La motivazione Psicologia del lavoro e delle organizzazioni LUMSA Prof.ssa Paula Benevene
Teorie contemporanee della motivazione umana Etimologicamente il termine “motivazione” deriva da motus, che in latino indica il moto, il movimento che compie un individuo verso qualcosa. La motivazione è dunque l’insieme dei motivi che spingono, sostengono e dirigono un individuo ad agire, che sono in relazione a diversi obiettivi ed interesse e che sono guidati da processi cognitivi ed emotivi (Pinder, 1998). La motivazione è una spinta verso il raggiungimento di un obiettivo e che agisce influenzando ed orientando i comportamenti. Il processo relativo parte da uno stimolo, interno od esterno alla persona, e produce, come risultato finale, un’azione nella realtà. La qualità della prestazione lavorativa sarà maggiore quanto più alta sarà la motivazione al lavoro. L’intera organizzazione è più efficace ed efficiente se al suo interno può contare su risorse umane altamente motivate.
Teorie contemporanee della motivazione umana La motivazione non fa parte della struttura di personalità. Non esistono persone di per se stesse demotivate, giacché la motivazione deve essere sempre riferita ad un contenuto, un ambiente ed un periodo specifici. Possiamo quindi dire, più correttamente, che la persona è demotivata a fare quel tipo di lavoro in quella situazione, relativamente al periodo in osservazione. Inizialmente, approcci e tecniche di intervento puntavano a rinforzare i comportamenti lavorativi ritenuti positivi, premiando l’alta produttività con incentivi economici; successivamente, sono emersi anche altri fattori importanti per la motivazione, come la possibilità di uno sviluppo professionale, il riconoscimento e l’apprezzamento del lavoro svolto; la valorizzazione delle proprie competenze e capacità, solo per citarne alcune.
Approcci alle teorie sulla motivazione Need theories e goal theories Nella forma classica, le need theories (teorie dei bisogni) assumono l’esistenza di alcuni bisogni di tipo sia primario o fisiologico sia di tipo psicologico (come il bisogno di conoscenza). Quando questi bisogni sono attivati le persone sono spinte a ricercare le opportunità per soddisfarli; una volta che il bisogno è soddisfatto si ristabilisce l’equilibrio interno. Le goal theories (teorie degli obiettivi) sostengono che la motivazione dipende dagli obiettivi che il soggetto si propone di raggiungere; obiettivi chiari, specifici e sfidanti, permetteranno di individuare e mettere in atto i comportamenti più idonei per raggiungerli; pertanto, gli obiettivi indirizzano le azioni e gli sforzi di una persona in una specifica direzione.
Approcci alle teorie sulla motivazione Teorie del contenuto e teorie di processo. Le teorie di contenuto definiscono le cause che determinano scoraggiando o promuovendo il comportamento di un individuo; studiano i bisogni che agiscono dall’interno dell’individuo e gli incentivi che operano dall’esterno di questo. Hanno un’impostazione di tipo statico, non spiegano in che modo una persona raggiunge quello che per lei è importante né come il suo comportamento si sviluppa nel tempo. Le teorie di processo, invece, si riferiscono al modo in cui il comportamento è attivato, è scelto, mantenuto o cambiato ma non ne precisano le cause. Sono orientate alla comprensione delle modalità con cui la persona interagisce con il contesto, scegliendo e mantenendo una specifica strategia comportamentale
Approcci alle teorie sulla motivazione Kanfe suddivide tre diverse tipologie di approccio alla motivazione: Bisogni-motivi-valori. Comprende, tra le altre, la teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow, la teoria bifattoriale di Hertzberg e, più recente, la teoria della motivazione al successo di McClelland. Ciò che accomuna queste teorie è la centralità dei bisogni insoddisfatti nell’orientamento dei comportamenti. In sintesi, quindi, la motivazione agisce grazie allo stimolo generato dal desiderio di colmare i bisogni insoddisfatti.
Approcci alle teorie sulla motivazione Scelta cognitiva. A questo filone appartengono le teorie Aspettative x Valore, che fanno riferimento, in particolare, agli studi di Vroom, Weiner , Raynor, Edwards, Lewin, Festinger e Sears. Il costrutto di base asserisce che le persone scelgono tra diversi comportamenti sulla base delle aspettative soggettive e della valutazione soggettiva delle conseguenze attese associate a ciascuna alternativa d’azione. Autoregolazione. La teoria di riferimento è quella del goal setting, la quale asserisce che la base della motivazione sta nella possibilità di definire obiettivi, di essere consapevoli di questi obiettivi e di sapere come fare per raggiungerli. Infine, l’obiettivo deve essere percepito come valido ed interessante. Bandura ha esteso questo modello, introducendo la percezione di efficacia della propria azione, ovvero, tanto più alta è la percezione della propria auto efficacia, tanto maggiore è la motivazione al conseguimento di un determinato obiettivo.
Teorie Bisogni-motivi-valori Maslow: la piramide dei bisogni Herzberg: la teoria dei due fattori McClelland: la motivazione al successo Adams: la teoria dell’equità
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni Secondo Maslow la motivazione è funzione della soddisfazione di cinque categorie di bisogni poste secondo un ordine gerarchico: bisogni fisiologici (fame, sete), di sicurezza (Protezione dai pericoli, dalle minacce e dalle privazioni; appropriazione del territorio), di affiliazione (socialità, affetto, accettazione, amore, gruppi sociali), di stima (fiducia in se stessi, indipendenza, realizzazione. status, riconoscimento, rispetto meritato dei colleghi), di autorealizzazione (Senso della propria identità, sviluppo delle proprie potenzialità; continuo sviluppo di se stessi).
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni Vi sarebbe in base a tale teoria un ordine nella sequenza di tali bisogni, in quanto la soddisfazione dei bisogni più primitivi è la condizione per l’emergere dei bisogni più evoluti e complessi. Infatti i primi due ordini di bisogni sono definiti come “primari”, perché fanno riferimento a bisogni di tipo biologico; sono soddisfatti in modo sostanzialmente eguale da tutti gli uomini. Gli ultimi due ordini di bisogni sono definiti come “secondari”: sono afferenti soprattutto alle interazioni tra gli uomini, pertanto sono condizionati da fattori culturali, sociali e soggettivi.
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni Due principi fanno riferimento a questa scala gerarchica: Un bisogno soddisfatto cessa di essere motivante; Un bisogno non diventa motivante finché non è soddisfatto, almeno in parte il bisogno di ordine inferiore. Il limite della teoria Maslow è l’annullamento della realtà esterna a favore di una ipotetica unidimensionalità interna nello sviluppo dell’individuo.
