STORIA E NARRAZIONE STORICA

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STORIA E NARRAZIONE STORICA
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STORIA E NARRAZIONE STORICA Un dibattito di fine Novecento

L. Stone e il “ritorno al racconto” Nel 1979 lo storico inglese Lawrence Stone (1919), docente nell’università americana di Princeton e assai noto per i suoi studi di storia sociale sull’aristocrazia britannica, sulle cause della rivoluzione inglese, sulla famiglia in età moderna, pubblicava sulla prestigiosa rivista «Past and Present» un altrettanto polemico articolo dal titolo The Revival of Narratie. Considerations on a Old New History (Il ritorno al racconto: riflessioni su una nuova vecchia storia) nel quale, movendo dalla constatazione (parzialmente autocritica) che sul piano della spiegazione dei grandi fatti storici non si poteva sostenere che la risposta fornita dalla storia economico-sociale e quantitativa fosse più sicura ed oggettiva di quella fornita da una storiografia che enfatizzava il ruolo delle grandi personalità, Stone rilevava come quegli stessi storici (soprattutto francesi, come Emmanuel Le Roy Ladurie e François Furet) che negli anni sessanta e settanta avevano teorizzato la fine della “storia narrativa” e la definitiva vittoria delle scienze sociali e dei metodi quantitativi, avessero poi ripiegato sulla narrazione tradizionale e sulla biografia, addirittura enfatizzando i caratteri soggettivi dei processi storici.

L. Stone e il “ritorno al racconto” Da ciò Stone traeva una prima conclusione: «la narrazione è un modo di scrivere la storia, ma è anche un modo che coinvolge ed è coinvolto dal contenuto e dal metodo». Il ritorno alla narrativa constatato e propugnato dallo storico inglese implicava dunque non già una rinuncia all’analisi, ma la consapevolezza che la narrazione e l’eleganza stilistica rappresentavano componenti ineliminabili del “discorso storico”.

Storia come arte o come scienza Alle spalle dell’articolo di Stone stava infatti una stagione di forte critica nei confronti della storia cosiddetta “narrativa” o “evenemenziale” alla quale gli storici sociali o “nuovi storici” avevano contrapposto un modello espositivo saggistico dove il dato quantitativo e seriale, esposto in diagrammi e tabelle, diveniva protagonista assoluto. La narrazione perdeva quindi ogni significato in quanto la “storia problema” poteva tutt’al più essere esposta problematicamente, non certo raccontata. Più indietro ancora stava la secolare contrapposizione fra la storiografia intesa come arte (e quindi come genere letterario e come racconto fortemente segnato dalla soggettività dell’autore) e la storiografia intesa come scienza (e quindi come ricerca di dati oggettivi che lo storico-scienziato non avrebbe dovuto far altro che presentare nei loro nessi).

La storiografia come racconto La storiografia nasce come racconto, strettamente congiunta con i generi letterari (poesia, epica, retorica, narrativa, ecc.) più diffusi nel mondo antico. Fare storia significa sempre e comunque, innanzitutto, “raccontare” una storia. Storia vera anziché inventata, ma pur sempre storia (story, recit). Solo la narrazione, infatti, può dar senso agli avvenimenti e alle vite umane di per sé slegate fra loro e prive di senso. Un avvenimento (o una biografia) diventa tale solo quando è narrato.

Aristotele: “lo storico descrive fatti realmente accaduti” La differenza fra storia e poesia e fra lo storico e il poeta è chiara per Aristotele: «La vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare» [Aristotele, Poetica, 1451b 4-1451b 10)]. Il poeta è dunque più libero dello storico e può raffigurare l’intera gamma delle potenzialità umane. Lo storico si limita invece a descrivere accadimenti particolari e limitati.

Voltaire: “il racconto dei fatti dati per veri” Ancora più precisa la distinzione fra storie, argomenti e favole proposta dallo storico Isidoro di Siviglia all’inizio del VII secolo: «Le storie sono fatti accaduti; gli argomenti sono fatti non accaduti, ma che avrebbero potuto esserlo; le favole, invece, sono quei fatti che né sono accaduti né potrebbero, perché contrari al naturale» [Isidoro, Etimologie, I, 41, 44]. Undici secoli dopo Isidoro, Voltaire, nella voce Histoire dell’Encyclopédie, definiva la storia come «il racconto dei fatti dati per veri, al contrario della favola che è il racconto dei fatti dati per falsi». La differenza di significato delle due affermazioni, apparente simili, è netta: per Isidoro la differenza tra la storia e la favola è di ordine ontologico, mentre per Voltaire la differenza è di ordine discorsivo e dipende dall’intenzione del racconto. Anche sul piano della grafica e dell’impaginazione “vero” o “falso” è ciò che distingue il libro di storia (con le note) dal libro di narrativa (senza note). Il primo si preoccupa di dichiarare le proprie fonti (le prove), il secondo no. Nel primo le immagini sono documenti iconografici, il secondo sono semplici illustrazioni.

F. Furet e la critica della storia-racconto Nel 1975 lo storico francese François Furet (1927-1997), docente nella parigina Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales noto per le sue ricerche quantitative sulla storia del libro e per i suoi saggi critici sulla rivoluzione francese, pubblicava sulla rivista «Diogène» un polemico articolo dal titolo De l’histoire-récit à l’histoire-problème (Dalla storia-racconto alla storia-problema), nel quale sintetizzava - non senza schematismi - i presupposti della cosiddetta "nuova storia" francese, dichiarando definitivamente tramontata la storia-racconto, dominata dalla cronologia, dall'evento, dall'individualità, a favore della storia-problema, dominio della struttura, della longue durée, del seriale e del quantitativo.

F. Furet e la critica della storia-racconto Allontanandosi definitivamente dall'approccio "artistico" o "letterario" alla disciplina, lo storico – secondo Furet - doveva avvicinarsi sempre di più all'approccio scientifico, affiancandosi agli altri scienziati sociali (sociologi, economisti, antropologi, psicologi, ecc.) e lavorando, più che sui singoli avvenimenti - di per sé poco significativi - sulle strutture e sui quadri socio-economici di lungo periodo, sforzandosi di costruire modelli interpretativi multidimensionali. L'articolo di Furet non sollevava soltanto problemi relativi alle forme dell’esposizione storiografica, ma una più profonda e complessa questione epistemologica: se cioè la storia potesse avere uno statuto scientifico più forte rinunciando ad alcuni dei tratti che, nella coscienza comune, avevano caratterizzato la disciplina fino a quel momento. Per convertirsi in scienza la storia avrebbe dovuto eliminare gli avvenimenti, o più esattamente ciò che per tanti storici ne costituiva l'aspetto più importante: il carattere singolare, unico, individuale.