Una definizione universalmente accettata del rapporto fra le amministrazioni pubbliche e le politiche economiche non esiste. Possiamo partire da una considerazione.

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Una definizione universalmente accettata del rapporto fra le amministrazioni pubbliche e le politiche economiche non esiste. Possiamo partire da una considerazione di fondo: una buona amministrazione pubblica deve porsi quale strumento di sviluppo nell’ambito della politica economica di un Paese.

Quando in Italia si parla di politiche economiche, si tende a suddividere la scienza economica sottostante in due rami: un ramo positivo (l’economia politica) un ramo normativo (la politica economica) L’economia politica studia il funzionamento concreto del sistema economico o di uno specifico operatore La politica economica studia gli strumenti con i quali l’azione pubblica può raggiungere determinati obiettivi.

La storia reale del pensiero economico fornisce ampie prove del condizionamento storico delle amministrazioni pubbliche. Poiché l’economia è una scienza applicata, strettamente legata ai giudizi sui sistemi e sulle politiche reali, la cosa non deve apparire sorprendente; sarebbe piuttosto sorprendente il contrario, ovvero la totale assenza di tracce tra le teorie economiche, i condizionamenti sociali e l’evoluzione delle amministrazioni pubbliche.

Ai soggetti pubblici spetta il compito di programmare, organizzare, attuare gli obiettivi della politica. In una moderna economia di mercato, d’altra parte, i soggetti pubblici devono sistematicamente confrontarsi con il comportamento dei soggetti privati e con le loro aspettative.

ADAM SMITH Pone le basi dell’economia politica partendo dalla considerazione che ogni ricchezza è prodotta dal lavoro e che ogni individuo è il miglior giudice del proprio interesse. Elabora la teoria della mano invisibile, secondo cui, attraverso il meccanismo degli scambi, gli interessi dei differenti individui e quindi della società in quanto somma di individui, sono realizzati con la massima efficienza.

Smith Se ciascun soggetto è libero di decidere il suo comportamento, se a ciascuna merce si applica il medesimo prezzo (operando in un mercato concorrenziale), ogni individuo troverà l’impiego più vantaggioso per il capitale di cui dispone e, pur perseguendo esclusivamente il proprio interesse, egli, spinto da una mano invisibile, accrescerà contemporaneamente il benessere collettivo.

Smith Pertanto, se il mercato, lasciato libero da impedimenti e costrizioni, è in grado di raggiungere risultati positivi per l’intera società, diviene compito dello Stato e quindi delle amministrazioni pubbliche, quello di giocare un ruolo il più possibile neutrale in campo economico.

Smith In Adam Smith, c’è la consapevolezza che lo Stato ha il compito di assicurare i servizi pubblici essenziali allo sviluppo della società (giustizia, difesa, sanità, opere pubbliche) che non potrebbero essere affidati ai privati poiché questi non sarebbero in grado di porvi mano o per mancanza di mezzi o perché il profitto previsto e’ troppo basso o alternativamente se troppo alto provocherebbe scompensi d’altro tipo.

Smith Con Smith nasce il liberismo economico e vi sono gli embrioni dei primi condizionamenti tra teorie economiche e funzionamento della pubblica amministrazione

DAVID RICARDO Egli non ha mai concordato con quanti hanno ritenuto che a causa degli interessi dovuti sul capitale da rimborsare, il ricorso all’indebitamento trasferisce l’onere della spesa pubblica sulle generazioni future.

Ricardo Secondo le sue teorie, in caso di ricorso al debito, solo il capitale viene sottratto alla ricchezza produttiva della nazione e non gli interessi; negli anni successivi all’emissione del prestito, infatti, vi saranno da un lato persone tenute a pagare tributi per gli interessi e dall’altro, individui che riceveranno il pagamento di tali interessi (i detentori del debito pubblico).

Ricardo In definitiva, per Ricardo le generazioni future non sopportano alcun onere aggiuntivo; indubbiamente, le sue teorie hanno influenzato le amministrazioni pubbliche del tempo.

Ricardo approfondisce per primo un tema che sarebbe divenuto di grande attualità: il problema della scelta tra finanziamento della spesa pubblica con imposta straordinaria o con debito pubblico. Egli aggiunge inoltre che per la generazione presente imposta straordinaria e debito pubblico sono equivalenti perché nel primo caso la collettività sopporta la spesa nel momento in cui l’imposta è istituita; nel secondo caso, invece, la pubblica amministrazione dovrà aumentare le imposte future per pagare gli interessi del debito.