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni Questa teoria ha avuto molto seguito nell'ambito del management del secolo scorso, ma presenta dei limiti evidenti: la piramide (o scala) dei bisogni di Maslow presuppone che tutti gli individui condividano alla stessa maniera e con la stessa intensità i propri bisogni, a prescindere a qualsiasi differenza relativa alla cultura o alla fase di vita in cui l’individuo si trova; non viene in alcun modo considerata l’interazione tra l’individuo e l’ambiente esterno; ha avuto poche verifiche empiriche.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori E’ una teoria di contenuto e di natura cognitiva, che mette in discussione l’assunto che la motivazione si fondi su una gerarchia di bisogni. L’autore distingue tra: Fattori Igienici: fattori correlati alle caratteristiche dell’organizzazione, dunque correlati al contesto e estrinseci; riguardano le condizioni esterne al lavoro, come l’ambiente fisico del lavoro, la remunerazione, la condizione di sicurezza personale, la modalità di supervisione, politiche e procedure d’impresa, relazioni interpersonali con i pari e i superiori. Fattori Motivanti: sono correlati al contenuto del lavoro, e sono intrinseci; riguardano il contenuto, la natura intrinseca del lavoro, la capacità di procurare una crescita di chi lavora; il riconoscimento dei risultati raggiunti; i contenuti del lavoro; il livello di responsabilità; la possibilità di promozione e avanzamento professionale. Permettono la soddisfazione dei bisogni elevati di auto-realizzazione, che servono a motivare l’individuo e portano quindi alla soddisfazione.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori Secondo Herzberg “I fattori che determinano la soddisfazione nel lavoro sono separati e distinti dai fattori che portano alla insoddisfazione nel lavoro. [...] Il contrario della soddisfazione nel lavoro non è la insoddisfazione, ma l’assenza di soddisfazione; e, in modo analogo, l’opposto della insoddisfazione non è la soddisfazione bensì l’assenza di insoddisfazione nel lavoro”. Il modello di Herzberg non pone la soddisfazione e l’insoddisfazione ai due poli opposti di uno stesso continuum, afferma piuttosto l’esistenza di due continuum, uno presenta ai due poli l’insoddisfazione e assenza di insoddisfazione; l’altro con ai due poli, rispettivamente l’assenza di soddisfazione e la soddisfazione.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori La soddisfazione e insoddisfazione si muovono su due piani paralleli e non sono l’una il contrario dell’altra. Così i fattori igienici non possono creare soddisfazione lavorativa. Essi creano insoddisfazione se sono assenti; se sono presenti, semplicemente riducono il livello di insoddisfazione. Solo i fattori motivanti possono portare alla soddisfazione Quindi, secondo la teoria dei fattori duali “igienici- motivanti”, fornire ai propri dipendenti pulizia, fringe benefit e un programma di ferie ben organizzato serve a ridurre il livello di insoddisfazione e a incoraggiare la permanenza all’interno dell’organizzazione, ma non comporta un incremento nella motivazione o nella prestazione. I fattori motivanti sono invece correlati al livello di soddisfazione e di prestazione: la loro presenza può incrementare sia l’una sia l’altra.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori Secondo Herzberg, non tutti gli uomini mirano alla propria autorealizzazione, ma si accontentano di soddisfare bisogni più elementari. Esistono i ricercatori di motivazione e quelli di igiene: I ricercatori di motivazione non cercano nel lavoro solo il benessere economico, la sicurezza o la gradevolezza dei colleghi: essi cercano soprattutto una soddisfazione intrinseca al lavoro, che soddisfi il loro bisogno di crescita psicologica. I ricercatori di igiene non si curano del piacere intrinseco dello svolgimento di un lavoro ma sono reattivi piuttosto agli aspetti esterni all’esperienza lavorativa in sé, come il salario percepito e le condizioni ambientali di lavoro; Solo i ricercatori di motivazione possono provare una reale soddisfazione nel lavoro; i ricercatori di igiene possono dichiararsi non insoddisfatti. Anche questa teoria fu oggetto di molte critiche, perché formulata solo mediante analisi di interviste condotte solo su due categorie di lavoratori: ingegneri e contabili.
David McClelland e la motivazione al successo Per McClelland l’uomo avverte numerosi bisogni ma uno degli elementi critici nel determinare i livelli individuali di prestazione è costituito dal bisogno di successo: è il desiderio di fare le cose nel modo migliore, di ricercare e misurarsi con situazioni di complessità crescente, di competere secondo uno standard di eccellenza. Successivamente, McClelland raffinò ulteriormente la sua teoria, distinguendo tre tipi di bisogni (o motivazioni) fondamentali Achievement (successo): Bisogno di realizzare e dimostrare competenza e padronanza. Responsabilità per la ricerca di soluzioni (attribuibilità dei risultati). Tendenza a fissare obiettivi impegnativi e ad assumere rischi calcolati. Desiderio di feedback chiari e diretti.
David McClelland e la motivazione al successo La persona con alto bisogno di successo è desiderosa di svolgere bene il proprio compito qualunque esso sia, è centrata sull’evoluzione personale, ama una valutazione diretta e immediata delle sue prestazioni, spesso preferisce lavorare da sola e il raggiungimento di una meta ha un valore intrinseco assai più grande del guadagno economico. Le persone con un basso bisogno di successo hanno poca fiducia nelle loro capacità e diventano ansiose quando si imbattono in situazioni di possibile insuccesso.
David McClelland e la motivazione al successo Potere: E’ il Bisogno di controllare il proprio lavoro e quello degli altri; bisogno di avere impatto, di essere influente. MacClelland intende bisogno di potere non come acquisizione di potere personale, quando piuttosto come il desiderio di influenzare e controllare gli altri per far sviluppate l’organizzazione nella quale si opera; Affiliazione: E’ il bisogno di essere amati e accettati, di stabilire relazioni positive con le latre persone. Le persone con alto bisogno di affiliazione preferiscono lavorare in gruppo, sono più attente alla qualità delle relazioni sociali che non a vedersi riconosciuti meriti professionali.
David McClelland e la motivazione al successo La teoria della motivazione di McClelland non prende in esame l’intera gamma dei bisogni umani, ma considera rilevanti solo le motivazioni apprese per il successo l’affiliazione il potere queste infatti vengono definite come i principali incentivi che regolano il comportamento. Questi tre bisogni sono appresi e non innati; si combinano tra loro in modo diverso da individuo a individuo, ma in modo che si verifichi una tendenziale predominanza di uno di essi.
David McClelland e la motivazione al successo Le ricerche condotte con questo approccio indicano che i lavoratori con alto bisogno di riuscita raggiungono più facilmente risultati di successo nel lavoro e tendono ad inserirsi in contesti lavorativi che permettono loro di fare una carriera brillante. Sulla base di questo approccio teorico sono stati realizzati interventi per potenziare la motivazione dei lavoratori in modo da porre in relazione i profili individuali con quei lavori che più facilmente permettono alle persone di realizzare i loro bisogni.
