LA FASE DI TRATTAZIONE nel giudizio ordinario di cognizione

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Transcript della presentazione:

LA FASE DI TRATTAZIONE nel giudizio ordinario di cognizione Scuola Superiore della Magistratura Villa di Castel Pulci – Scandicci (Firenze) 11 ottobre 2016 LA FASE DI TRATTAZIONE nel giudizio ordinario di cognizione Relatore: Stefano Tarantola (Giudice del Tribunale di Milano)

L’ONERE DI ALLEGAZIONE Allorché si parla di onere di allegazione ci si riferisce normalmente all’onere gravante al riguardo sull’attore. Il medesimo onere peraltro compete a ogni altra parte che svolga in giudizio una domanda, anche in via riconvenzionale. La domanda deve contenere l’allegazione di: elementi di descrizione del petitum (“… determinazione della cosa oggetto della domanda”, art.163 co.2° n.3 c.p.c.); fatti ed elementi di diritto sui cui viene fondata la domanda (“… fatti e … elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda …”, art.163 co.2° n. 4 c.p.c.).

Il corretto adempimento dell’onere di allegazione in capo a chi svolge una domanda in giudizio consente: l’esercizio del diritto di difesa alle parti nei cui confronti è svolta la domanda; la conoscenza del thema decidendum al Giudice. L’allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda è nella completa disponibilità della parte (principio della disponibilità dell’oggetto del processo), salve le materie in cui interviene un interesse pubblico. Il Giudice non può, conseguentemente, sostituirsi alla parte che non abbia assolto l’onere di allegazione a suo carico. Solo ove ravvisi la nullità della citazione per omessa o assoluta incertezza del petitum (art.163 co.3 n.3 c.p.c.) o per mancata esposizione dei fatti di cui all’art. 163 co.3 n.4 c.p.c., deve provvedere ai sensi dell’art.164 c.p.c..

ONERE DI CONTESTAZIONE E PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE Quando l’attore ha correttamente assolto all’onere di allegazione a suo carico, sorge in capo al convenuto un onere di contestazione. La mancata contestazione, da parte del convenuto, di quanto allegato dall’attore, comporta che, «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione … i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita» (art.115 co.1° c.p.c.). La contestazione, da parte del convenuto, dei fatti allegati dall’attore deve essere specifica e non generica.

L’onere di contestazione sussiste in relazione ai soli fatti noti alla parte contro la quale tali fatti sono allegati. Non sussiste un onere di contestazione dei fatti non conosciuti dalla parte. In mancanza di contestazione dei fatti allegati a fondamento della domanda, ovvero in caso di genericità della contestazione, il giudice dovrà considerare i fatti non contestati come acquisiti al processo ai fini della decisione (art.115 co.1° c.p.c.).

L’onere di contestazione si estende a tutte le parti nei cui confronti sia svolta una domanda in giudizio, tranne che al contumace. L’onere di contestazione grava solamente sulla parte costituita. Il contumace non subisce conseguentemente gli effetti del principio di non contestazione. Ove il convenuto sia rimasto contumace ,l’attore non potrà beneficiare del principio di mancata contestazione, restando quindi a suo carico l’intero onere di prova dei fatti allegati a fondamento della domanda svolta in giudizio.

IL FATTO NOTORIO Il fatto notorio è generalmente indicato come un fatto di comune esperienza, generalmente conosciuto in un determinato contesto territoriale e sociale, e noto alle parti ed al giudice. Il fatto notorio non richiede che ne sia fornita la prova in giudizio, ma può essere posto dal giudice a fondamento della decisione (art.115 co.2° c.p.c.).

