Insegnare la luce ITIS Leonardo da Vinci, Carpi, 4 ottobre 2005

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Le Fibre Ottiche 15/10/2013. Willebrord Snel van Royen, latinizzato come Willebrordus Snellius o semplicemente Snellius (Leida, 1580 – Leida, 30 ottobre.
Transcript della presentazione:

Insegnare la luce ITIS Leonardo da Vinci, Carpi, 4 ottobre 2005 Corpuscoli, raggi, onde: episodi nella storia dell’ottica Dallo Zingarelli: rapsodico (seconda accezione): scarsamente unitario, frammentario; es.: lettura rapsodica

Due temi ricorrenti: di che cosa “è fatta” la luce; “quanto in fretta va?” È conforme alla sua visione complessiva che Galileo si sia interessato piuttosto alla seconda questione che non alla prima.

Da “Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze” Sagr. Ma quale e quanta doviamo noi stimare che sia questa velocità del lume? forse instantanea, momentanea, o pur, come gli altri movimenti, temporanea? né potremo con esperienza assicurarci qual ella sia? Simp. Mostra l'esperienza quotidiana, l'espansion del lume esser instantanea; mentre che vedendo in gran lontananza sparar un'artiglieria, lo splendor della fiamma senza interposizion di tempo si conduce a gli occhi nostri, ma non già il suono all'orecchie, se non dopo notabile intervallo di tempo.

Sagr. Eh, Sig. Simplicio, da cotesta notissima esperienza non si raccoglie altro se non che il suono si conduce al nostro udito in tempo men breve di quello che si conduca il lume; ma non mi assicura, se la venuta del lume sia per ciò istantanea, più che temporanea ma velocissima. Né simile osservazione conclude più che l'altra di chi dice: «Subito giunto il Sole all'orizonte, arriva il suo splendore a gli occhi nostri»; imperò che chi mi assicura che prima non giugnessero i suoi raggi al detto termine, che alla nostra vista?

Salv. La poca concludenza di queste e di altre simili osservazioni mi fece una volta pensare a qualche modo di poterci senza errore accertar, se l'illuminazione, cioè se l'espansion del lume, fusse veramente instantanea; poiché il moto assai veloce del suono ci assicura, quella della luce non poter esser se non velocissima: e l'esperienza che mi sovvenne, fu tale. Voglio che due piglino un lume per uno, il quale, tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo, con l'interposizion della mano, alla vista del compagno, e che, ponendosi l'uno incontro all'altro in distanza di poche braccia, vadano addestrandosi nello scoprire ed occultare il lor lume alla vista del compagno, sì che quando l'uno vede il lume dell'altro, immediatamente scuopra il suo; la qual corrispondenza, dopo alcune risposte fattesi scambievolmente, verrà loro talmente aggiustata, che, senza sensibile svario, alla scoperta dell'uno risponderà immediatamente la scoperta dell'altro, sì che quando l'uno scuopre il suo lume, vedrà nell'istesso tempo comparire alla sua vista il lume dell'altro.

Aggiustata cotal pratica in questa piccolissima distanza, pongansi i due medesimi compagni con due simili lumi in lontananza di due o tre miglia, e tornando di notte a far l'istessa esperienza, vadano osservando attentamente se le risposte delle loro scoperte ed occultazioni seguono secondo l'istesso tenore che facevano da vicino; che seguendo, si potrà assai sicuramente concludere, l'espansion del lume essere instantanea: ché quando ella ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia, che importano sei per l'andata d'un lume e venuta dell'altro, la dimora dovrebbe esser assai osservabile. E quando si volesse far tal osservazione in distanze maggiori, cioè di otto o dieci miglia, potremmo servirci del telescopio, aggiustandone un per uno gli osservatori al luogo dove la notte si hanno a mettere in pratica i lumi; li quali, ancor che non molto grandi, e per ciò invisibili in tanta lontananza all'occhio libero, ma ben facili a coprirsi scoprirsi, con l'aiuto de i telescopii già aggiustati e fermati potranno esser commodamente veduti.