La teoria dell’equità di Adams Nel 1963 Adams elaborò la teoria dell’equità percepita La teoria dell’equità applicata all’economia e al lavoro Gli assunti principali della teoria dell’equità applicata al mondo del lavoro possono essere riassunte come segue: I dipendenti si aspettano di ricevere un reddito equo, ossia proporzionato al contributo che il loro lavoro offre all’organizzazione (equity norm) I dipendenti stabiliscono l’equità del trattamento ricevuto in base al confronto effettuato tra il proprio contributo e i risultati ottenuti da una parte e dall’altra il contributo e i risultati ottenuti dai loro colleghi (confronto sociale ) I dipendenti che si percepiscono come in una situazione ingiusta cercheranno di ridurre l'iniquità modificando input e/o output nelle loro menti ("distorsione cognitiva"), oppure modificando input e/o output nella realtà, oppure abbandonando l'organizzazione (Carrell e Dittrich, 1978)
La teoria dell’equità di Adams Gli individui che vivono situazioni inique sono profondamente insoddisfatti. Secondo la teoria dell’equità, si sentono in difficoltà sia le persone che pensano di essere ripagate “troppo poco” per il lavoro svolto sia quelle che pensano di essere state ripagate “troppo”. Le prime possono provare senso di umiliazione, rabbia; le seconde possono provare senso di colpa o di vergogna. Le persone che si accorgono di vivere in un rapporto iniquo tentano di eliminare il loro disagio, tramite il ripristino di una situazione di equità. Quanto più è alta la percezione di iniquità, tanto più alta sarà il disagio vissuto e tanto più forti saranno gli sforzi per ripristinare una situazione di equità (Walster, Traupmann e Walster, 1978)
La teoria dell’equità di Adams Il concetto di equità si basa sul confronto dinamico e relativo che il soggetto compie tra il proprio contributo (input) fornito all’organizzazione e i risultati che ottiene da questi (outcome). Tale confronto è dinamico perché le condizioni dello scambio sociale possono mutare nel tempo, ma è soprattutto relativo poiché la valutazione avviene comparando il rapporto outcome/input individuale con quello di un referente. Tuttavia, gli elementi essenziali di tale rapporto risultano definiti socialmente e soggettivamente o difficilmente identificabili e misurabili. Il referente esterno è scelto dal soggetto, attraverso un processo non sempre razionale e consapevole, ed è quindi difficilmente definibile qualora lo scambio entro confini ampi. La natura sintetica della valutazione di input e outcome nascondono al suo interno notevole varietà in termini di elementi soggettivamente considerati a numeratore e a denominatore, nonché differenziali di ponderazione notevole.
La teoria dell’equità di Adams La non equità, o inequità, può essere una “sotto-equità” (il rapporto è percepito come inferiore rispetto al termine di paragone) o “sopra-equità” (la percezione di beneficiare di un rapporto migliore) e porta a conseguenze come: Modifica degli input o dei risultati che causano un abbassamento del livello di qualità/quantità della prestazione (ad esempio variando l’impegno lavorativo sia in termini di aumento che di diminuzione); Modifica delle percezioni di reciprocità che portano a riconsiderare il valore e l’intensità di input/output lavorativi (ad esempio cercando di ottenere maggiori riconoscimenti); Modifica dei referenti del confronto sociale (ad esempio cercando di screditarlo o di sabotare la sua attività); Cambiamenti reali o psicologici (ad esempio chiedendo il trasferimento ad un altro settore dell’organizzazione, oppure cambiando l’oggetto del confronto).
La teoria dell’equità di Adams Secondo la teoria dell’equità formulata da Adams, la constatazione di un’iniquità determina delle azioni per ristabilire l’equità. Tali azioni possono far variare la ratio del dipendente o di quello di riferimento, possono cioè agire sulle componenti della contribuzione o della retribuzione. Per garantire ad ogni dipendente un trattamento equo, vengono messe in evidenza quattro regole fondamentali: Garantire ad ognuno una valutazione affidabile della propria contribuzione. Il lavoro, il modo cui lo porta avanti e i risultati ottenuti sono tre componenti essenziali della contribuzione del dipendente. Occorre fare attenzione a che cosa il dipendente considera fondamentale per la valutazione del suo lavoro. E’ necessario anche porre molta attenzione al "come" il modo di lavorare e i risultati ottenuti sono misurati, attraverso un affidabile sistema di valutazione. La credibilità del sistema di aggiornamento periodico delle valutazioni è fondamentale. La fiducia nelle procedure e nelle persone che le applicano garantisce che ci sia anche la fiducia nella valutazione.
La teoria dell’equità di Adams Offrire ad ogni dipendente tutte le possibilità di aumentare il proprio contributo misurabile. Il dipendente accetta la valutazione del suo contributo se è persuaso di aver beneficiato di buone condizioni per aspirare al livello voluto. Il dipendente è attento agli sforzi dell’azienda per sviluppare le sue competenze, attraverso la formazione, il coaching, l’accessibilità e la chiarezza delle mansioni, le capacità “tutoriali” del proprio manager. Avere a propria disposizione mezzi adatti e funzionali, beneficiare di programmi tecnologici sono considerate utili opzioni disponibili. Esplicitare chiaramente le regole relative a contribuzione e retribuzione. Le regole di determinazione di ogni componente della retribuzione devono essere conosciute. In particolare, le modalità di determinazione degli elementi personalizzati, fissi o variabili, monetari o meno, immediati o differiti, devono essere comunicate. Ogni dipendente deve conoscere il legame tra aumento del suo contributo e aumento della sua retribuzione. Rispettare le regole annunciate e garantire le retribuzione meritate. Occorre evitare che gli impegni presi non possano essere mantenuti per eventi congiunturali.
La teoria dell’equità di Adams Alcune ricerche dimostrano che le persone che si sentono in “sopra-equità” interna agiscono principalmente sulla contribuzione. Ci tengono a giustificare in questo modo la propria retribuzione per conservare tale beneficio. Gli economisti hanno anche studiato gli effetti della “sopra-equità” esterna. Secondo la teoria del salario di efficienza formulata da Robert Solow, riconoscere un salario superiore rispetto a quello di mercato accresce l’impegno e la produttività dei dipendenti. La “sopra-equità” esterna ha un forte potere incentivante e può essere opposta a percezioni di “sotto-equità” interna. Il dipendente che avverte una “sotto-equità” interna agisce principalmente riducendo il suo contributo.
La teoria dell’equità di Adams Per ridurre i rischi legati a queste riduzione, può mettere in atto azioni discrete e poco visibili (ridurre la qualità e non quantità, agire su quanto non è controllato...) o non sanzionabile (fare solo “quello per cui si è pagati”: che significa anche nessuna cooperazione, mancanza di iniziativa..). Questi stessi comportamenti/reazioni possono essere osservati non soltanto tra persone, ma anche tra funzioni, gruppi o categorie. La “sotto-equità” percepita dalla fabbrica verso i commerciali può condurre a una non-cooperazione a scapito della benessere organizzativo e della soddisfazione del cliente.
