Guendalina (Eni) nell’Adriatico, il giacimento Gospo (Edison) nell’Adriatico e il giacimento Vega (Edison) davanti a Ragusa, in Sicilia. Non saranno interessate dal referendum tutte le 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare italiano per estrarre petrolio o metano. Perché il raggiungimento del quorum è necessario? Raggiungere il quorum è necessario perché solo così il risultato del referendum sarà valido, come previsto dall’articolo 75 della costituzione italiana. Per essere valido devono andare a votare il 50 per cento degli aventi diritto.

Perché è rimasto in piedi solo un quesito referendario su sei? Nel settembre del 2015 Possibile, il movimento fondato da Giuseppe Civati, aveva promosso otto referendum, ma non era riuscito a raccogliere le 500mila firme necessarie (secondo l’articolo 75 della costituzione) per chiedere un referendum popolare. Poche settimane dopo dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) hanno promosso sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. L’Abruzzo si è poi ritirato dalla lista dei promotori. A dicembre del 2o15 il governo ha proposto delle modifiche alla legge di stabilità sugli stessi temi affrontati dai quesiti referendari, per questo la cassazione ha riesaminato i quesiti e l’8 gennaio ne ha dichiarato ammissibile solo uno, perché glialtri sette sarebbero stati recepiti dalla legge di stabilità.A questo punto sei regioni (Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania) hanno deciso di presentare un conflitto di attribuizione alla corte costituzionale riguardo a due referendum, tra quelli dichiarati decaduti dalla cassazione. I consigli regionali contestano al governo di aver legiferato su una materia che è di competenza delle regioni in base all'articolo 117 della costituzione, modificato dalla riforma costituzionale del Il 9 marzo la consulta valuterà l'amissibilità del conflitto di attribuzione. Se il conflitto sarà valutato ammissibile, allora la corte entrerà nel merito.

Se la corte costituzionale accogliesse i ricorsi delle regioni, i due quesiti referendari in precedenza non ammessi tornerebbero a essere validi e dovranno essere sottoposti agli elettori. I due quesiti riguardano il “piano delle aree” (ossia lo strumento di pianificazione delle trivellazioni che prevede il coinvolgimento delle regioni, abolito dal governo con un emendamento alla legge di stabilità) e la durata dei titoli per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi liquidi e gassosi sulla terraferma.

Il referendum sulle trivelle spiegato da chi l'ha scritto L’intenzione dei promotori del referendum del prossimo 17 aprile è chiara: fermare le trivellazioni e mettere fine alla ricerca e all’estrazione di petrolio e gas nei mari italiani, almeno entro il limite di 12 miglia nautiche che definisce le acque territoriali. L’intenzione è esplicita, e rimanda a questioni di fondo: la politica energetica del paese, gli impegni assunti dall’Italia per limitare le emissioni di gas di serra che alterano il clima, la sua politica industriale. Se puntare sui pochi giacimenti di gas e di petrolio italiani, o piuttosto su altre risorse: turismo, agricoltura, beni culturali, protezione ambientale. Ma un referendum non può proporre scelte così articolate, può solo abrogare delle norme esistenti. Certo potrebbe dare un segnale politico, esprimere un volere dei cittadini. Allora vediamo: chi propone di fermare le trivelle e perché. E, soprattutto, che effetto avrebbe un sì. Il testo di un referendum è sempre complicato: “Volete voi che sia abrogato” l’articolo tale, comma tale, terzo periodo, della legge tale, limitatamente alla tale frase. La frase da abrogare in questo caso è “per la durata di vita utile del giacimento”. Riguarda la durata delle concessioni (i “titoli”) per estrarre idrocarburi. I titoli di norma sono concessi per trent’anni; la compagnia concessionaria può chiedere una prima proroga di dieci anni e altre due di cinque ciascuna. La legge di stabilità 2016, però, parla di “vita utile” del giacimento, che significa allungare una concessione in modo indefinito.

