PROMESSI SPOSI CAPITOLO I
Personaggi: Luoghi: Tempo: Temi: Trama: Don Abbondio, i bravi, Perpetua Il paese di Renzo e Lucia 7 novembre 1628, sera La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Descrizione dei luoghi del romanzo. Don Abbondio incontra i bravi, che lo minacciano di non celebrare il matrimonio. La giustizia e le gride. Descrizione del curato. Don Abbondio torna a casa e rivela tutto a Perpetua, che gli dà i suoi consigli. Il curato impone alla donna di non riferire nulla di quel che sa.
Inizio del romanzo: i luoghi della vicenda Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra due catene montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume, specie nel punto dove le due rive sono unite dal ponte di Lecco. Poco più a valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S. Martino e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli, mentre tutt'intorno vi sono vigne e campi coltivati. Lecco è la città principale di questa regione ed è sede, al tempo della vicenda narrata, di un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non depredano i raccolti della vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così come tra le varie colline, si snodano strade che talvolta scendono fra due muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni, consentendo a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto mostrano il profilo variabile delle cime dei monti che tempera e raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura.
Don Abbondio incontra i bravi F. Gonin, I bravi Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di anime del purgatorio: qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni, con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei bravi.
I bravi, le gride, la giustizia Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583, emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627, quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia.
I bravi minacciano don Abbondio F. Gonin, Don Abbondio e i bravi Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante. Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il curato eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie. Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare, mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio prende la strada che conduce alla sua abitazione.
Ritratto di don Abbondio F. Gonin, Don Abbondio e don Rodrigo Il curato, evidentemente, non è un uomo molto coraggioso e questa è una misera condizione in tempi come quelli in cui gli tocca vivere, in cui la legge e la giustizia non offrono alcuna protezione contro i soprusi. Le leggi non mancano e sono anzi sovrabbondanti, ma non vengono praticamente mai applicate e l'impunità è profondamente radicata nella società: i malfattori trovano asilo nei conventi, sono protetti dai loro padroni e dai privilegi nobiliari, cosicché le gride minacciano pene che non trovano esecuzione e i delitti si moltiplicano. Gli uomini chiamati a far rispettare le leggi sono impotenti, pavidi o spesso conniventi con i criminali che dovrebbero contrastare, per cui accade non di rado che siano gli uomini onesti e tranquilli ad essere perseguitati dalla giustizia. Alcuni si riuniscono in leghe, associazioni e corporazioni, per scopi leciti o illeciti, ma queste non hanno sempre un grande potere e, specie nelle campagne, un signorotto circondato da una masnada di bravi senza scrupoli può esercitare un dominio quasi tirannico sul paese. Don Abbondio non è ricco, né nobile, né coraggioso, quindi ha accettato volentieri in gioventù di diventare prete come volevano i suoi genitori, non per sincera vocazione ma per entrare in una classe agiata e dotata di alcuni privilegi. Non prende mai parte alle contese e, se costretto a prendere posizione, si schiera sempre col più forte; deve ingoiare molti bocconi amari e a volte sfoga il suo malanimo contro gli individui più deboli da cui non ha nulla da temere, criticando sempre aspramente quei religiosi che si battono contro le ingiustizie e le vessazioni. L'incontro coi bravi lo ha sconvolto e ora, mentre torna a casa, pensa come uscire d'impiccio: dovrà dare spiegazioni a Renzo, che sa essere una testa calda, e tra sé inveisce contro lui e Lucia che, a suo dire, hanno il torto di volersi sposare e di metterlo nei pasticci. È irritato anche contro don Rodrigo, che conosce solo di vista e che ha spesso difeso e definito un nobile cavaliere, ma contro il quale ora in cuor suo emette giudizi assai meno lusinghieri. Mentre è immerso nei suoi pensieri, il curato giunge alla sua casa in fondo al paese ed entra richiudendo subito la porta.
Il Griso e i bravi penetrano nella casa delle due donne F. Gonin, Don Abbondio e Perpetua Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce essendo rimasta zitella e sopportando i brontolii dei suo padrone, il quale a sua volta subisce i suoi. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni, ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva gli dà non senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così alla fine il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi con qualcuno; Perpetua inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo, quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta l'idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena, benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su di sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende il lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola dell'accaduto.