La teoria dell’equità di Adams La Teoria dell’Equità ha diverse implicazioni pratiche. I membri di un’organizzazione misurano in modo globale il loro contributo all’organizzazione in relazione ai risultati ottenuti. Per questo motivo una madre lavoratrice può accettare di ricevere un compenso inferiore monetario in cambio di orari di lavoro più flessibili. Ciascun membro di un’organizzazione adotta valori personali e differenti da quelli adottati dagli altri membri, per valutare i propri input e output. Così, due dipendenti di pari esperienza e qualifica, che svolgendo lo stesso lavoro per la stessa paga possono avere percezioni tra loro molto diverse dell’equità di questa condizione.
La teoria dell’equità di Adams I dipendenti posso accettare differenze salariali, in base al confronto tra il potere d'acquisto della loro retribuzione e le condizioni del mercato locale. Così un insegnante di Bath può accettare un salario inferiore a quello di un suo collega di Londra se qui il suo costo della vita è più alto. Anche se può essere considerato accettabile che il personale con maggiore anzianità o maggiore qualifica possa ricevere una retribuzione maggiore, la scala di valutazione ha comunque dei limiti di applicazione; ad esempio i dipendenti possono valutare come eccessivamente alta la retribuzione dei loro manager e sentirsi quindi demotivati. Membri di un’organizzazione possono avere una percezione non completamente corretta dei propri input e output. Queste valutazioni distorte devono essere affrontate e gestite in modo efficace. Il lavoratore che ritiene di essere sovracompensato può aumentare il suo impegno, ma può anche riadattare il valore che egli attribuisce al suo input personale, interiorizzando un senso di superiorità e successivamente diminuire il suo impegno.
La teoria dell’equità di Adams Dalla teoria dell’Equità si è sviluppata anche il costrutto della giustizia organizzativa Le tre componenti della giustizia organizzativa sono: Giustizia Distributiva La giustizia distributiva è concettualizzata come l'equità nella la distribuzione delle risorse e nelle conseguenze delle decisioni organizzative. I risultati della distribuzione delle risorse possono essere tangibili (come il salario) oppure intangibili (come il riconoscimento della propria competenza professionale e del lavoro svolto)
La teoria dell’equità di Adams Giustizia procedurale Si riferisce all'equità dei processi organizzativi. Consiste nella percezione di partecipare nei processi organizzativi e che questi rispondano a criteri di coerenza, esattezza, eticità, e l'assenza di pregiudizi (Leventhal, 1980). Giustizia Interazionale Si riferisce al trattamento che un individuo riceve sulle modalità con cui vengono prese le decisioni; può essere promossa fornendo spiegazioni per le decisioni prese, comunicandole con sensibilità e rispetto (Bies & Moag, 1986). Secondo Colquitt (2001) la giustizia interazionale dovrebbe essere scomposta in due componenti: la giustizia interpersonale e la giustizia informativa. La prima fa riferimento alle percezioni di rispetto e di correttezza del proprio trattamento; la seconda fa riferimento all’ adeguatezza delle spiegazioni fornite in termini di tempestività, specificità e veridicità.
Teorie della scelta cognitiva Rotter: il Locus of control Heider: l’Attribuzione causale Weiner: la Controllabilità delle cause Vroom: la teoria dell’Aspettativa-Strumentalità-Valenza
Rotter e il locus of control Rotter negli anni '50 ha messo a punto il costrutto del locus of control: una variabile psicologica, che fa riferimento a quanto l’individuo ritenga di esercitare il controllo del proprio futuro e degli eventi. Secondo questa teoria il comportamento, in una determinata situazione, dipende dall’aspettativa di raggiungere specifici risultati e al valore attribuito a tali risultati. La dimensione Interno-Esterno è definita come una variabile di personalità che viene misurata mediante una scala.
Rotter e il locus of control Un polo della dimensione è il locus interno: un soggetto con locus of control "interno" è orientato a considerare il futuro come un effetto delle proprie azioni e quindi una variabile su cui è possibile intervenire per modificare il corso degli eventi. La persona considera se stessa come causa del comportamento e sente di poterne controllare le circostanze. L’altro polo è formato dal locus esterno: il soggetto attribuisce prevalentemente le cause di quanto accade al destino o agli altri o comunque a forze esterne a sé.
Rotter e il locus of control Effetti di un locus of control esterno Atteggiamento passivo di fronte agli eventi; percezione di imprevedibilità degli eventi; scarsa autonomia; dipendenza dagli altri o da forze esterne nella ricerca delle soluzioni ai problemi incontrati; mancanza di una valutazione oggettiva delle possibilità di successo nella risoluzione di un problema; percezione che le variabili esterne da controllare siano al di fuori delle proprie capacità; sensazione di una forte o totale impotenza rispetto agli eventi; attribuzione dei propri esiti negativi al destino o agli altri; rapida perdita della motivazione.
Rotter e il locus of control Effetti di un locus of control interno: proattività nella ricerca di soluzioni ai problemi; fiducia nella possibilità di affrontare e risolvere le difficoltà; sostanziale fiducia nella possibilità di raggiungere obiettivi impegnativi e ambiziosi; fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di accrescere le proprie competenze; costanza e tenacia nel perseguire i propri obiettivi; capacità di individuare strategicamente ulteriori possibili alternative nell’affrontare un problema difficile. Un locus of control interno, porta a conseguire sia migliori risultati oggettivi sia una maggiore soddisfazione personale e professionale. Le ricerche hanno evidenziato inoltre che un alto controllo interno comporta uno stile di leadership più partecipativo e socio- emotivo, e di conseguenza, maggiore soddisfazione.
Heider e l’attribuzione causale Secondo Heider (1958) le persone interpretano il comportamento proprio e quello altrui stabilendo se la causa del comportamento risiede nella persona che lo ha prodotto (cause interne) o nell’ambiente circostante (cause esterne) o in ambedue. L’attribuzione degli eventi a fonti causali è fondamentale per la nostra comprensione dell’ambiente sociale, perché quando classifichiamo un comportamento, lo facciamo in relazione alla causa che l’ha prodotto; di conseguenza, descriviamo un comportamento di una persona in base a ciò che inferiamo sui suoi desideri, motivazioni e intenzioni, sulla sua consapevolezza riguardo a ciò che sta facendo, sulla sua abilità a farlo e sulle costrizioni situazionali nelle quali sta agendo.
Heider e l’attribuzione causale Le cause esterne sono: la fortuna e la difficoltà del compito; Le cause interne sono: l’impegno e l’abilità. L’attribuzione di causalità è strettamente collegata all’intenzionalità e alla responsabilità: le persone, infatti, si sentono più responsabili quando sono in grado di stabilire una relazione tra l’intenzione e un comportamento, così come quando percepiscono di possedere le competenze per portare a termine un’azione. Heider applica la sua teoria nei contesti di giudizio legati alle prestazioni scolastiche, ma successivamente la sua teoria verrà ripresa da Weiner e applicata anche in altri contesti organizzativi.