JOHN STUART MILL Mill, mitiga il rigore di Smith e le sue drastiche concezioni sulla necessaria neutralità dell’attività finanziaria pubblica, ipotizzando la possibilità di un intervento pubblico nei casi in cui tale attività fosse in grado di migliorare le condizioni sociali della collettività.

Mill Con Mill si cominciano ad approfondire i legami tra l’attività finanziaria e l’attività economica. Mill è stato anche il primo economista a dare basi solide teoriche alla cosiddetta teoria del “sacrificio uguale”, in base al quale il sacrificio che ogni contribuente deve affrontare per il pagamento delle imposte deve risultare proporzionale per tutti.

Mill Si ha così uguaglianza di carico tributario quando i tributi imposti cagionano ai contribuenti un eguale sacrificio. Il prelievo tributario, effettuato in relazione al principio di decrescenza di utilità economica della ricchezza, per Mill deve pesare sui più abbienti. In tal modo, oltre a ripartire equamente le imposte, si addossa alla collettività il minor sacrificio possibile.

Alla fine del diciannovesimo secolo, il pensiero economico classico viene letteralmente ripudiato e anche se “neoclassico” sembra indicare una certa affinità, le teorie hanno ben poco a che vedere con Smith e Ricardo.

Per i neoclassici, il nuovo principio di fondo è semplice Per i neoclassici, il nuovo principio di fondo è semplice. Il valore di un prodotto non è dovuto solo alla quantità di lavoro in esso compreso, ma risiede anche nell’utilità attribuita dal consumatore all’ultima unità acquistata. la teoria finanziaria neoclassica concentra la propria attenzione prevalentemente su due problemi: > l’allocazione ottimale delle risorse > la ripartizione del carico fiscale

In questo periodo storico appare senza veli e per la prima volta la differente applicazione delle teorie economiche rispetto ai condizionamenti sociali, politici e istituzionali dei differenti paesi e le diverse conseguenze sui sistemi pubblici.

Mentre la scuola neoclassica inglese concentra, alla fine del diciannovesimo secolo, la propria attenzione sulla ripartizione delle imposte, la stessa teoria neoclassica, in altri paesi dell’Europa continentale (come Italia e Francia), conserva un approccio più ampio non scindendo mai il problema delle imposte e quindi della determinazione delle entrate da quello delle spese; il tutto incidendo pesantemente sulla struttura dell’amministrazione pubblica e sul suo funzionamento.

La causa di tale diversità va ricercata nelle differenti condizioni di sviluppo sociale ed economico dei vari paesi europei in questo determinato periodo storico. Mentre in Inghilterra il processo di industrializzazione della struttura economica può considerarsi concluso agli inizi del ‘900, con il ruolo di propulsione dello Stato ridotto al minimo, ...

… in Italia lo Stato interviene nello stesso periodo con vigore a difesa delle nascenti (e molto deboli) industrie; tutto avviene con un aumento considerevole della spesa pubblica e con un processo di responsabilizzazione ai vari livelli del settore pubblico.

l’efficienza e l’equità Arriviamo così all’economia del benessere, a quel filone della teoria economica che valuta il gradimento sociale di situazioni economiche alternative. L’economia del benessere, trae origine da un’opera dell’economista Pigou ma è l’italiano Pareto che la rende organica definendone i criteri fondamentali: l’efficienza e l’equità Criteri che oggi, a distanza di un secolo, ritroviamo su due livelli differenti e con maggiore sofisticazione, nell’analisi della determinazione, per l’azienda pubblica, del valore pubblico.

ARTHUR PIGOU Ritiene che il benessere sociale coincida con il reddito e pertanto con il benessere economico, e il reddito così come ogni altro bene economico, ha un’utilità marginale decrescente. Per tale motivo egli dice che una politica redistributiva, che sposta il reddito dalle fasce più ricche a quelle più povere della popolazione, accresce inevitabilmente il benessere sociale. Tutto questo a patto di non ridurre il volume complessivo del reddito.

VILFREDO PARETO Per Pareto è stato sufficiente dimostrare che un sistema è efficiente se non è possibile aumentare il benessere di un individuo senza diminuire il benessere di qualcun altro.