Sagr. L'esperienza mi pare d'invenzione non men sicura che ingegnosa. Ma diteci quello che nel praticarla avete concluso. Salv. Veramente non l'ho sperimentata, salvo che in lontananza piccola, cioè manco d'un miglio, dal che non ho potuto assicurarmi se veramente la comparsa del lume opposto sia instantanea; ma ben, se non instantanea, velocissima, e direi momentanea, è ella, e per ora l'assimiglierei a quel moto che veggiamo farsi dallo splendore del baleno veduto tra le nugole lontane otto o dieci miglia; del qual lume distinguiamo il principio, e dirò il capo e fonte, in un luogo particolare tra esse nugole, ma bene immediatamente segue la sua espansione amplissima per le altre circostanti; che mi pare argomento, quella farsi con qualche poco di tempo; perché quando l'illuminazione fusse fatta tutta insieme, e non per parti, non par che si potesse distinguer la sua origine, e dirò il suo centro, dalle sue falde e dilatazioni estreme. Ma in quai pelaghi ci andiamo noi inavvertentemente pian piano ingolfando? tra i vacui, tra gl'infiniti, tra gli indivisibili, tra i movimenti instantanei, per non poter mai, dopo mille discorsi, giugnere a riva?

Notizie biografiche su Grimaldi Francesco Maria Grimaldi nacque a Bologna il 2 aprile 1618. Entrò nella Compagnia di Gesù nel 1632 e fu ordinato sacerdote nel 1651. Compì i suoi studi nei collegi gesuitici di Novellara, Parma e Bologna. Nel Collegio di Bologna fu in seguito insegnante di filosofia e quindi di matematiche. Sempre a Bologna si spense, ad appena 45 anni, il 18 dicembre 1663. Grimaldi collaborò con Giovan Battista Riccioli a ricerche teoriche, osservative e sperimentali. Riccioli riconobbe il ruolo essenziale avuto da Grimaldi per il completamento del suo Almagestum novum (1651). Grimaldi è anche responsabile di una gran parte del lavoro per la redazione delle tavole che appaiono nel secondo volume dell’Astronomia reformata (1665), dello stesso Riccioli.

Grimaldi e la scoperta della diffrazione L’osservazione delle ombre proiettate da corpi opachi illuminati dalla luce solare o da sorgenti puntiformi realizzate in laboratorio portava a concludere che la luce in un mezzo omogeneo trasparente si propaga in linea retta. Grimaldi fu il primo a documentare e descrivere in qualche dettaglio un’anomalia. http://www.scienzagiovane.unibo.it Indice/scienziati bolognesi

Ciò avvenne nel corso di un suo tentativo di sottoporre a controlli stringenti il modo in cui si concepivano a quell’epoca i raggi luminosi: essi dovevano essere appunto delle “rette”, ma non nel senso stretto che il termine ha in geometria, in quanto dovevano avere, per rappresentare qualcosa di fisico, un sia pur minimo spessore. Allo scopo di controllare questa idea, Grimaldi praticò un piccolo foro nell’imposta di una finestra, facendo così entrare in una stanza la luce del Sole.

La propagazione della luce nella stanza avverrà allora lungo un cono “che sarà visibile se nell’aria vi sarà del pulviscolo o se vi si produce un po’ di fumo”. Frapponendo sul percorso della luce un corpo opaco, esso produrrà un’ombra su un foglio di carta bianca, steso perpendicolarmente alla direzione dell’asse del cono. Ma – ed in questo consiste il primo aspetto della scoperta – “il limite dell’ombra ne rimane in certo qual modo poco definito, per una certa penombra, dotata di una gradazione sensibile ... nei tratti tra l’ombra totale e il lume pieno ... ” Inoltre, l’ombra complessiva appariva considerevolmente più ampia di quella che avrebbe dovuto essere supponendo “che ogni cosa avvenisse per linee rette.”

Questi aspetti sono discussi da Grimaldi con l’ausilio della figura seguente, ripresa dal De lumine: AB è il foro dal quale penetra la luce; EF è l’ostacolo opaco immesso nel cono di luce; MN è l’ombra proiettata, considerevolmente maggiore di quella prevista dalla legge della propagazione rettilinea; IG e HL sono le zone di penombra, GH la zona di piena ombra.