Weiner e la controllabilità delle cause Weiner (1985) considera l’attribuzione di causalità rispetto ad eventi positivi e negativi determinante per le motivazioni. Rispetto ad Heider, alla dimensione interna e quella esterna ne aggiunge una terza: quella della controllabilità della causa. Secondo Weiner l’esito di un comportamento, proprio o altrui, può essere cognitivamente attribuito a quattro categorie causali: l’impegno, l’abilità, la difficoltà del compito la fortuna. . Impegno e abilità sono spiegazioni interne e controllabili, mentre difficoltà del compito e fortuna sono spiegazioni esterne e non controllabili
Weiner e la controllabilità delle cause Ad esempio, il risultato ottenuto da un determinato studente può essere determinato da: Una particolare attitudine (causa stabile e incontrollabile); Lo sforzo attuato (causa controllabile, può essere sia stabile sia instabile; La difficoltà del compito (stabile e incontrollabile); La fortuna (sia instabile sia incontrollabile). Questo significa che le esperienze precedenti possono determinare le aspettative relative ai risultati del comportamento futuro solo quando le cause di tali esperienze sono attribuite a variabili stabili, interne e controllabili (ad esempio, avrò risultati migliori se riterrò che la causa del mio successo è da attribuire al mio impegno e non alla fortuna).
Weiner e la controllabilità delle cause Inoltre, le dimensioni previste da Weiner consentono di prevedere anche le reazioni emotive collegate ad un’attribuzione. Infatti, le reazioni emotive agli eventi sono precedute da una valutazione cognitiva di quanto è accaduto o del risultato. Ad esempio, se una persona ha raggiunto un risultato positivo e la causa (locus della causalità) è interna, la reazione emotiva è l’orgoglio, mentre se il risultato negativo e la causa è esterna, insorge la rabbia. Il modello di Weiner è dinamico, ossia si focalizza sui cambiamenti attraverso il tempo: infatti, è possibile analizzare come le attribuzioni causali influenzino le aspettative per il futuro e le prestazioni del soggetto. Ad esempio, la stabilità dell’attribuzione causale determina le aspettative verso il futuro. Il limite delle teorie attribuzionali consiste nel trascurare le aspettative sul futuro come determinanti della motivazione presente.
Vroom e la teoria dell’ “Aspettativa-Strumentalità-Valenza” La teoria dell’“Aspettativa-Strumentalità-Valenza” (VIE: Valence-Instrumentality-Expectancy) di Victor Vroom, ha un approccio fondato sulla dimensione della scelta cognitiva. Parte dal presupposto che l’uomo prende le decisioni in base a criteri razionali e con estrema consapevolezza. Gli individui quindi sanno cosa desiderano dal lavoro e l’impegno che mettono sul lavoro sarà determinante per il conseguimento degli esiti desiderati. C’è una relazione stretta quindi tra l’impegno sviluppato e livello di performance. L’attenzione è puntata sui meccanismi di elaborazione della condotta lavorativa, in funzione di alcuni quesiti: Quanto è desiderabile un certo risultato e come posso ottenerlo? Cosa devo fare per ottenere un certo risultato in funzione di quali e quanti investimenti personali? Che probabilità ho di ottenere determinati risultati che mi aspetto a fronte di un determinato impegno?
Vroom e la teoria dell’ “Aspettativa-Strumentalità-Valenza” Il modello di Vroom, che vuole spiegare il processo con il quale l’individuo adotta una particolare strategia di azione fra le molte possibili, ritiene che la motivazione a tenere un certo comportamento lavorativo dipende da: Risultati del lavoro (A): sono i risultati connessi con l’esperienza lavorativa, come: un aumento di retribuzione, vedere riconosciuto e valorizzato il proprio apporto, una promozione, un trasferimento, ecc.; La valenza (V): il valore che il singolo associa ad ognuno dei risultati lavorativi. É definita come attrattiva o soddisfazione anticipata;
Vroom e la teoria dell’ “Aspettativa-Strumentalità-Valenza” La strumentalità (S): è la probabilità percepita che una prestazione tenuta porterà ad un risultato atteso. Ad esempio: se il soggetto ritiene che un certo tipo di gratificazione (es: aumento retributivo) è correlato ad un certo livello di prestazione, la strumentalità associata al risultato atteso (retribuzione) sarà molto elevata; viceversa se il soggetto notasse che un premio lavorativo non corrisponde un impegno maggiore, la strumentalità associata sarà bassa. La strumentalità viene misurata come probabilità percepita che quel determinato atto porti ad un certo risultato; L’aspettativa (A): è la credenza soggettiva che l’applicazione di un certo livello di impegno porterà alla riuscita della prestazione. É la relazione tra impegno e prestazione. La forza (F): misura il livello di motivazione ed è il prodotto della valenza, delle strumentalità, e dell’aspettativa (F = A x S x V); questo rapporto è talmente stretto da rendere nullo il livello di forza se si rivela nulla una delle tre variabili.