Pareto Egli fissa in tre condizioni l’efficienza: efficiente combinazione dei fattori produttivi, l’ottima combinazione del prodotto massima efficienza negli scambi. Con queste tre condizioni, la società raggiunge la frontiera della possibilità, costituita dalle infinite combinazioni che assicurano l’efficiente allocazione delle risorse disponibili.

I tentativi di Pigou non hanno trovato, nel contesto storico ed economico di inizio diciannovesimo secolo, il favore degli studiosi. In particolar modo è stato contestata l’impossibilità di comparare le variazioni di benessere tra persone diverse; per tale motivo ogni giudizio su una politica redistributiva non può essere frutto che di un giudizio di valore

L’influenza maggiore sulla politica neoclassica appartiene senza ombra di dubbio all’economista Say. La legge di Say afferma che l’offerta di beni crea la domanda e pertanto non può esserci sovrapproduzione rispetto alla domanda per un lungo periodo di tempo. Secondo Say, ogni spostamento da un equilibrio di questo tipo determina un riaggiustamento ad opera delle forze di mercato sino al raggiungimento di un reddito nazionale di cosiddetta piena occupazione.

Secondo questa teoria, se su un mercato c’è un’insufficienza di domanda, è necessario ammettere che su qualche altro mercato c’è un’insufficienza dell’offerta.

Se la legge di Say è considerata accettabile, non si può non dedurre che tutto quello che viene prodotto è certamente venduto, a qualsiasi livello complessivo di produzione. S’intende pertanto che l’azienda ha sempre interesse a produrre al massimo della capacità del sistema economico; l’unico limite potrebbe essere dato dalla forza lavoro disponibile.

CARLO MARX Egli ha liquidato la legge di Say, affermando che in un sistema capitalistico, la moneta non è solo mezzo di scambio, ma anche capitale. In un sistema di questo tipo, non tutta la moneta riscossa viene spesa. > coloro che hanno redditi appena sufficienti ai loro bisogni, utilizzano tutta la moneta disponibile; > coloro che invece hanno redditi elevati, non spendono tutto subito ma risparmiano in attesa di situazioni maggiormente vantaggiose. Poiché gli imprenditori acquistano beni strumentali quando ritengono ci sia convenienza, ne consegue che non sempre si verifica la legge di Say.

Marx Marx, variamente giudicato, criticato, al tempo stesso osannato e detestato, rappresenta il primo grande esempio di quanto una teoria economica possa incidere sulla costruzione di nuove politiche che a loro volta caratterizzano l’intero funzionamento del sistema economico, privato e pubblico.

Marx L’analogia tra il capitalismo e le forme precedenti di società, circa l’appropriazione di un surplus da parte di persone che non partecipano all’attività produttiva, è per Marx un dato storico derivante dall’esperienza sociale.

Marx Egli mostra l’analogia che esiste tra situazioni in cui l’appropriazione di plusvalore è sancita politicamente o in cui è riconosciuta di fatto, come “nella forma capitalistica di sfruttamento”

Marx Nel diciannovesimo secolo, per Marx, il problema economico non consiste nel dimostrare l’appropriazione, bensì nel conciliarla con la legge del valore: nello spiegare, in altri termini, come essa si verifichi nel regno della concorrenza e della “mano invisibile” di Adam Smith del secolo precedente, sino a quel momento punto di riferimento del liberismo economico

Marx Marx ha avviato l’esposizione della teoria del plusvalore nel primo libro del Capitale, partendo dal presupposto che le merci vengono scambiate secondo il loro valore, quindi proporzionalmente.

Marx Verso la fine del secondo libro del capitale, prima di affrontare la questione del prezzo e del valore, Marx sviluppa il concetto delle due principali sezioni della produzione sociale e l’analisi dei loro rapporti. L’attenzione si concentra in questa fase nella connessione con i rapporti strutturali dello sviluppo economico.

Com’è noto, Marx non ha mai portato a termine e tanto meno riveduto e corretto il secondo e il terzo libro del Capitale. E’ stato Engels a raccogliere e pubblicare, dopo la morte di Marx (1883) le sue annotazioni, definendole nella sua prefazione al secondo libro del Capitale, “un insieme di studi incompiuti e per lo più frammentari”.