“Se vince il sì, quella frase sarà cancellata”, spiega Enzo di Salvatore, professore di diritto costituzionale all’università di Teramo: è stato lui a scrivere il quesito. “In quel caso le piattaforme oggi attive continueranno a lavorare fino alla normale scadenza della concessione, o dell’eventuale proroga già ottenuta, ma poi nessuna nuova proroga, andranno smantellate”. Ma non succederà come con il referendum sull’acqua? Tre anni fa 27 milioni di italiani hanno votato a favore dell’acqua pubblica, contro la privatizzazione dei servizi idrici. Il messaggio era chiaro, però poi non è cambiato molto: Napoli è l’unica città che ha deciso di attuarlo, trasformando l’azienda idrica in un’azienda di diritto pubblico; altrove è rimasto tutto come prima. “In questo caso il risultato sarà concreto e immediato”, insiste Di Salvatore: non c’è ambiguità possibile, votare sì significa che “la vita delle piattaforme non si potrà allungare all’infinito”, le attività petrolifere andranno a scadenza. Che questo basti a fermare le trivelle è un altro discorso. Il referendum è stato promosso nel settembre 2015 da dieci regioni italiane (rimaste in nove quando l’Abruzzo si è defilato), che hanno accolto gli appelli di un coordinamento No triv e di un gran numero di associazioni, tra cui le storiche organizzazioni ambientaliste nazionali e molte locali. In realtà i promotori un risultato l’hanno già ottenuto. In origine infatti i quesiti erano sei, tutti dichiarati ammissibili dalla corte costituzionale. Avremmo votato per esempio anche per cancellare tre norme introdotte dalla legge sblocca Italia del governo di Matteo Renzi: quella che definisce “strategica” l’attività petrolifera, una norma sugli espropri e una sulle competenze delle regioni. In teoria, oggi sul territorio italiano si può trivellare quasi ovunque Questi quesiti sono caduti, perché le richieste sono già soddisfatte da alcuni emendamenti alla legge di stabilità 2016, approvati dal parlamento nel novembre scorso. In questo senso i promotori del referendum hanno già segnato un punto. Gli idrocarburi non hanno più il carattere di “strategicità, indifferibilità e urgenza” che comportava procedure accelerate e poche garanzie di consultazione per gli enti locali. È saltato il “vincolo preordinato all’esproprio”, per cui anche solo una concessione per la ricerca faceva scattare l’esproprio dei terreni. Ed è scomparsa la norma che consente al ministero per lo sviluppo economico (Mise), cioè al governo, di sostituirsi alle regioni per autorizzare progetti di idrocarburi e delle infrastrutture relative: “Il governo non potrà più decidere unilateralmente; dovrà riunire le regioni interessate e cercare un compromesso”, continua il costituzionalista. Un altro quesito è saltato perché si riferiva a un “piano delle aree”, poi abolito. Secondo le vecchie norme, il ministero dello sviluppo economico, sentito quello dell’ambiente e gli enti locali, doveva stabilire dove si può consentire la ricerca e l’estrazione di idrocarburi e dove no: nelle zone sismiche o protette o interessate da agricoltura di pregio o densamente abitate, e così via. I promotori del referendum volevano bloccare nuovi permessi di ricerca sulla terraferma finché il piano delle aree non fosse stato definito. Nella legge di stabilità 2016 però il piano stesso è scomparso. In teoria, oggi sul territorio italiano si può trivellare quasi ovunque. Il ricordo dell'acqua pubblica