Vroom e la teoria dell’ “Aspettativa-Strumentalità-Valenza” La teoria dell’aspettativa segue un percorso ben preciso: il primo passo che porta alla motivazione è che alcuni risultati devono essere desiderati e attesi, così da avere per l’individuo un certo grado di valenza. L’altro passo è che la persona deve credere che esista qualche relazione tra prestazione lavorativa e risultati attesi, cioè la strumentalità deve risultare elevata. Se i risultati attesi non sono percepiti come connessi alla prestazione del lavoro ma ad altri fattori, l’individuo sarà meno motivato ad impegnarsi professionalmente e, presumibilmente, investirà la sue energie in maniera conseguente. L’individuo, infine, dovrà percepire una relazione (aspettativa) tra il livello del suo impegno e il miglioramento della prestazione. Le critiche al modello di Vroom riguardano il mancato riconoscimento del ruolo svolto da colleghi e superiori nella generare motivazione; inoltre, per alcuni soggetti il rapporto tra valenza, aspettativa e strumentalità non è di tipo moltiplicatorio, ma di tipo sommativo
Teoria socio cognitiva Bandura: la teoria dell’auto-efficacia
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Le teorie dell’apprendimento sociale integrano in modo interattivo gli effetti dei dati ambientali, delle emozioni e dei processi cognitivi sul comportamento. Sottolineano il ruolo dei processi cognitivi nella capacità delle persone di costruire la realtà, e di conseguenza di autoregolarsi, apprendendo e mettendo in atto comportamenti adatti alle situazioni che si devono fronteggiare. I comportamenti possono dunque essere acquisiti e cambiati in assenza di un’esperienza diretta, come conseguenza della mediazione cognitiva.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Importante è il concetto di autoregolazione, che comprende tre componenti principali: l’auto-osservazione, cioè l’attenzione selettiva prestata dall’individuo a specifici aspetti del proprio comportamento; l’autovalutazione, mediante la quale le persone confrontano il loro standard di obiettivo desiderato con la prestazione svolta; le reazioni del sé, cioè le risposte interne che vengono poste in essere come conseguenza dell’autovalutazione; sono risposte emotive tanto più intense e rilevanti sul comportamento quanto più ampia è la discrepanza percepita tra obiettivi e prestazione.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Bandura ha esteso tale modello fino ad includervi un ulteriore meccanismo di autoregolazione, la self-efficacy, che si riferisce all’aspettativa della persona di riuscire con successo in una particolare attività. La self-efficacy include la valutazione da parte della persona delle proprie abilità e conoscenze nonché della propria adattabilità. Più è forte la self-efficacy, maggiore è l’aspettativa che il comportamento sarà di successo e più alto sarà il livello di performance: la persona che si aspetta di realizzare un risultato desiderato farà uno sforzo maggiore e lotterà con successo. Pertanto, i punteggi di self- efficacy sembrano essere buoni predittori della performance.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Le aspettative sull’efficacia riguardano le credenze sulle capacità dell’individuo di organizzare e mettere in atto i comportamenti necessari per raggiungere un determinato risultato. L’auto-efficacia è la convinzione delle propria capacità di raggiungere un certo livello di prestazione. Deriva dalle convinzioni che la persona possiede a proposito delle proprie capacità di produrre le azioni necessarie per gestire adeguatamente le situazioni, in modo da raggiungere risultati prefissati e desiderabili.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) L’autoeficacia è stata definita come: “Credenze nutrite dalla persona a proposito delle proprie capacità di attuare i comportamenti necessari per raggiungere i determinati risultati e obiettivi” (Bandura, 1977); “Credenze delle persone a proposito delle proprie capacità di esercitare un controllo sugli eventi che riguardano la vita” (Bandura, 1989); “Credenze nei confronti delle proprie capacità di aumentare i livelli di motivazione, di attivare risorse cognitive e di eseguire le azioni necessarie per esercitare un controllo sulle risorse di un compito” (Bandura, 1990) L’auto-efficacia non è una caratteristica stabile e generale della personalità, ma è un forte predittore del comportamento e della performance.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Le aspettative di auto-efficacia fanno riferimento al compito e si distingue dai costrutti di autostima e dalle credenze relative a se stessi, che sono invece valutazioni globali che il soggetto formula su di sé. Infatti, ognuno di noi ha una rete molto articolata di convinzioni che vengono regolate continuamente tenendo conto della qualità e del livello delle prestazioni proprie e altrui. L’autoefficacia si riferisce ai giudizi in merito alle capacità di eseguire determinate attività, più che a qualità personali quali le caratteristiche fisiche o i tratti psicologici; Le convinzioni di autoefficacia sono multidimensionali (si riferiscono a ambiti di funzionamento diversi)
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Le misure dell’autoefficacia sono contesto-dipendenti (contesto competitivo vs cooperativo, dipendono da un criterio di prestazione basato sul successo nel risolvere un problema piuttosto che da criteri normativi. L’autoefficacia non è un predittore inerte delle prestazioni future; essa si ripercuote sui processi di pensiero, sul livello e la persistenza della motivazione e sugli stati affettivi, che contribuiscono in modo rilevante alle prestazioni realizzate: le persone non provano neppure, se ritengono di non essere capaci, ma quando sono convinte di esserlo il loro impegno e i loro successi superano spesso ogni previsione
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) L’autoefficacia non riguarda il numero di abilità possedute, ma ciò che si crede di poter fare con i mezzi a propria disposizione: le abilità possono facilmente essere vanificate dai dubbi su di sé; persone piene di talento fanno un uso inadeguato delle loro capacità quando le circostanze indeboliscono la loro fiducia in se stesse L’autoefficacia non è una percezione generalizzata, ma varia da situazione a situazione: la stessa persona può avere convinzioni di efficacia molto forti rispetto ad alcuni domini e molto deboli rispetto ad altri. L’autoefficacia si riferisce ai giudizi in merito alle capacità di eseguire determinate attività, più che a qualità personali quali le caratteristiche fisiche o i tratti psicologici;
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Bandura, nel definire il concetto di auto-efficacia, individua tre dimensioni: Ampiezza: intesa come numero di compiti che una persona ritiene di poter affrontare per gestire le situazioni problematiche; Generalità: ovvero il grado di estendibilità delle aspettative ad altri contesti; fa riferimento a quanto l’ autovalutazione di efficacia rispetto a prestazioni specifiche sono in grado di influenzare le credenze di autoefficacia in altri compiti, azioni e situazioni, simili ai precedenti. Forza: ossia il livello di fiducia nelle propria capacitò di raggiungere con successi un determinato obiettivo, nonostante le difficoltà. Aspettative forti sopravvivranno più a lungo a feed-back negativi e aspettative deboli porteranno l’individuo a desistere in un compito o in un’attività.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) L’auto-efficacia, così come viene percepita dal soggetto, influenza: la scelta delle situazioni e degli obiettivi, perché il soggetto che si percepisce capace investe maggiore energia nel loro raggiungimento. Le persone intraprendono delle attività quando, in base ad una propria autovalutazione, si giudicano capaci di poter fronteggiare una situazione; in caso contrario si sentono intimorite e tendono ad abbandonare la situazione ritenuta eccessivamente sfidante. Il soggetto che si valuta incapace di raggiungere determinati obiettivi, tenderà ad evitarli, per prevenire il fallimento e la conseguente percezione negativa di sé.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) L’auto-efficacia influenza: il livello di motivazione con cui si affrontano compiti e obiettivi. l’ampiezza degli sforzi che verranno impiegati nella messa in atto di comportamenti appropriati al conseguimento di un risultato. Inoltre, influenza la durata del tempo per cui tali sforzi verranno mantenuti, a dispetto degli ostacoli e delle esperienze negative che si presentano. L’autoefficacia attiva anche un potente meccanismo di autoregolazione: l’insieme delle azioni di automonitoraggio che valutano la congruenza tra il comportamento effettivo e quello atteso o previsto. Quando le attese sono confermate dai fatti, il soggetto prova un senso di soddisfazione; quando, in altre situazioni, gli esiti non sono positivi, il senso di autoefficacia sostiene la persona nella ricerca di nuovi obiettivi perseguibili e di interesse per lui.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) L’autoefficacia influenza anche le aspettative del risultato, ossia la relazione tra il comportamento e il risultato: i risultati attesi guidano le credenze personali di efficacia e efficienza orientano le scelte individuali che, a loro volta, determinano i risultati. Il fattore principale della formazione dell’auto-efficacia è costituito dal conseguimento di un esito positivo nell’attività intrapresa. Per Bandura si può realizzare solo nel caso in cui il soggetto è convinto che le sue abilità non sono degli attributi fissi ma delle capacità organizzate in vista delle specifiche finalità. Più in generale, i fattori che generano autoefficacia sono: esperienze dirette dell’individuo; esperienze indirette; a seguito di input verbali; stati di tensione emotiva.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Persone con basso senso di efficacia: Sono intimidite da attività “difficili” e se ne allontanano sentendosi minacciate; Hanno basse aspirazioni e scarso impegno nel raggiungere gli obiettivi scelti; Di fronte agli ostacoli riducono il proprio impegno e rinunciano facilmente; Attribuiscono le prestazioni scadenti alla propria incapacità e dopo pochi insuccessi perdono fiducia; Sono facili preda dello stress e della depressione.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Persone con alto senso di efficacia: Affrontano compiti difficili come sfide, sono motivate e partecipi di ciò che fanno; Nelle difficoltà intensificano il loro impegno appoggiandosi alle difficoltà positivamente superate in passato; Recuperano velocemente la propria auto-efficacia dopo gli insuccessi; Attribuiscono l’insuccesso all’impegno insufficiente o alla mancanza di conoscenze; Hanno maggiori successi personali che riducono lo stress e la vulnerabilità. Le aspettative di efficacia personale non solo permettono di predire il comportamento dell’individuo - ma hanno anche un effettivo ruolo causale nel determinare il comportamento dell’individuo.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia (rielaborato, da Nota e Soresi, 2000) Autostima bassa Aspettative negative Scarso impegno Circolo vizioso Senso di colpa Ansia elevata Fallimento
Il modello del Goal Setting e Il management by objectives (MBO) Locke e Latham: il modello del goal setting
Locke e Latham: il modello del goal setting Per Locke gli obiettivi possono essere considerati le più forti determinanti dell’azione in quanto attivano e sostengono il meccanismo mediante il quale gli stati motivazionali sono tradotti in azione; gli obiettivi sono, pertanto, i precursori dell’azione. L’obiettivo è uno dei costrutti principali degli approcci di autoregolazione in quanto corrisponde ad una precisa determinante dell’azione; gli obiettivi in qualsiasi modo siano scelti, rappresentano i fattori di attivazione e di sostegno degli stati motivazionali e della loro traduzione in sequenze di azione finalizzata.