NUOVE POLITICHE ECONOMICHE TEORIA ECONOMICA DETERMINA SISTEMA POLITICO NUOVE POLITICHE ECONOMICHE SISTEMA ECONOMICO CONDIZIONANO INCIDE SU SISTEMA AZIENDALE I condizionamenti delle teorie economiche sulle politiche

JOHN MAYNARD KEYNES Con Keynes si arriva ad un’unica soluzione: “se il mercato si dimostra incapace di raggiungere autonomamente l’equilibrio, occorre che lo Stato svolga un ruolo più attivo nella vita economica”. In sostanza, per Keynes, la finanza pubblica deve agire sul sistema economico trasformandosi da semplice attività di raccolta di denaro per affrontare la spesa, in un’attività di direzione politica e sociale. In quest’accezione (senza dubbio molto forte) si è anche parlato di finanza funzionale come strumento di programmazione e sviluppo.

Keynes Keynes ha pertanto ritenuto che la finanza pubblica potesse eliminare gli squilibri territoriali, correggere gli andamenti dei cicli economici, incrementare il reddito nazionale, mantenere in pieno regime occupazionale le varie forme di produzione e infine prevedere le esigenze delle generazioni future.

Keynes In sostanza, per Keynes, la finanza pubblica deve agire sul sistema economico trasformandosi da semplice attività di raccolta di denaro per affrontare la spesa, in un’attività di direzione politica e sociale. In quest’accezione (senza dubbio molto forte) si è anche parlato di finanza funzionale come strumento di programmazione e sviluppo.

Keynes La tesi dominante di Keynes è che un deficit di bilancio determina comunque effetti espansionistici per il sistema economico, anche se finanziato attraverso l’indebitamento dello Stato (ovviamente senza l’emissione di carta moneta addizionale che invece provocherebbe effetti inflazionistici).

Keynes Nella visione degli economisti classici, la politica di bilancio era semplicemente un mezzo straordinario d’intervento pubblico; per i keynesiani, diventa lo strumento permanente dell’attività finanziaria dello Stato. Il meccanismo che per Keynes, consente la regolazione dei cicli economici è il moltiplicatore che stimola il sistema economico in periodi di crisi e rallenta l’espansione nelle fasi di boom.

Keynes Nell’impostazione Keynesiana, l’assenza di investimenti privati in periodi di crisi economica può essere compensata da un aumento della spesa pubblica, che grazie all’effetto del moltiplicatore, può stimolare una crescita dell’intero sistema economico del Paese.

Keynes Nel modello di Keynes il reddito nazionale è dato dalla somma di tre differenti componenti: la domanda di consumi indispensabili indicata con Co; la domanda per consumi strettamente legata al reddito indicata con cY; gli investimenti, influenzati dal tasso d’interesse (i) e dalle aspettative degli imprenditori (a), sono indicati con I(i,a).

Keynes Il reddito nazionale per Keynes può pertanto essere espresso con: Y= Co + cY + I (i,a)

Keynes Se si indica con A la parte della domanda non legata al reddito e quindi Co e I (i,a), si potrebbe scrivere la formula precedente con: Y= cY + A, anche invertendo l’equazione con Y-cY= A

Keynes Mettendo in evidenza il reddito nazionale si ha un’espressione di questo tipo: Y(1-C)= A che può tranquillamente essere rappresentata con Y= 1 A 1 - c rappresenta il moltiplicatore del reddito che indica, in seguito ad un incremento iniziale della domanda aggregata di quanto può aumentare il reddito nazionale. 1 1-c

Keynes La spesa pubblica è una componente della domanda aggregata poiché risponde prevalentemente a esigenze di carattere politico; la conseguenza è che un incremento della spesa, attraverso il moltiplicatore, determina un aumento del reddito.

Keynes Per Keynes, la spesa non deve pertanto essere finanziata con l’emissione di carta moneta, al fine di evitare effetti inflazionistici, ma solo attraverso deficit spending, convertendo i risparmi in investimenti; oppure facendo ricorso al tradizionale sistema della tassazione riducendo però gli effetti del moltiplicatore.

Keynes La formula finale del moltiplicatore in presenza di un’imposta progressiva sul reddito è così sintetizzata: 1 1 – c(1 – t) Un incremento iniziale della domanda pubblica conseguente ad un aumento della spesa pubblica, determina un effetto minore, poiché le imposte riducono la parte di reddito che i privati potrebbero destinare al consumo.

Le teorie di Keynes hanno suscitato grandi entusiasmi dopo il 1929 e soprattutto nel periodo di ricostruzione post-bellico ed hanno sicuramente contribuito a definire gli aspetti centrali delle policies di alcuni Paesi dell’Europa occidentale, tra i quali l’Italia.