Grimaldi osservò anche che nelle regioni CM e ND la luce appariva distribuirsi in qualche modo a ventaglio, nel senso essa si concentrava (in “frange”) intorno a certe direzioni privilegiate; nel mezzo di ciascuna frangia la luce risultava “pura e genuina”, mentre agli orli presentava qualche colorazione. Le frange, infine, mostravano una certa dipendenza dalla grandezza del foro, e scomparivano se esso diventava troppo grande.

Ecco come, nel brano che segue, tratto da un testo recente di fisica generale, si introduce il lettore all’argomento degli scarti dalla legge della propagazione rettilinea della luce:   <<Consideriamo, ad esempio, l’ombra proiettata dal bordo di un oggetto opaco. Se la sorgente luminosa è puntiforme, allora, secondo questa legge, ci si deve aspettare che sullo schermo si ottenga una frontiera netta tra zona oscura e la regione chiara. In realtà esiste una zona di transizione nella quale il grado d’illuminazione varia in modo continuo e non monotono: qui si osservano ‘frange di diffrazione’>> Si noterà come la situazione descritta e la descrizione stessa siano estremamente simili a quelle che si trovano in Grimaldi.

Si devono a Grimaldi non soltanto la scoperta del fenomeno, ma anche il termine usato per descriverlo e un primo tentativo di interpretazione. Per qualificare la modalità anomala di propagazione della luce da lui individuata e descritta, egli coniò infatti l'avverbio diffracte (da diffringo, spezzo), mentre poi inferì dall'esito dei suoi esperimenti che "almeno qualche volta" (saltem aliquando) la luce deve propagarsi ondulatoriamente (undulatim). Naturalmente una compiuta lettura ondulatoria è di molto posteriore. Il trattato di Grimaldi comparve in stampa proprio in quell’annus mirabilis (1665-66)in cui il ventritreenne Newton effettuò, fra l’altro, gli esperimenti di ottica, in particolare sulla rifrazione, che lo resero giustamente famoso.

Newton e l’ottica “All’inizio dell’anno 1665 trovai il Metodo di approssimazione delle serie e la regola per ridurre un qualunque esponente di un binomio qualsiasi a tali serie. Lo stesso anno trovai il metodo delle tangenti […] e in novembre avevo il metodo diretto delle flussioni e l’anno successivo in gennaio la teoria dei colori e il maggio seguente possedevo il metodo inverso delle flussioni. E nello stesso anno cominciai a pensare alla gravità che si estende fino all’orbita della Luna […]. Tutto ciò avvenne nei due anni della peste del 1665 e 1666, poiché in quei giorni ero nel fiore dell’età creativa e attendevo alla Matematica e alla Filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito”.

Esperimento che mostra che la luce bianca è composta: un fascio di luce bianca è fatto passare atraverso un prisma; il risultato è un ampio fascio che dispiega uno spettro di colori; facendolo passare attraverso un secondo prisma, si riottiene un fascio sottile di luce bianca; se, tuttavia, si permette a un colore di passare, il fascio dopo il secondo prisma ha ancora questo solo colore. Newton concluse che la luce bianca è in realtà una mixture di raggi colorati, e che questi non sono composti di entità più basilari.

È probabile che Newton sia venuto per tempo a conoscenza dei risultati di Grimaldi, visto che ne sono stati riscontrati influssi nella sua opera. Egli in ogni caso citò il De lumine nella sua Optics (pubblicata nel 1704). Dato però che nel frattempo aveva aderito alla concezione secondo la quale la propagazione della luce avveniva in termini di corpuscoli e non di onde, pur compiendo a sua volta esperimenti che confermavano e perfezionavano quelli di Grimaldi, volle trovarne una spiegazione in termini di rifrazioni e riflessioni che avvenivano sui bordi degli ostacoli frapposti sul cammino della luce. E questo benché Grimaldi avesse provato che la diffrazione non dipendeva da esse. Anche come conseguenza dell’autorità di Newton, a lungo non si parlò più di diffrezione, fino a quando, nel 1818, il fenomeno, l’interpretazione e la stessa denominazione non furono rimessi in auge da Fresnel.