Le difese svolte in giudizio si distinguono in : QUESTIONI RILEVABILI D’UFFICIO O AD ISTANZA DI PARTE ECCEZIONI IN SENSO STRETTO ED ECCEZIONI IN SENSO LATO Le difese svolte in giudizio si distinguono in : mere difese, dirette a contestare l’esistenza dei fatti costituitivi del diritto vantato da chi ha svolto la domanda in causa, eccezioni (art.2697 c.c.), svolte con l’allegazione di fatti idonei a privare di efficacia, modificare o estinguere il diritto vantato da chi ha svolto domanda. L’art.2697 c.c., dispone che l’onere di provare i fatti posti a fondamento delle eccezioni è posto a carico di chi svolge l’eccezione. L’art.112 co.2 c.p.c. stabilisce, a sua volta, che il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti. Con riguardo a queste ultime si individua la categoria delle eccezioni in senso stretto.

LA MODIFICA DELLE DOMANDE E I TERMINI DI CUI ALL’ART.183 co.6° c.p.c. I termini di cui all’art.183 co.6° c.p.c. devono essere richiesti dalle parti. Tali termini non possono essere assegnati d’ufficio dal giudice. I termini di cui all’art.183 co.6° c.p.c. sono perentori. Il giudice può negare l’assegnazione dei termini di cui all’art.183 co.6° c.p.c. ove ritenga che sussistono i presupposti per invitare le parti alla precisazione delle conclusioni assegnando in decisione la causa alla medesima udienza (Cass.Sez.3 n.4767/2016)

Con la prima memoria di cui all’art. 183 co. 6° c. p. c Con la prima memoria di cui all’art.183 co.6° c.p.c. possono essere modificate le domande ed eccezioni delle parti. La modificazione può riguardare il petitum o la causa petendi, o anche entrambi (Cass.Sez.Un. n.2310/2015). La domanda modificata deve essere sempre connessa ai fatti materiali allegati in giudizio (Cass.Sez.Un. n.2310/2015.

I TERMINI PROCESSUALI E LA RIMESSIONE IN TERMINI La previsione di un termine comporta l’individuazione di un periodo di tempo stabilito per il compimento di un atto processuale. Tale previsione risponde all’esigenza di regolare la durata del processo e di consentire l’esercizio del diritto di difesa. Si distingue solitamente tra termini con natura acceleratoria (quando sono fissati affinché un atto sia compiuto entro il termine indicato) e termini con natura dilatoria (quando sono fissati affinché un atto debba essere compiuto solo dopo il termine fissato)

I termini si distinguono in: termini perentori, al decorso dei quali consegue la decadenza dalla facoltà o dal potere di compiere un atto del processo; i termini perentori non sono abbreviabili e non sono prorogabili, neanche con l’accordo delle parti (art.153 c.p.c.); la perentorietà di un termine è stabilita dalla legge (art.152 co.2° c.p.c.); ove la parte dimostri di essere incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile, può richiedere la rimessione in termini, ed il giudice deve provvedere ai sensi dell’art.294 co.2° c.p.c. (art.153 co.2° c.p.c.); termini ordinatori, la cui mancata osservanza non comporta decadenza dal potere di compiere un atto.

I termini ordinatori possono essere abbreviati o prorogati dal giudice (art.154 c.p.c.). Per il computo dei termini, se stabili in mesi o anni, si considera il calendario comune (art.155 co.2° c.p.c.). Per il computo dei termini stabiliti in giorni si applica la regola dies a quo non computatur (art.155 co.1° c.p.c.), computandosi, al contrario, il dies ad quem. Nel computo rilevano i giorni festivi. Se è festivo il giorno di scadenza, quest’ultima è prorogata ex lege al primo giorno successivo non festivo (art. 155 co.3° e 4° c.p.c.). Tale regola si applica anche per i termini fissati per il compimento di atti processuali che scadono nella giornata di sabato (art. 155 co.5° c.p.c.). I termini sono sospesi di diritto dal 1° al 31 agosto di ogni anno (art.1 L.7.10.1969 n.742 come, da ultimo, modificata con D.L. n.132/2014, conv. in L.162/2014)

GRAZIE PER L’ATTENZIONE E BUON LAVORO!