IL DECADENTISMO.

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Transcript della presentazione:

IL DECADENTISMO

Il movimento dei décadents (decadenti) nacque a Parigi nella prima metà degli anni Ottanta. Il termine venne utilizzato in senso dispregiativo per indicare quei poeti maledetti (Mallarmé, Verlaine, …) che con la novità della loro arte e la loro vita irregolare e disordinata apparivano alla gente comune dei «decadenti» (corrotti, disillusi). Si iniziò a parlare di Decadentismo in seguito alla pubblicazione di un sonetto di Paul Verlaine sulla rivista Il gatto nero nel maggio 1883. Esso iniziava con in verso «Io sono l’Impero alla fine della decadenza»: vi affiorava il concetto che la raffinatezza e l’eleganza sono proprie di epoche storiche di decadenza. Oggi tale termine designa una particolare civiltà letteraria ed artistica.

I tratti fondamentali del Decadentismo sono: - sfiducia nella ragione che determina la crisi dei valori tradizionali (libertà, patria, progresso) generando insicurezza, scetticismo, angoscia esistenziale; - l’arte è soggettiva ed individuale, l’artista disprezza la massa, è un esteta che punta a trasformare la propria vita in opera d’arte, sostituendo alle leggi morali la legge del bello; - l’arte tende ad esprimere la parte più nascosta dell’essere (la psicanalisi fondata da Sigmund Freud afferma che le nostre azioni non derivano da scelte razionali, ma sono l’effetto di pulsioni interiori, che noi ignoriamo perché sfuggono alla nostra coscienza); - il ricorso al simbolismo: metafore e sinestesie (unire parole che appartengono a sfere sensoriali diverse, es. parole calde); - il poeta è un profeta, un veggente, l’esploratore del mistero, dell’inconscio; - rifiuto delle forme metriche chiuse a favore di strofe e versi liberi, perché la poesia deve essere immune da ogni interferenza razionale.

In Italia il Decadentismo si affermò tra il 1890 ed il 1905 In Italia il Decadentismo si affermò tra il 1890 ed il 1905. Nel 1889 D’Annunzio pubblicò il romanzo Il piacere e nel 1901 Pascoli diede alle stampe la raccolta di poesie Myricae. Il Decadentismo italiano si differenzia da quello europeo per il suo legame ancora forte con la tradizione classica e presenta aspetti diversi in rapporto alla personalità di ciascun artista: PASCOLI: aspetto simbolistico e vittimistico; D’ANNUNZIO: aspetto estetizzante, superomistico e sensualistico; PIRANDELLO: aspetto polemico, demolitore delle ipocrisie e dei luoghi comuni; ITALO SVEVO: aspetto apatico e rinunciatario; nei poeti crepuscolari l’aspetto smarrito; nei poeti futuristi l’aspetto vitalistico e attivistico; nei poeti ermetici l’aspetto simbolistico.

GIOVANNI PASCOLI

VITA Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855 e muore a Bologna nel 1912. La sua fanciullezza è segnata traumaticamente da numerosi lutti familiari, primo fra tutti l’assassinio del padre Ruggero (10 agosto 1867), amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia, ucciso con una fucilata mentre tornava a casa. Dopo la morte del fratello Giacomo, diventa il capofamiglia: esclusa dalla propria vita qualsiasi tipo di relazione sentimentale, punta alla ricostruzione del «nido» familiare insieme alla sorella Mariù. In gioventù vive l’esperienza del carcere per aver partecipato ad agitazioni anarchico-socialiste. Compie gli studi classici ed esercita la professione di insegnante prima nelle scuole medie e poi all’Università. Pascoli rappresenta un momento di passaggio necessario tra Ottocento e Novecento. Continuità e rottura, tradizione e innovazione si trovano in lui in modo equilibrato, così da farne l’ultimo dei classici e il primo dei moderni. Affida alla poesia intitolata Il fanciullino, pubblicata nel 1897 sulla rivista fiorentina «Il Marzocco», il suo pensiero sul poeta e sulla poesia. Il poeta coincide con il «fanciullino», cioè con quella parte infantile dell’uomo, che guarda la realtà con stupore, coglie immagini e voci che sfuggono agli adulti. La poesia, dunque, sfugge alla razionalità, è intuizione; il suo linguaggio è semplice ed immediato: «la poesia non si inventa, ma si scopre, perché essa si trova nelle cose stesse».

Il fanciullino (alcuni estratti del discorso programmatico di Pascoli sulla sua poetica) «È dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi. I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. […] Senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui noi non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. […] Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta. […] Tu hai detto quel che vedi e senti. E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia.»

OPERE Myricae (1891): il titolo allude ad un verso del poeta latino Virgilio (non omnes arbusta iuvant humilesque myricae: «non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici»). Sono 156 poesie incentrate sul mondo naturale ed agreste, osservato nei suoi aspetti più dimessi (arbusti e tamerici). Si tratta di un susseguirsi di impressioni soggettive: il poeta fissa lo sguardo su un aspetto o una cosa del paesaggio agreste (aratro abbandonato, una viola tra le foglie marcite) e scopre un messaggio misterioso per l’uomo. Il motivo della morte non manca, anzi riaffiora il ricordo dei lutti familiari; Canti di Castelvecchio (1903): Castelvecchio è un paese in provincia di Lucca, dove Pascoli aveva acquistato una villetta e vi viveva con la sorella Mariù. Troviamo due motivi: quello naturalistico (modellato sul susseguirsi delle stagioni che allude all’alternanza di vita e morte) e quello familiare (centrato sull’impunita uccisione del padre). Il tema della morte esercita un peso sul soggetto: è come se i morti mettessero in pericolo il suo diritto alla vita; Poemetti: poesie che raccontano la vita di una famiglia contadina nei momenti di lavoro campestre e delle attività domestiche. Il poeta celebra il modello di vita patriarcale e naturale;

Poemi conviviali (1904): sono pubblicati sulla rivista «Convito» (da cui il titolo). Sono 17 poemetti costruiti su episodi, miti, personaggi della letteratura classica greca e latina. La civiltà antica risulta alterata in quanto rimodellata dal poeta-fanciullino; Carmina (pubblicati postumi): poesie in lingua latina che ricostruiscono scene della vita romana antica. Anche su questo mondo proietta la moderna sensibilità decadente (inquietudine, smarrimento).