Un sistema di pozzi, raffinerie, infrastrutture Dunque il 17 aprile andremo a votare sull’unico quesito rimasto in piedi. Il ministero per lo sviluppo economico ha chiarito che riguarda 135 piattaforme oggi attive, “ma il numero di concessioni è minore perché ognuna può comprendere più piattaforme”, precisa il costituzionalista: sono una quarantina. Enzo Di Salvatore si è appassionato alla questione degli idrocarburi alcuni anni fa, dice, quando il Partito democratico abruzzese gli ha chiesto una consulenza per una legge regionale: “Ho scoperto che gli ultimi studi giuridici in materia risalgono agli anni sessanta, abbiamo molte lacune dal punto di vista del diritto minerario”. Erano i tempi di Enrico Mattei e dei primi pozzi di gas in val Padana o del petrolio a Gela, in Sicilia. In effetti, solo all’inizio di questo secolo gli idrocarburi sono tornati d’attualità in Italia, quando i successivi governi hanno cominciato a dare permessi di ricerca, offshore e sulla terraferma. I progetti si sono concentrati in Abruzzo e Basilicata: “In Abruzzo c’è stata la battaglia contro il Centro oli che ha bloccato grandi sviluppi dell’industria petrolifera. In Basilicata non è stato così e sono nati i pozzi della val D’Agri”, osserva Di Salvatore. “Ma non guardate il singolo progetto: petrolio e gas sono un sistema che comprende pozzi, raffinerie e varie infrastrutture”. Le riserve di idrocarburi italiane coprirebbero il fabbisogno per 13 mesi. Gli effetti dell’estrazione invece sono duraturi. Le ragioni dei promotori del referendum sulle trivelle sono numerose e diverse. Le scelte energetiche: durante la recente conferenza dell’Onu sul clima, a Parigi, “l’Italia si è impegnata a cominciare una ‘transizione’ verso le energie rinnovabili e l’uscita dai combustibili fossili per contenere il riscaldamento globale. Ma non sta facendo proprio nulla in questa direzione”, dice Stefano Lenzi del Wwf nazionale. I critici delle trivelle spiegano che i giacimenti italiani sono poca cosa, e del tipo più “sporco”, con alto contenuto di sostanze sulfuree. Le riserve certe nei nostri fondali marini ammontano a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, secondo le valutazioni del ministero dello sviluppo economico: stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per appena sette settimane. Sommando le riserve su terraferma si arriverebbe a 13 mesi. Più consistenti quelle di gas che arrivano a 53,7 milioni di metri cubi. Diciamo che sul bilancio energetico non inciderebbero molto. Gli effetti dell’estrazione invece sono duraturi. La costa adriatica per esempio vive di turismo, “ma pensate che i turisti continueranno a venire se gli riempiamo il mare di trivelle?”, chiedeva il presidente del consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, presentando la campagna referendaria insieme ai colleghi (il 7 marzo a Roma). Il turismo in Italia occupa tre milioni di persone e produce il 10 per cento del pil nazionale, fanno notare i promotori. Si aggiungano pesca, agroalimentare, e la gestione del patrimonio culturale: industrie consolidate messe a repentaglio dalla ricerca di idrocarburi.

Poi gli effetti ambientali. Le ricerche in mare sono fatte con la tecnica chiamata air gun, “fucile ad aria compressa”, che significa sparare bolle d’aria in modo ripetuto e alta frequenza sui fondali, come esplosioni, per provocare onde d’urto (si usa nelle prospezioni geosismiche). L’impatto sulla fauna marina è perlomeno controverso. Nell’alto Adriatico inoltre c’è il rischio di “subsidenza”: estrarre il gas provoca un forte rischio che i fondali sprofondino, per la laguna veneta sarebbe il colpo finale (per questo in effetti in quella zona vige già una moratoria sull’estrazione). Ancora, un recentissimo studio Greenpeace documenta l’inquinamento delle piattaforme nell’Adriatico.

Paradossi del partito di maggioranza Il referendum sulle trivelle “dovrebbe sollecitare un ripensamento della politica industriale nel paese”, aggiunge Maurizio Marcelli, responsabile del dipartimento salute e sicurezza del lavoro della Fiom-Cgil: il sindacato dei metalmeccanici è nel comitato per il sì al referendum sulle trivelle. “Non è vero che se vince il sì si perdono posti di lavoro”, continua Marcelli. Le piattaforme non danno poi molto lavoro, e comunque “solo nella fase della trivellazione: poi lavorano tutto in remoto”. Certo, ci sarebbero un po’ di posti di lavoro nell’indotto, “ma sarebbero ampiamente compensati dal lavoro che si potrebbe creare investendo nelle energie rinnovabili e in settori industriali compatibili”, continua il dirigente sindacale. Così torniamo al punto: il referendum sulle trivelle rimanda a scelte di fondo sulla politica industriale, energetica. “Ma non vediamo un grande dibattito”. Del referendum sulle trivelle si parla ben poco. Il governo ha scelto di non accorparlo alle elezioni amministrative (sarebbe stata necessaria una legge apposita, come è avvenuto in altri casi): i promotori ammettono che raggiungere il quorum è una sfida difficile. Poi c’è la solita confusione tra sì e no: vota sì se non vuoi le trivelle, e viceversa. L’informazione sul referendum intanto viaggia soprattutto sui social media. Per una strana ironia, finora il referendum contro le trivelle ha fatto notizia soprattutto quando nel partito che guida il governo si solo levate voci che chiamano a non votare, suscitando polemiche: un governo invita i cittadini a non esercitare un diritto democratico. Paradossale: molte tra le regioni che hanno promosso quel referendum sono governate da quello stesso partito.

