Heidegger L’intero sviluppo del pensiero heideggeriano affonda le proprie radici nella denuncia di un oblio del principio fondante la realtà, l’“essere”, oblio dovuto alla volontà della metafisica di racchiudere anche il fondamento ultimo all’interno delle proprie maglie logiche. Così facendo ha portato a considerare l’essere al pari degli enti di cui è il fondamento. Ma «l’essere dell’ente non “è” esso stesso un ente», poiché l’essere determina l’ente in quanto ente, e in quanto determinante non può essere se non ciò che trascende l’ente.
Essere e tempo L’essere non è conoscibile allo stesso modo in cui è possibile conoscere gli enti, poiché esso è ciò che è proprio di ogni ente che si dà nel mondo – animali, vegetali, uomini, oggetti. Essere e tempo, la prima opera fondamentale di Heidegger, è quindi una indagine attorno al problema del senso dell’essere in generale.
Il Da-sein Ogni ricerca presuppone un cercato e un interrogato a cui si chiede del cercato. Essendo il cercato ciò che determina gli enti in quanto enti, ovvero l’essere, l’interrogato dovrà essere un ente, in quanto l’essere è sempre e proprio di un ente. Ma fra gli enti del mondo solo uno è in grado di porsi il problema del senso dell’essere: l’uomo. Questo ente esemplare viene definito da Heidegger esserci (Da-sein). Il termine “esser-ci” accoglie in sé sia il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con l’apertura (il “ci”) dell’essere come tale. L’esserci dell’uomo ha infatti la capacità e la possibilità di interrogare, per tale motivo esso si pone sin dal suo cercare aperto all’essere (sein) in cui propriamente consiste la sua esistenza.
L’esser-nel-mondo Carattere fondamentale dell’esserci dell’uomo è l’esser-nel-mondo (In-der-Welt-sein), il che non significa essere dentro il mondo, ma avere il mondo come orizzonte dell’umano progettare. Il mondo è un “esistenziale” poiché esso si presenta all’uomo attraverso gli enti, le cose, le quali sono innanzitutto per l’uomo strumenti per i propri progetti
L’esistenza inautentica Ritrovandosi già in una condizione precostituita del mondo, l’uomo ne ha una comprensione preliminare determinata dal carattere irriflesso e acritico proprio del modo comune di vivere. Tale comprensione si radica nell’accadere quotidiano, impersonale, anonimo, convenzionale, che coinvolge l’uomo nella chiacchiera dei “si pensa, “si conosce”, “si muore”. Si tratta di un’esistenza inautentica in cui il “si” rappresenta la comprensione preliminare in cui l’uomo è gettato sin dal suo venire al mondo, ma anche da cui e in cui si realizza ogni comprensione autentica.
L’angoscia come possibilità dell’apertura all’esistenza autentica Ma come passare dall’esistenza inautentica all’esistenza autentica? Quale situazione emotiva apre all’esserci la possibilità di tale cambiamento, se la nostra comprensione è condizionata dalla nostra disposizione verso il mondo? Heidegger ritrova nel fenomeno dell’angoscia la possibilità di «cogliere esplicitamente la totalità originaria dell’essere dell’esserci». Nello stato di spaesamento in cui immerge l’uomo isolandolo dal mondo, l’angoscia lo apre al proprio esser solo e manifesta l’apertura dell’esser-nel-mondo autentico. L’angoscia non è paura di qualcosa di determinato, essa sorge dinanzi all’indeterminatezza, o, detta altrimenti, dinanzi a quella mancanza di “senso” che attanaglia l’essere umano in certe esperienze particolari.
L’essere-per-la-morte Ora, l’uomo come possibilità progettuale si scontra con la possibilità della propria impossibilità, la morte, possibilità estrema e incondizionata. Essendo l’uomo aperto alla possibilità esso è anche già, in quanto esistente, gettato nella possibilità della morte. E l’angoscia che provoca questo riconoscersi già coinvolti nella propria morte, che non è la paura del decesso ma la situazione emotiva fondamentale che costituisce «l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine», apre davanti all’uomo la possibilità della vita autentica.
Tempo come ek-stasis L’uomo si trova così immerso nella progettualità dell’esistenza autentica, in cui il futuro, rappresentato dall’estrema possibilità dalla morte, pone le condizioni perché l’uomo scelga di assumere autenticamente il proprio passato e il proprio presente. Le determinazioni del tempo – passato, presente e futuro – possono avere significato solo in relazione reciproca fra loro, per questo Heidegger definisce la temporalità ciò che è «“fuori di sé” in sé e per sé», è quindi ek-statica e in quanto tale costituisce l’esistenza dell’uomo. La storia umana è la conseguenza di questa temporalità originaria.