Diffrazione e velocità nei mezzi secondo la concezione newtoniana: la velocità deve essere maggiore nel mezzo a maggior indice di rifrazione:

Diffrazione e velocità nei mezzi secondo la concezione ondulatoria

Di nuovo la velocità. E finalmente una determinazione (Römer, 1686) All’Osservatorio di Parigi, Römer stava compiendo uno studio sistematico di Io, riscontrando che era eclissato a intervalli regolari. Ma da un certo momento in poi riscontrò che le eclissi andavano gradualmente ritardando rispetto al momento previsto. Nel settembre del 1686 egli produsse una spiegazione del fenomeno: al muoversi dei due pianeti sulle loro orbite la loro distanza variava. La luce si propagava a velocità finita da Io alla Terra, e ci metteva più tempo a raggiungerla quando la distanza era maggiore. Quando la Terra era alla massima distanza da Giove, la luce doveva compiere una distanza aumentata del valore del diametro dell’orbita terrestre.

Naturalmente occorreva conoscere il raggio dell’orbita terrestre. Dai suoi dati Römer ricavò per la velocità della luce un valore intorno a 210.000 km/s.

I corpuscoli newtoniani in Michell, Laplace e Soldner* John Michell, 1783 – P.S. de Laplace, 1796 La velocità di fuga. Da: nel caso del Sole Se il raggio del Sole fosse di circa 3 km, sarebbe v=c *Jean Eisenstaedt, Avant Einstein, Éditions du Seuil, 2005

Buchi neri di Schwarzschild-Wheeler Coordinate di Eddington- Finkelstein uscenti. Il raggio di Schwarzschild è diventato un luogo-luce

J. Soldner, 1801, “Concerning the deflection of a light ray from its straight path due to the attraction of a heavenly body which it passes closely”. Per un sistema non legato si avrà una traiettoria iperbolica r α Per v=c, il valore “newtoniano”

Risultato della relatività generale: Parametrizzazione post-newtoniana: Teoria di Brans-Dicke:

Velocità della luce: una misura terrestre? Per compiere un percorso di 2 km la luce ci metterebbe qualcosa come un centomillesimo di secondo. Non sembrano poterci essere lanterne adeguate. O no? Esperimenti di Fizeau e di Foucault. Nel primo una rapidissima apertura e chiusura della lanterna è simulata dall’alternarsi di denti ed incavi; alla seconda lanterna Fizeau sostituì uno specchio.

Va sottolineato come, nell’uno come nell’altro caso, la velocità della luce sia misurata su un percorso chiuso (di andata e ritorno)

Un esperimento cruciale? Nel 1850 Foucault, introducendo una variante nel suo dispositivo dello specchio rotante, misurò la velocità della luce in acqua, trovando un valore minore che per il vuoto. Lakatos ha scritto che solo quando il programma di ricerca di Einstein “predisse” e spiegò l’esito negativo dell’esperimento di Michelson-Morley, nonché “un’enorme schiera di fatti di cui prima di allora non ci si era nemmeno sognati”, esso poté apparire come il più grande esperimento negativo della storia della scienza*. I.Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca”, in Critica e crescita della conoscennza, Feltrinelli, 1976.

Ci sono dunque esperimenti cruciali che appaiono tali solo con uno sguardo retrospettivo. Ma ci sono anche esperimenti, come quello di Foucault, che apparvero cruciali quando furono eseguiti e non appaiono più tali ai giorni nostri. Duhem “ha sottolineato che l’esperimento di Foucault non ha deciso fra due ipotesi isolate, ma fra due sistemi teorici completi. È vero che la teoria corpuscolare come concepita dai newtoniani dell’inizio del diciannovesimo secolo è condannata. Ma non è inconcepibile che una teoria futura potrebbe essere costruita su un’ipotesi corpuscolare con l’aiuto di qualche ipotesi ausiliaria che sarebbe diversa da quelle che entravano nel sistema newtoniamo”.

“Quando Duhem formulò le sue argomentazioni, questa era solo un’astratta possibilità. Tuttavia poco dopo Einstein reintrodusse nella fisica l’idea di una natura corpuscolare della luce ...”* *Yoav Ben-Dov, “Local Realism and the Crucial Experiment”, in Frontiers of Fundamental Physics, edited by Michele Barone e Franco Selleri, Plenum Press, 1994.