Temi principali e collegamenti Il capitolo si apre con un'ampia descrizione paesaggistica, che è tra le pagine più famose del romanzo e delinea un quadro dei luoghi della vicenda che utilizza la tecnica cinematografica dello "zoom" (l'autore parte con uno sguardo dall'alto, che abbraccia il lago di Como nel suo complesso, per poi stringere via via l'inquadratura sino a descrivere le "stradicciole" su una delle quali compare don Abbondio). È stato osservato che Manzoni tratteggia qui il quadro di una natura quasi incontaminata, una dimensione contadina che contrasta con quella caotica e malsana della città: ciò vale soprattutto per Milano, che sarà descritta in termini assai più negativi. Un altro celebre passo simile è quello noto come "Addio, monti...", che chiude il cap. VIII, e in entrambi è evidente la perfetta conoscenza da parte dell'autore dei luoghi, oltre che la carica affettiva che pone nella descrizione di essi. Nel testo sono presenti due ampie digressioni, la prima dedicata alle gride e all'inefficienza della giustizia nella Lombardia del XVII secolo (che spiega chi erano i bravi e quanto fossero pericolosi), la seconda che amplia lo stesso concetto descrivendo l'impotenza e la corruzione dell'apparato giudiziario. Il quadro che emerge è quello di uno Stato, il Ducato di Milano sotto gli Spagnoli, in cui le leggi sono del tutto inefficaci in quanto troppo numerose, inapplicate e piene di minacce che non sortiscono alcun effetto e, anzi, paradossalmente moltiplicano i delitti e i soprusi. Il segno più evidente di questa inefficienza giudiziaria è proprio la serie infinita di provvedimenti che ampliano via via le pene comminate, di cui Manzoni propone varie citazioni autentiche mettendone in risalto con ironia il linguaggio pomposo e altisonante (lo stesso dell'immaginario "scartafaccio" dell'Introduzione), nonché la sfilza di titoli senza valore dei governatori di Milano che quei provvedimenti emanavano. È anche una critica contro il malgoverno e la corruzione dei funzionari spagnoli di quel periodo, nonché all'inefficacia dei sistemi giudiziari in cui le leggi sono troppo numerose e mancano di concreta applicazione.
Temi principali e collegamenti Il capitolo costituisce il secondo tempo della "notte degli imbrogli" in cui avviene il fallito stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e il mancato rapimento di Lucia, che sfugge ai bravi proprio perché è andata dal curato insieme agli altri. Le vicende sono narrate dall'autore con la tecnica del flashback, dal momento che all'inizio viene descritta l'azione a casa di don Abbondio, in seguito si torna indietro al momento in cui il Griso e i bravi penetrano nella casetta delle due donne e sopraggiunge Menico, per poi tornare ancora indietro al momento in cui Agnese e Perpetua sono sorprese dal grido del curato, dalle campane e poi dall'urlo di Menico. La concitazione domina largamente l'episodio, anche in seguito all'accorrere disordinato della folla dei paesani, mentre solo alla fine prevale un ritmo più disteso (quando i tre giungono al convento di padre Cristoforo). Lo stratagemma attuato dai due promessi sposi, anche se legalmente scorretto e dunque in parte condannato dall'autore, è comunque ciò che consente di sventare il rapimento, poiché le due donne sono assenti all'arrivo dei bravi e in seguito lo scampanio provoca la fuga dei malviventi, salvando probabilmente la vita a Menico (il ragazzo giungerebbe troppo tardi a dare l'allarme ad Agnese e Lucia). Padre Cristoforo non ne saprà mai nulla, mentre Lucia confesserà tutto al cardinal Borromeo, il quale avrà parole di conforto e dirà alla giovane che non deve accusare se stessa dopo tutte le sofferenze patite (cap. XXIV). Dopo il travestimento del Griso nel cap. VII, in cui si era spacciato per un mendicante ed era entrato in casa di Agnese e Lucia, qui il criminale si finge un pellegrino per ottenere lo stesso scopo, indossando un "sanrocchino" (il mantello indossato dai pellegrini dal nome del loro protettore, S. Rocco) e impugnando un "bordone", il classico bastone usato da chi si metteva in pellegrinaggio (il bastone e le conchiglie di cui è cosparso il mantello sono attribuzioni di San Giacomo, il cui sepolcro a Compostella è da secoli meta di pellegrinaggi). È appena il caso di sottolineare il carattere ironico e vagamente blasfemo di questo travestimento, che tuttavia confonde le idee ai paesani