Oltre la metafisica Essere e tempo è un’opera incompiuta. La terza sezione, che si sarebbe dovuta intitolare Tempo ed essere, e che avrebbe dovuto trattare del senso dell’essere in generale, non è mai stata scritta per la “carenza linguistica” con cui Heidegger si è scontrato. Tale limite viene problematizzato negli scritti successivi, nei quali Heidegger delinea come “destino” dell’essere il dispiegarsi della storia del pensiero occidentale che ha visto, con l’ulteriore sviluppo del pensiero tecno-scientifico, il completo oblio dell’indagine sul senso dell’essere
Verità come άλήϑεια Nella metafisica tradizionale la verità è intesa come corrispondenza tra intelletto e realtà (adaequatio intellectus et rei), ma in che modo qualcosa si adegua a qualcos’altro? Nel momento in cui dico “Questa mela è gialla”, l’asserzione dice della cosa “così come” questa è (gialla). Ma per dire come qualcosa è “così come” è, chi asserisce deve essere disposto ad accogliere la cosa che gli si pone davanti così come essa è. La disposizione è “essere aperto a” e, come abbiamo visto, l’ente che è aperto è l’esserci dell’uomo. Il lasciar-essere comporta il manifestarsi di ciò che si lascia libero di essere. Ciò che si manifesta si svela, si toglie di dosso il velo che copre la sua essenza; il manifestarsi è quindi svelarsi. L’essenza della verità, allora, si rivela, prima che adeguazione, svelatezza (άλήϑεια). Il manifestarsi si lega qui alla concezione fenomenologica del fenomeno come «ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso», ma assume un’accezione più radicale e definita, quale essenza della verità in quanto libertà
La fine della metafisica Secondo Heidegger pensare il mondo attraverso la sua immagine (appunto, la sua rappresentazione) è pensarlo in termini soggettivistici, ovvero come rapporto soggetto-oggetto che oppone al mondo come carattere esistentivo dell’uomo il mondo come ente fra gli enti e la storia come rappresentazione logico-concettuale del mondo (concatenazione causale di eventi). L’epoca metafisica ha pensato la storia nei termini del rapporto soggetto-oggetto, è così passata dalla rivelazione iniziale dell’essere in quanto φύσις, che Heidegger traduce con “apparire”, “manifestarsi”, come “ciò che sboccia da se stesso”, all’occultamento di esso dovuto alla sua traduzione nel latino in “natura”, ovvero in un ente che può essere oggetto di conoscenza.
Nel corso della storia della metafisica la dimenticanza dell’essere ha portato l’uomo a concepire un ente superiore in grado di giustificare la dominazione dell’ente sul nulla: l’apparizione dell’idea di un ens summum – Dio – è il primo grande evento che caratterizza la storia dell’oblio dell’essere. Dio in quanto principio di ragione diventa il garante della conoscenza e del dominio dell’uomo sugli altri enti.
L’apertura all’essere In realtà, la coscienza umana conosce non per la sua origine nell’istinto biologico ma in quanto costitutivamente legata all’originaria apertura all’essere dell’uomo. Per recuperare la possibilità di una conoscenza dell’essere è necessario, quindi, attuare un capovolgimento nel modo di pensare filosofico per riuscire a vedere che non è la coscienza che consente all’uomo di aprirsi all’essere, «ma è l’originaria apertura all’essere che consente all’uomo di avere coscienza degli enti». Ovvero è la costituzione della sua natura di esser-ci che è già possibilità di accogliere l’essere.
La «svolta» (Kehre): il «pensiero meditante» di contro al «pensiero calcolante» Nel corso della sua riflessione Heidegger giunge ad affermare la necessità per l’essere di un pensiero meditante di contro al pensiero logico-concettuale della metafisica che ha assunto nell’era moderna sempre più i caratteri del pensiero calcolante della scienza e della tecnica
L’abbandono del pensiero calcolante L’abbandono si presenta come quell’esperienza necessaria del lasciare l’oggetto della tecnica a se stesso, farlo entrare nel nostro mondo ma non considerarlo come assoluto quanto piuttosto come dipendente esso stesso da qualcosa di più alto. Allo stesso tempo, l’abbandono ha un significato più originario che è quello di lasciare il pensiero calcolante alla sua mera utilizzabilità per porci nelle vicinanze di qualcosa di più radicale e radicato, e soggiornare nell’attesa dell’evento (Ereignis) dell’essere. L’evento non è un semplice accadere ma un ritrovarsi nel fondamento del pensare in cui si esprime la coappartenenza di essere e pensare precedente ad ogni soggettivazione e ad ogni “entificazione”.
Il pensiero poetante come espressione della coappartenenza di essere e pensare La coappartenenza presenta come propria espressione il silenzio, poiché ogni linguaggio risulta inadeguato a esprimerla. Ma non avendo noi nessun modo di dar voce al nostro stupore per il profondo se non la parola, tale silenzio può anche essere rotto senza annullarne l’essenza, sempre che, anziché utilizzare il linguaggio per dominare l’essere, cerchiamo di affidarci alla parola poetica, la quale ci consente non di descrivere l’essere ma di evocarlo. L’opera d’arte, così come la parola poetica, diventano per Heidegger la forma in cui il pensiero può esprimersi per indicare la verità dell’uomo.