Interferenza: esperimento di Young (1801)

Il problema dell’etere – Maxwell, 1878 _________________________________ A B

Ma e quindi

Michelson e Morley, 1887

La propagazione della luce nel vuoto secondo la relatività ristretta In ogni sistema inerziale la luce si propaga nel vuoto isotropicamente da ogni punto con velocità c. - La proposizione è contraria al senso comune e non appare direttanmente controllabile Infatti la velocità della luce si misura, di fatto, su percorsi di andata e ritorno. Per misurarla su percorsi di sola andata (impulso luminoso che viaggia da A a B) bisogna disporre in A e B di orologi sincronizzati. Se il procedimento di sincronizzazione è quello einsteiniano si cade immediatamente in un giro vizioso. Tuttavia ...

Una riflessione sull’elettromagnetismo In elettromagnetismo c è dunque una costante universale. Ma come può una velocità essere una costante universale? Fin dall’inizio c sembra dover essere fissata solo come “velocità nel” mezzo, non anche come velocità “rispetto al” mezzo inteso come sistema di riferimento.

Per Einstein la velocità della luce, da buona costante universale, doveva (e poteva) avere quel valore se nel vuoto, dunque in quel “mezzo”, non rispetto a quel mezzo. E dunque non dipendere dal nostro stato di moto rispetto ad esso. Nell’articolo del 1905 “Sull’elettrodinamica dei corpi in moto”, Einstein introduce la costanza di c come postulato. Nell’articolo dello stesso anno, “Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt abhängig?”, egli introduce come principio solo quello di relatività, e scrive in nota che “il principio della costanza della velocità della luce, di cui ci si è avvalsi lì, è contenuto in modo naturale nelle equazioni di Maxwell”.

Einstein e i quanti di luce 1905: Einstein è a conoscenza della teoria e della formula di Planck, ma sottolinea che secondo la meccanica statistica, agli oscillatori planckiani spetterebbe un’energia media kT, e che, come conseguenza, la formula valida dovrebbe essere la: Ed Einstein è il primo ad affermare, dunque, che la fisica classica fallisce completamente nel tentativo di interpretare i fenomeni relativi alla radiazione termica per lo meno alle alte frequenze.

Poiché, secondo questa conclusione, non esiste una teoria capace di rendere conto del comportamento della radiazione termica alle alte frequenze, c’è un lavoro da pionieri da svolgere nel tentativo di arrivare ad essa in un futuro non si sa quanto prossimo. C’era una formula che descriveva molto bene il comportamento della radiazione termica alle alte frequenze. È la formula introdotta da Wilhelm Wien nel 1896, la Einstein la considera come un risultato sperimentale, nel senso che, a prescindere dal significato che le attribuiva l’autore, descriveva bene i dati alle alte frequenze. E la usa in un modo strano: e cioè per rispondere alla domanda: che cosa - cioè che tipo di oggetti – descrive una radiazione descritta da questa legge?

E, con uno studio raffinato, arriva a questa conclusione: essa descrive un insieme di punti materiali di energia hν. Sono quelli che Einstein battezza quanti di luce, una denominazione alla quale si atterrà per lunghi anni; quelli che, molti anni dopo, nel 1926, saranno chiamati fotoni. Una volta stabilito questo teorema, Einstein esamina quello che chiama, nel titolo dell’articolo, “un punto di vista euristico” circa “l’emissione e la trasformazione della luce”: l’ipotesi che la luce possa trasportare energia localizzata in quanti.

È a questo punto, e soltanto a questo punto, che, fra i fenomeni per i quali l’ipotesi dei quanti di luce potrebbe rivelarsi adeguata, egli considera, assieme ad altri, anche l’effetto fotoelettrico. Heinrich Hertz aveva scoperto nel 1887 che la luminosità della scintilla dei suoi risonatori era affetta da radiazione ultravioletta. Fu il nostro Augusto Righi, l’anno dopo, a scoprire che che una lastra conduttrice investita da un fascio di luce ultravioletta, si carica positivamente, e a coniare la denominazione. Nel 1902, Philipp Lenard scoprì che le energie dei fotoelettroni erano indipendenti dall’intensità della radiazione incidente.