Locke e Latham: il modello del goal setting A Locke si deve l’elaborazione del modello del goal setting che si è rapidamente diffuso negli ultimi anni e che ha generato numerose ed interessanti applicazioni nei diversi contesti lavorativi. Il termine goal setting si può tradurre come definizione degli obiettivi e indica una teoria motivazionale che consente una combinazione tra l’analisi e la diagnosi della realtà, tipiche della riflessione teorica e dell’applicazione pratica attraverso concrete modalità di intervento nei contesti lavorativi. E’ contemporaneamente una teoria ed una tecnica motivazionale; costituisce una teoria cognitiva della motivazione fondata sulla premessa che le persone hanno bisogni che possono essere pensati come risultati o obiettivi specifici che le persone sperano di ottenere.
Locke e Latham: il modello del goal setting Da ciò deriva l’ipotesi che il comportamento umano sia intenzionale e che gli obiettivi dirigano e sostengano le energie degli individui verso la realizzazione di una particolare azione. Il goal setting è, inoltre, ritenuto fondamentale per molti piani di valutazione della prestazione in quanto rappresenta un metodo per dirigere gli sforzi individuali nel lavoro e per fornire uno standard rispetto al quale valutare la prestazione stessa. E’ frequentemente legato ai sistemi di ricompensa usati nelle aziende ed è applicato in molti programmi di formazione e sviluppo. Per avere un forte impatto motivazionale gli obiettivi non devono essere né troppo facili, né difficili, ma chiari e sfidanti.
Il management by objectives (MBO) Il MBO, ossia la gestione per obiettivi, è stato delineato nel 1954 da Peter Drucker nel suo libro “The Practice of Management” e sviluppato negli Stati Uniti sul finire degli anni cinquanta in ambito strettamente aziendale, dove è ancora largamente utilizzato (General Motors, Du Pont, General Electric). Nato inizialmente come metodo innovativo per valutare le prestazioni manageriali, è diventato un vero e proprio sistema di management. L’MBO prevede che le prestazioni individuali e di gruppo parte siano misurate e valutate rispetto al raggiungimento di obiettivi precedentemente stabiliti in forma partecipativa e condivisa tra i soggetti che partecipano alla valutazione stessa. Questo meccanismo mira a promuovere l’assunzione di responsabilità nella definizione e nel raggiungimento degli obiettivi stessi.
Il management by objectives (MBO) L’MBO è: un approccio sistemico alla gestione dell’organizzazione; un sistema direzionale che prevede il coinvolgimento dell’intero staff direttivo nell’individuazione (e nella definizione dettagliata) di una precisa gerarchia di obiettivi organizzativi e nella formalizzazione dei piani e dei programmi necessari al loro conseguimento; un processo secondo il quale in un determinato contesto organizzativo (sia pubblico che privato), i manager di ciascun livello collaborano all’identificazione e definizione degli obiettivi comuni e delle principali aree di responsabilità di ciascun individuo in termini di risultati desiderati e utilizzano queste misure come guida per la gestione dell’organizzazione e per la valutazione del contributo dei suoi singoli membri.
Il management by objectives (MBO) In sintesi l’MBO è un sistema che mira a far funzionare la struttura (gerarchica) organizzativa e a stimolare una maggiore partecipazione, un maggiore coinvolgimento personale in chi fa parte di tale organizzazione, attraverso una metodologia che presuppone che il processo decisionale dell’organizzazione sia articolato in diversi livelli, corrispondenti ai livelli secondo cui la stessa organizzazione è strutturata ed a ciascun livello esistano dei decisori in grado di determinare le soluzioni migliori (al proprio livello) con determinati gradi di autonomia.
Il management by objectives (MBO) Un altro modello processuale è la teoria del goal setting (conseguimento degli obiettivi), vera e propria tecnica motivazionale all’interno del Management by Objectives MBO. Ideata da Edwin Locke, questa teoria si basa sul costrutto di obiettivo (goal). Locke spiega il comportamento in funzione delle capacità di autoregolazione della mente umana, che fissa i propri scopi e ne sostiene il raggiungimento grazie a processi di attivazione delle energie necessarie. Gli obiettivi dunque sono precursori dell’azione, perché innescano un meccanismo che trasforma gli stati motivazionali in azione.
Il management by objectives (MBO) Gli obiettivi sono fattori cognitivi che hanno la capacità di influenzare in modo potente il comportamento lavorativo perché: Orientano l‘azione e aiutano a mantenere alto il livello di attenzione alle prestazioni; canalizzano le risorse personali; facilitano la modulazione delle energie impiegate nello svolgimento del compito; aumentano la persistenza dell’impegno; promuovono l’individuazione delle strategie più idonee a raggiungere i risultati attesi.
Il management by objectives (MBO) Le caratteristiche fondamentali che deve possedere l’obiettivo per motivare all’azione efficace sono due: deve essere impegnativo. Gli obiettivi difficili sono stimolanti conducono a prestazioni più elevate rispetto a quelli facili. Le persone normalmente adattano il proprio sforzo alle difficoltà del compito e perseverano maggiormente nei compiti difficili; deve essere specifico. Gli obiettivi specifici portano a prestazioni più elevate rispetto a obiettivi vaghi del tipo “devi fare del tuo meglio” o “ devi impegnarti al massimo” o alla mancanza di obiettivi.