che l'hanno visto nei momenti dell'azione. Le campane a martello venivano suonate nei villaggi di una volta per richiamare l'attenzione dei paesani in caso di emergenza (un incendio, un assalto di predoni o nemici, un'altra calamità...) e l'uso è attestato largamente in Italia fino alla prima metà del XX secolo. La folla dei compaesani di don Abbondio e dei due promessi è sollecita ad accorrere alla chiesa, ma appare disorganizzata e tumultuosa nel decidere il da farsi e, soprattutto, fin troppo rapida a disperdersi quando si sparge la falsa voce secondo cui Agnese e Lucia si sono messe in salvo (il console, ovvero il magistrato che svolge le funzioni di un sindaco, è un pessimo "capitano" e il giorno seguente viene minacciato dai bravi perché non sollevi scandali sull'accaduto). In ogni caso la rappresentazione degli abitanti del paese è positiva e la loro condotta è improntata alla solidarietà reciproca, il che non si potrà certo dire della popolazione della città di Milano durante la peste. Il luogo dove Agnese e Lucia dovranno rifugiarsi in seguito alla fuga dal paese è qui indicato con degli asterischi, attribuiti alla consueta finzione della reticenza dell'anonimo, ma l'autore nel cap. IX spiegherà chiaramente che si tratta di Monza, ovvero la città dove sorge il convento in cui è presente Gertrude e in cui troveranno riparo le due donne. Il passo che conclude il capitolo è il cosiddetto "Addio, monti...", ovvero la celebre pagina in cui Manzoni attribuisce a Lucia in partenza un commosso saluto ai luoghi dove è nata e vissuta, dai quali deve forzatamente separarsi con inevitabile sofferenza: è un grande pezzo di bravura, in cui il tono è altamente lirico e il linguaggio solenne e sostenuto, quale ovviamente non potrebbe usare nella realtà una povera contadina (e infatti l'autore precisa alla fine che "Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia"). Il brano costituisce un'ulteriore descrizione dei luoghi della parte iniziale del romanzo, dopo quella altrettanto famosa che apriva il cap. I. Il nome del filosofo Carneade con cui si apre il capitolo è diventato per antonomasia sinonimo di illustre sconosciuto, proprio in base alle parole di don Abbondio che non sa nulla di lui.
Temi principali e collegamenti Le "gride" erano i provvedimenti di legge che il governo del Ducato di Milano emanava nel XVII secolo e venivano chiamate così per l'uso da parte dei banditori di gridarle, appunto, sulla pubblica piazza (gran parte della popolazione era infatti analfabeta, anche se una copia di queste leggi veniva affissa nelle strade ed esibita all'occorrenza). L'autore sottolinea nel cap. I l'assoluta inutilità di questi provvedimenti, che "diluviavano" (erano cioè numerosissimi) e minacciavano pene e castighi assai severi, che naturalmente non venivano mai applicati a causa dell'inefficienza e della corruzione del sistema giudiziario: ne è una prova la sfilza interminabile delle gride che Manzoni cita nel cap. iniziale del romanzo, per dimostrare che i bravi prosperavano ed erano impuniti, nonostante fossero minacciati di essere incarcerati, posti alla tortura o peggio ad arbitrio del giudice (addirittura si proibiva a chiunque di portare il "ciuffo" come segno distintivo dell'essere un bravo e si minacciavano pene ai barbieri che tagliassero i capelli in quel modo, come citato dall'autore nel cap. III). Fu proprio la lettura di una grida, quella datata 15 ottobre 1627 in cui si contemplava il reato di minacce a un curato per non celebrare un matrimonio, che diede a Manzoni l'idea per la trama del romanzo: questa legge compare nell'episodio di Renzo allo studio del dottor Azzecca-garbugli (cap. III), in cui l'avvocato scambia il giovane per un bravo e gli mostra la grida per fargli paura, per fargli credere che è in un brutto guaio e gli servirà il suo aiuto per uscirne. Il dottore dice che la grida è "fresca", cioè recente, e quindi di "quelle che fanno più paura", in quanto il gran numero delle leggi toglieva a queste l'efficacia; spiega a Renzo che lui saprà imbrogliare le carte e farlo assolvere dall'accusa, invocando la protezione di personaggi potenti e minacciando le persone coinvolte, in quanto "a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, nessuno è innocente" (dunque la giustizia non è certo assicurata da questi provvedimenti che, oltre ad essere inefficaci, sono passibili di controverse interpretazioni).