Einstein ipotizzò, per il processo, il meccanismo elementare illustrato a lato. Un quanto di luce penetra nel metallo e trasmette tutta la sua energia ad un unico elettrone. L’elettrone perderà una parte della sua energia cinetica per raggiungere la superficie. In ogni caso, nell'abbandonare il metallo deve effettuare un lavoro P (che è caratteristico del corpo considerato). Ad uscire dal corpo con la massima energia cinetica saranno gli elettroni eccitati che si trovano direttamente alla sua superficie e che acquistano una velocità normale ad essa.

Legge di Einstein per l’effetto fotoelettrico Fu verificata Sperimentalmente da Millikan nel 1916. È con riferimento particolare a questa legge che Einstein ebbe, nel 1921, il Premio Nobel per la Fisica.

L’effetto Compton 1923: radiazione di frequenza sufficientemente alta è diffusa da elettroni con lunghezze d’onda maggiori (legge specifica al variare dell’angolo di diffusione. Compton e Debye (Debije) interpretano l’effetto in termini corpuscolari: la radiazione è descritta da quanti di luce di energia hν e momento hν/c. 1924: Bohr, Kramers e Slater compiono quello che appare come un estremo tentativo di salvare una concezione puramente ondulatoria della luce; che peraltro comporta che energia e quantità di moto non siano conservati nei processi singoli ma solo in media.

1925: esperimento di Bothe e Geiger – rivelazione simultanea del quanto diffuso e dell’elettrone di rinculo con variante di camera a ionizzazione. 1925: esperimento di Compton e Simon – rivelazione dell’elettrone di rinculo e determinazione della direzione di emissione con camera a nebbia.

Leggere l’interferenza in chiave corpuscolare: per flussi consistenti ci potrebbe essere una sorta di cooperazione; ma con “meno di un fotone per volta nell’apparato”? 1909: Geoffrey Ingram (G I) Taylor condusse un esperimento in cui mostrò che anche la più flebile sorgente di luce, - equivalente a "una candela a una distanza leggermente eccedente un miglio" – poteva portare a frange d’interferenza. 1927: Dempster e Batho 1957: Jànossy e Nàray

Una visione alternativa (Bohm, 1952)

Il secondo postulato e l’esistenza di una velocità limite Un esperimento con elettroni

Per il principio di relatività, lo stesso esperimento, condotto in un sistema di riferimento in moto rettilineo uniforme rispetto a quello in cui esso è stato di fatto eseguito deve dare lo stesso risultato, in particolare lo stesso valore per la velocità limite Il secondo postulato può essere letto come risultante da un fatto sperimentale e dal principio di relatività.

Fisici e filosofi La velocità della luce si misura, di fatto, su percorsi di andata e ritorno. Per misurarla su percorsi di sola andata (impulso luminoso che viaggia da A a B) bisogna disporre in A e B di orologi sincronizzati. Se il procedimento di sincronizzazione è quello einsteiniano si cade immediatamente in un giro vizioso. Resta da esaminare la sincronizzazione per trasporto.

Ma Römer non aveva misurato la velocità “one-way”? I filosofi ci spiegano che non è così. La misura della velocità “one-way”, come sappiamo, presuppone la presenza di orologi sincronizzati fra loro nel punto di partenza e in quello di arrivo del segnale. Come pure sappiamo, c’è un metodo standard di sincronizzazione, che però porta a un giro vizioso. È fuori discusssione che Römer non ha utilizzato questo procedimento. Ne è però evidentemente concepibile un altro: quello della sincronizzazione per trasporto.

Se due orologi “identici” sono inizialmente a riposo in un punto A di un sistema inerziale S, e uno dei due è portato in un percorso chiuso da A a B e ritorno, è un fatto sperimentale che il confronto alla fine del viaggio mostra che – altri effetti a parte – l’orologio che ha viaggiato ha battuto meno colpi (esperimenti di Hafele e Keating e “del Maryland”). “...possiamo osservare semplicemente che l’orologio che in precedenza era sincronizzato localmente con l’orologio posto in A ed [è stato] poi trasportato in B, se viene riportato in A, non sarà più sincronizzato con l’orologio che è rimasto in A. Di conseguenza sarebbe un’assunzione del tutto ingiustificata supporre che l’orologio trasportato da A a B conservi la sua sincronia con l’orologio in A.”* *Wesley C. Salmon, “Orologi e simultaneità nella relatività speciale”, in: L’orologio di Einstein, a cura di V. Fano e I. Tassani, CLUEB, Bologna, 2002.