Il management by objectives (MBO) Nella relazione tra obiettivo e prestazione di successo entrano in gioco diversi fattori: l’impegno del soggetto verso il raggiungimento dell’obiettivo (dipende da quanto l’obiettivo è ritenuto desiderabile e accessibile; la desiderabilità è influenzata dall’autorità del capo, dal gruppo dei pari, dall’intensità dell’obiettivo; l’accessibilità è influenzata dalla difficoltà del compito in sé, dall’auto-efficacia e dall’intensità dell’obiettivo); l’abilità o le abilità del soggetto (valutazione oggettiva di capacità elevate realmente possedute dal soggetto); il feedback ricevuto (le informazioni di ritorno sulle proprie azioni e strategie aiutano a valutare se si è raggiunto lo standard atteso o se bisogna riaggiustare il tiro); la cultura organizzativa e i vincoli situazionali (cultura del compito vs cultura dell’obiettivo); l’auto-efficacia personale percepita (convinzione di riuscire ad utilizzare con successo le proprie abilità e di mettere in atto strategie adeguate agli obiettivi).
Il management by objectives (MBO) Perché gli obiettivi influenzino le performance, è necessario che gli individui ne siano consapevoli e sappiano cosa fare per raggiungerli e che il goal venga accettato come qualcosa per cui valga la pena impegnarsi. Se sprovvisti di queste caratteristiche gli obiettivi possono non essere fatti propri, perché considerati troppo difficili o, viceversa, troppo facili; o ancora, perché non si è riusciti a stabilire la strategia migliore per raggiungerli. La motivazione è massima quando gli obiettivi sono raggiungibili e di conseguenza, prestazione e attivazione crescono. Al variare della difficoltà degli obiettivi (troppo facili o troppo difficili) tutte le variabili diminuiscono.
Il management by objectives (MBO) Un valore che influenza la prestazione lavorativa è quanto l’individuo si senta legato e coinvolto all’obbiettivo, cioè quanto lo sente suo. Il termine goal commitment sta ad indicare questo tipo di legame, cioè la propensione dell’individuo a impegnarsi per raggiungere un obbiettivo, e la non volontà di attenuare lo sforzo o abbandonare l’azione. Questo impegno risulta maggiore quando le persone hanno grandi aspettative sull’efficacia del proprio agire e quando la persona che pone l’obiettivo è vista positivamente. Se una persona si percepisce come incapace di dare sostegno, il goal commitment risulterà molto inferiore. La partecipazione ad obiettivi resi pubblici, esplicitati, genera, invece, un coinvolgimento maggiore.
Organizational Commitment
Organizational Commitment Con questo termine si intendono quei comportamenti individuali o di gruppo che identificano un impegno, un senso di responsabilità e di dovere verso l’organizzazione. Bisogna distinguere tra organizational commitment e job involvement. Il job envolvement è l’attaccamento al proprio lavoro l’organizational commitement è l’attaccamento tra lavoratore e azienda. Per descrivere il concetto di commitment si può fare ricorso all’idea di fedeltà: la forza del lavoratore di identificarsi e di farsi coinvolgere dalla propria organizzazione.
Organizational Commitment È ormai uso comune, per medie e grandi imprese soprattutto, organizzare delle vere e proprie vacanze “premio” per i propri dipendenti migliori, o meeting aggregativi per stimolare la fidelizzazione, facendo in modo di non legare l’immagine dell’organizzazione solo ad aspetti lavorativi ma anche a riposo e merito, così da far sentire i lavoratori parte di un organismo “familiare”, permettendo ai dipendenti di lavorare più serenamente e all’azienda di avere maggiori introiti. Così facendo il lavoratore sviluppa attrattiva e credenza nei valori della propria organizzazione.
Organizational Commitment I fondamenti del commitment sono tre: Senso di appartenenza all’organizzazione; Senso di piacere nel lavoro; Fiducia nel management. In questo modo il coinvolgimento è direttamente collegato al concetto che la persona ha di se stessa e con il grado con cui essa ritiene importante il proprio ruolo di lavoratore in rapporto agli altri ruoli che egli occupa nella vita. Il coinvolgimento nel lavoro è un concetto multidimensionale e può essere definito come il grado secondo il quale l’individuo si ritrova nel compito assegnatogli, intende essere attivo e considera le sue attività professionali come importanti per lui.
Organizational Commitment Analizzando vari approcci, Mowday, Porter e Steers hanno elaborato una classificazione proponendo una distinzione fra due tipi di commitment: il behavioral commitment e l’attitudinal commitment. Questi Autori hanno formulato una tra le definizioni più accreditate relative all’attitudinal commitment: “uno stato di identificazione e di coinvolgimento di un individuo con una determinata organizzazione e con i suoi obiettivi, nonché il desiderio di continuare ad appartenere ad essa al fine di facilitarne il raggiungimento degli obiettivi stessi” Altri studi hanno messo in evidenza diverse elaborazioni di organizational commitment, ognuna delle quali riconducibile ad uno dei seguenti temi generali: affective commitment: attaccamento affettivo o emozionale all’organizzazione di appartenenza, identificazione con essa, condivisione dei suoi valori e regole; continuance commitment: percezione della convenienza (in termini di valutazione costi-benefici) a restare nell’organizzazione; normative commitment: obbligo morale verso l’organizzazione.
Organizational Commitment L’approccio del commitment come attaccamento affettivo è quello prevalente nella letteratura sull’organizational commitment. Da quanto detto finora l’organizational commitment sembra avere solo aspetti positivi sia per l’azienda che per il lavoratore, ma per Avallone “[è] una delle principali conseguenze dell’insoddisfazione lavorativa. Non tutte le persone trasformano in comportamenti manifesti il proprio stato d’animo: molti per serietà professionale, per assenza di alternative reali, perché non sempre è facile riprogettarsi, vivono in silenzio l’insoddisfazione sul lavoro ma amplificano la separazione tra se stessi e l’organizzazione.[...]
Organizational Commitment Una forte identificazione con l’organizzazione può generare, paradossalmente, forti sentimenti di insoddisfazione, [...], con insopportabili vissuti di perdita e di distruzione da parte degli interessati [...]. Molte persone sperimentano questi ultimi sentimenti di distacco [...], specialmente coloro che avevano trovato nella realtà organizzativa il motivo principale di riconoscimento sociale o l’area privilegiata o addirittura esclusiva di appartenenza e di realizzazione” (Avallone). Quindi l’attaccamento all’organizzazione è utile solo se questa è capace di non tradire la fiducia che il dipendente ha riposto in lei, al contrario il dolore del distacco o del cambiamento può essere insopportabile da sostenere.