Dopo lo shock petrolifero del 1973, anche le teorie di Keynes sono apparse poco valide e in alcuni casi assolutamente inadeguate. La comparsa sullo scenario della stagflazione, ovvero della contemporanea presenza di inflazione e stagnazione ha, di fatto, determinato un ripensamento delle nuove finalità dell’intervento pubblico.

La critica più dura alle teorie Keynesiane è arrivata dalla cosiddetta scuola monetarista nata a Chicago. Per i monetaristi, le grandezze monetarie non influenzano le grandezze reali ed il sistema economico è sempre in grado di assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi.

Per molti, la teoria monetarista è una riproposizione raffinata e meglio articolata della teoria neoclassica. L’esponente di maggior rilievo della scuola monetarista è sicuramente Friedman, che a chiare lettere dice che l’inflazione è sempre un fenomeno monetario. L’unico obiettivo raggiungibile attraverso una politica monetaria è quello del controllo dell’inflazione attraverso il controllo del tasso di incremento annuo della quantità di moneta.

Per quanto concerne invece le politiche fiscali, per i monetaristi, la spesa pubblica aumenta in corrispondenza delle entrate fiscali disponibili e pertanto, è opportuno intervenire con tagli fiscali come mezzo di riduzione della spesa pubblica.

Questo pensiero ha certamente influenzato numerosi interventi di politica economica soprattutto negli USA nel periodo dell’amministrazione Reagan (che ha proceduto a una riduzione delle imposte ancor prima di diminuire la spesa) e in Inghilterra durante i governi Thatcher.

Anche il Fondo Monetario Internazionale ha spesso imposto, negli anni ’80 un maggior controllo della politica monetaria e fiscale. Si può tranquillamente asserire che l’analisi delle esperienze dimostra come la politica monetaria riduca certamente l’inflazione, producendo facilmente recessione. Infatti, la riduzione dell’inflazione in Inghilterra nel periodo 1980-1985 e quella degli USA tra il 1981 e il 1986, sono state seguite da profondissime recessioni.

Negli anni ’80 si sviluppa la nuova macroeconomia classica, che riprende le tematiche portanti del pensiero economico classico, inserendolo in un contesto macroeconomico. Questa scuola che annovera tra i maggiori esponenti Robert Lucas negli Stati Uniti e Patrick Minford in Inghilterra, porta alle estreme conseguenze le idee dei monetaristi concentrando l’attenzione su due aspetti particolari del sistema economico come la flessibilità dei salari e dei prezzi e il ruolo delle aspettative razionali nell’influenzare l’operato dei soggetti economici.

Mentre i monetaristi ammettono che la flessibilità dei prezzi e dei salari c’è nel lungo periodo ma nel breve è possibile avere una situazione di squilibrio temporaneo, gli economisti della macroeconomia classica negano la possibilità che il sistema economico possa essere in squilibrio anche nel breve periodo; pertanto ogni livello di disoccupazione che si realizza nel sistema economico rappresenta un tasso di disoccupazione di equilibrio o di disoccupazione volontaria.

Sempre negli anni ottanta, c’è stata una scuola di pensiero che ha vissuto un momento di grande notorietà. E’ la scuola che ha accomunato diversi economisti (Laffer e Boskin tra tutti), meglio conosciuta come ECONOMIA DELL’OFFERTA.

Economia dell’offerta L’idea centrale è costituita dalla convinzione che la crescita economica è determinata da fattori reali e non monetari; la crescita è pertanto influenzata da fattori propri del mercato come:  la mobilità dei lavoratori,  il tasso di crescita della popolazione,  l’utilizzo di un’efficiente combinazione produttiva che impattano sul settore reale.

La supply side ha pertanto ripreso gli argomenti del cosiddetto liberismo economico, affermando che quando vi è il perfetto funzionamento del mercato, c’è una conseguente piena occupazione ed una crescita del sistema.

Questa teoria è stata, come del resto è accaduto anche alle altre, diffusamente e variamente interpretata. Ed allora ci si è ritrovati con casi differenziati: da un lato casi con misure di politica economica caratterizzate da immediata riduzione del prelievo fiscale e vendita di aziende dello stato, dall’altro interpretazioni che hanno dimostrato che l’obiettivo della crescita non implica necessariamente la cessione delle imprese pubbliche.