Nessun fisico si sognerebbe di dirlo. Ma controbatterebbe: l’effetto è di velocità, quindi se il percorso d’andata e quello di ritorno sono compiuti alla stessa velocità, è più che legittimo assumere (più forte che ipotizzare) che l’anticipo accumulato nel percorso d’andata sia la metà di quello complessivo. Ma l’acume perverso dei filosofi obietta: Non puoi provarlo a rigor di logica Non si è mai provato in modo definitivo che il quadro sperimentale complessivo escluda in via definitiva l’etere; l’effetto in andata e ritorno potrebbe essere diverso come effetto del moto nell’etere. ………………………………………………………………….

Ma, si dirà, dove diavolo sono gli orologi nel caso della misura di Roemer? Leggiamo ancora Salmon: “Nella metà dell’anno […] tra la congiunzione e l’opposizione approssimata della Terra e di Giove, l’orologio che usiamo per determinare il tempo dell’apparente eclisse […] viaggia con la Terra da un’estremità all’altra del diametro della sua orbita […] a meno che non si assuma che l’orologio che viaggia con la Terra rimanga in sincronia con due ipotetici orologi che rimangono fermi (relativamente al sistema di riferimento del sistema solare) alle due estremità di quel diametro, l’apparente divergenzza nei tempi dell’eclissi […] non costituirebbe una misurazione della velocità di sola andata della luce attraverso l’orbita della Terra.” Conclusione, in due parole: la sincronizzazione einsteiniana è convenzionale, e tale è, di conseguenza, l’attribuzione di un valore alla velocità di sola andata.

Abraham Pais, Subtle is the Lord – The Science and the Life of Albert Einstein, Oxford University Press, 1982. “Deve essere stato intorno al 1950. Stavo accompagnando Einstein in una passeggiata dall’Istituto per gli studi avanzati a casa, quando improvvisamente si fermò, si volse verso di me e mi chiese se veramente credevo che la Luna esiste solo se la guardo”.

“Deve essere stato intorno al 1950. Stavo accompagnando Einstein in una passeggiata dall’Istituto per gli studi avanzati a casa. Era una serata tempestosa: ogni tanto un lampo squarciava in lontananza l’oscurità. Improvvisamente Einstein si fermò, si volse verso di me e mi chiese se la luce di uno di quei lampi ci metteva un tempo definito per raggiungerci o se quel tempo lo stabilivamo noi per convenzione”.

C’è anche un’ottica elettronica 1924: ipotesi di L. de Broglie 1927: C.D. Davisson e L.H. Germer, e G.P. Thomson la confermano Nel maggio 2002, il fisico Robert Crease rivolse ai lettori di Physics World la seguente domanda: “Qual è stato il più bell’esperimento della fisica?” Dalle segnalazioni arrivate alla rivista fu ricavata una graduatoria nella quale figuravano il primo test nucleare nel 1945, il piano inclinato e la caduta dei gravi di Galileo, il prisma di Newton e l'esperimento di Young del 1801 sulla natura ondulatoria della luce.

Al primo posto, però, figurava la variante elettronica delle esperienze tipo Taylor, Dempster e Batho, Jànossy e Nàray (in media meno di un elettrone alla volta nell’apparato). La rivista riportava un’analisi storica degli esperimenti di quel tipo, e attribuiva il merito del primo al fisico giapponese Akira Tonomura e collaboratori (1989). In seguito John Steeds e lo stesso Tonomura ne hanno attribuito la paternità a un gruppo del Dipartimento di Fisica di Bologna, composto da Pier Giorgio Merli, Gian Franco Missiroli e Giulio Pozzi (1974).

Figura pubblicata sull’American Journal of Physics, che mostra sei fotogrammi ottenuti con flusso di elettroni crescente.