Archiviato il referendum sulle trivelle, con il 31,19% dei voti, la norma che regola le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio in maree non viene abrogata. Tutto resta come prima. Vediamo, dunque, cosa accade ora. Il fallimento del quesito referendario riguarda solo gli impianti esistenti, entro 12 miglia dalla costa. Le piattaforme esistenti (guà autorizzate) possono proseguire la loro attività, estraendo gas e petrolio senza limiti di tempo, oltre la scadenza iniziale prevista dalle concessioni e cancellata dalla norma voluta dal governo con la legge di Stabilità. Possono inoltre andare avanti tutte le attività di ricerca di idrocarburi già autorizzate. Uno degli obiettivi del referendum era rimettere un limite temporale ai giacimenti, nella speranza che, una volta scadute, le concessioni non venissero rinnovate. Ma con il fallimento del quorum le attività possono andare avanti per tutta la "durata di vita utile del giacimento". Facendo disinformazione qualcuno ha fatto circolare la tesi in base alla quale con il fallimento del referendum ci sarebbe stato un via libera senza condizioni alle trivelle, sia in mare che nella terra ferma. Ma non è vero. Il quesito referendario, infatti, faceva riferimento solo alle concessioni già esistenti in mare, nell'Adiatico, nello Ionio e nel Canale di Sicilia. Le piattaforme autorizzate possono andare avanti. Sono vietate, invece, le nuove concessioni entro 12 miglia dalla costa, così come nelle aree marine e costiere protette. Il divieto esisteva già e non è mai stato messo in discussione dal referendum. Nessun cambiamento anche per la possibilità di realizzare nuove piattaforme oltre il limite delle 12 miglia marine. Solo alcune regioni (Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Molise, Calabria e Sicilia) avranno piattaforme a 12 miglia dalla costa. In totale le piattaforme esistenti oggi in Italia sono 131, novanta delle quali entro le 12 miglia. Le concessioni in mare sono invece sessantanove: 44 sono state quelle oggetto del referendum. Trentanove di esse estraggono gas, 4 petrolio e solo una sia gas che petrolio. Una volta le concessioni per gas e petrolio duravano 30 anni e potevano essere prorogate per più volte (inizialmente 10 anni, poi 5). La Legge di Stabilità 2016 ha cancellato i limiti temporali: ora un giacimento può restare operativo senza limiti. Il referendum ha tentato di cancellare questa situazione, ma gli italiani hanno deciso di far restare le cose così come deciso da governo e parlamento.

Ecco nel dettaglio i testi costituzionali che regolano i referendum in Italia: ABROGATIVO - Articolo 75 Cost. "È indetto il referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali [...] La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi". COSTITUZIONALE - Articolo 138 Cost. "[...] Le leggi stesse (di revisione costituzionale) sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti". TERRITORIALE - Articolo 132 Cost. "Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d'abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse [...]"

IL PRIMO REFERENDUM CUI GLI ITALIANI SONO STATI CHIAMATI A VOTARE E' STATO Referendum ISTITUZIONALE IL Referendum ISTITUZIONALE DEL 2 GIUGNO 1996

QUALI SONO STATI I REFERENDUM ABROGATIVI PIÙ FAMOSI?

È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati, ovvero tutti i cittadini che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età e dispongano dei diritti politici.

L’elettore, per votare, deve esibire al presidente del seggio la tessera elettorale ed un documento di riconoscimento. L’elettore riceve da un componente del seggio 4 schede di diverso colore: Il voto “SI”, tracciato sulla scheda, indica la volontà di abrogare la normativa richiamata dal quesito referendario. Il voto “NO”, tracciato sulla scheda, indica la volontà di mantenere la vigente normativa richiamata dal quesito referendario. COME SI VOTA?