L’azienda pubblica, può infatti raggiungere l’obiettivo di una crescita del sistema economico purché la sua esistenza sia coerente con le trasformazioni del sistema e con le esigenze del mercato.

 I sistemi economici condizionano le determinanti del funzionamento delle amministrazioni pubbliche;  Le teorie economiche vivono in simbiosi con le altre determinanti caratterizzanti un Sistema Paese e ne subiscono a loro volta i condizionamenti;  Sin dalla nascita delle prime teorie, l’oggetto di analisi, valutazione e critica è comunque stato il comportamento del soggetto pubblico.

Nei sistemi economici moderni, appaiono sempre più uniformi le forme che l’intervento pubblico assume. Gli obiettivi economici generali che l’operatore pubblico persegue sono solitamente caratterizzati da macrofiloni d’intervento come: l’efficiente allocazione delle risorse un’equa distribuzione della ricchezza e del reddito la stabilità della crescita economica l’equilibrio dei conti con l’estero lo sviluppo economico

Pur non mancando coloro che sottolineano come l’intervento pubblico comporti necessariamente effetti negativi, è bene evidenziare che invece lo scopo dell’intervento pubblico nella vita economica è semplicemente quello di accrescere il benessere collettivo; ed è su questo che va valutata l’azione pubblica e il funzionamento delle amministrazioni.

E’ possibile riassumere le moderne teorie politico-economiche dello Stato in tre principali tipi di intervento pubblico nell’economia: la redistribuzione dei prodotti; la stabilizzazione macroeconomica; la regolazione del mercato.

La redistribuzione include tutti i trasferimenti di risorse da un gruppo di individui, di imprese, di enti locali, regioni o Paesi verso altri gruppi, altri territori, altri Paesi; così come anche l’offerta di beni cosiddetti meritori, quali l’istruzione primaria, le assicurazioni sociali, i servizi sanitari e tanti altri beni simili, sono parte integrante della redistribuzione.

La stabilizzazione macroeconomica tenta di raggiungere e sostenere livelli soddisfacenti di crescita economica e e di occupazione; gli strumenti principali sono la politica fiscale e quella monetaria, insieme con la politica del mercato del lavoro e quella industriale.

Le politiche di regolazione del mercato sono finalizzate alla correzione dei vari tipi di “fallimento del mercato” come: gli effetti del monopolio, l’informazione incompleta, le esternalità negative, l’insufficiente offerta di beni pubblici e così via.

Tutti gli Stati moderni svolgono in qualche modo tutte e tre le funzioni, ma l’importanza relativa di ciascuna varia da Paese a Paese, da territorio a territorio e in funzione di un determinato periodo storico

Pur non mancando coloro che sottolineano come l’intervento pubblico comporti necessariamente effetti negativi, è bene evidenziare che invece lo scopo dell’intervento pubblico nella vita economica è semplicemente quello di accrescere il benessere collettivo; ed è su questo che va valutata l’azione pubblica e il funzionamento delle amministrazioni.

Da questo punto di vista va sottolineata la nascita e la crescita, nel mondo anglosassone, della scuola delle cosiddette “scelte pubbliche” conosciuta come PUBLIC CHOICE.

Il punto chiave della scuola di public choice è la convinzione che tutti gli operatori politici operano come dei soggetti economici

Per tale impostazione, l’elettore cerca sempre di far fruttare al meglio la propria scelta politica, così come il politico tenta di massimizzare il consenso attraverso l’adozione di specifiche policies.

L’obiettivo più importante delle analisi di public choice è lo studio dei comportamenti degli operatori coinvolti a vario titolo nell’assunzione di determinate scelte politiche e della loro influenza sui diversi livelli finanziari (entrate e spese) dello Stato. I soggetti sono ovviamente i gruppi di pressione le imprese, i sindacati la burocrazia i politici gli stessi elettori

Questa impostazione in qualche modo cambia ancora l’impostazione di tipo Keynesiano che vede lo Stato come soggetto che opera al fine di massimizzare il benessere della collettività. Per la public choice, non si configura un fallimento del mercato ma un fallimento dello Stato

Lo Stato e quindi le amministrazioni pubbliche, non possono garantire un efficace utilizzo delle risorse economiche in quanto subiscono condizionamenti che non possono permettere il conseguimento del benessere dell’intera collettività.