Lavandare (da Myricae) Un aratro abbandonato, in una giornata autunnale e nebbiosa, giace in un campo aratro solo in parte. In lontananza si sente il canto triste e nostalgico di alcune lavandaie che accompagna il rumore dei panni battuti nell’acqua. Il campo arato a metà, l’arato senza buoi anticipano l’abbandono di una donna da parte del suo innamorato. Affiora un senso di solitudine e di malinconia. Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero.   E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese. PARAFRASI Nel campo che è per metà arato per metà no c’è un aratro senza buoi che sembra dimenticato, in mezzo alla nebbia.   E scandito dalla riva del fiume si sente il rumore delle lavandaie che lavano i panni, sbattendoli, e lunghe cantilene: Il vento soffia e ai rami cadono le foglie, e tu non sei ancora tornato! da quando sei partito sono rimasta come un aratro abbandonato in mezzo al terreno a riposo.

Temporale (da Myricae) In questa poesia sono espresse, insieme, le impressioni acustiche e visive prodotte dallo scoppio di un temporale. Per far meglio risaltare la rapidità delle impressioni, il poeta adopera i soli termini essenziali del discorso, accostandoli senza congiunzioni, e usando il verbo in una sola proposizione (nelle altre è sottinteso). Il casolare bianco simile all’ala di un gabbiano è il simbolo della solitudine, della fragilità e pochezza degli uomini, degli animali e cose di fronte alle forze della natura. Un bubbolìo lontano… Rosseggia l’orizzonte, come affocato, a mare: nero di pece, a monte, stracci di nubi chiare: tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano. PARAFRASI Si ode un brontolio lontano… L’orizzonte verso il mare è rosso come il fuoco: dalla parte dei monti, è nero come la pece; frastagli di nuvole grigie simili a stracci: sullo sfondo nero un casolare bianco come l’ala di un gabbiano.

X Agosto (da Myricae) È una delle più note e belle tra le poesie che ricordano la sua tragedia familiare. La morte del padre (10 agosto 1867) coincise col dieci agosto. la notte di San Lorenzo, in cui si vedono nel cielo molte stelle cadenti, quasi a simbolo di un pianto che il cielo riversa sulla terra. Attraverso il parallelismo con la morte della rondine con le ali in croce, che tornava al suo nido, la lirica affronta il problema del male e del dolore nel mondo. San Lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l'aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla. Ritornava una rondine al tetto : l'uccisero: cadde tra i spini; ella aveva nel becco un insetto: la cena dei suoi rondinini. Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell'ombra, che attende, che pigola sempre più piano. Anche un uomo tornava al suo nido: l'uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole in dono. Ora là, nella casa romita, lo aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano. E tu, Cielo, dall'alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d'un pianto di stelle lo inondi quest'atomo opaco del Male!

GABRIELE D’ANNUNZIO O poeta, divina è la Parola; Ne la pura Bellezza il ciel ripose   ogni nostra letizia; e il Verso è tutto. (L’Isotteo)

VITA Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863. Compiuti gli studi liceali a Prato, si trasferisce nel 1881 a Roma, dove diventa presto noto come giornalista letterario e cronista mondano. Dal 1891 al 1893 vive a Napoli. Nel 1910, a causa di alcuni debiti, va in esilio volontario in Francia, dove rimane fino al 1915. Scoppiata la prima guerra mondiale, torna in Italia schierandosi tra gli interventisti e partecipando ad imprese belliche. Conclusasi la guerra, compie nel 1919-20 l’impresa di Fiume (affinché quel territorio venisse annesso all’Italia). Costretto nel 1921 ad abbandonare Fiume, si ritira sul lago di Garda, in una villa chiamata «Il Vittoriale degli Italiani» (una sorta di museo dedicato a se stesso), nella quale vive in disparte fino alla morte, 1° marzo 1938. Nei confronti del Fascismo ha un atteggiamento ambiguo, ora sprezzante ora di appoggio. Egli ha saputo realizzare quel «vivere inimitabile», dominato da una continua ricerca di bellezza e grandezza, cioè una vita costruita come un’opera d’arte. Il personaggio del superuomo creato da D’Annunzio, aggressivo, energico, ingloba l’immagine dell’esteta. Il culto della bellezza è essenziale nel processo di elevazione della stirpe nelle persone di pochi eletti. L’eroe d’annunziano si adopera per imporre il dominio di una élite, violenta e raffinata, su un mondo meschino e vile come quello borghese che tende ad emarginare la figura dell’intellettuale. L’artista-superuomo è un vate, una guida.

OPERE Primo vere (1879): raccolta di poesia composta all’età di 16 anni; Novelle della Pescara che imitano il verismo di Verga; egli, però, predilige scene di barbarica violenza e di lussuria nel paesaggio abruzzese; Poema paradisiaco (1893): si distacca dalla sensualità e dall’erotismo per riavvicinarsi alla famiglia e ai sentimenti più puri dell’infanzia. Sull’esempio dei romanzi ciclici dell’ ‘800 come il ciclo dei «vinti» di Verga, D’Annunzio si propose di scrivere un ciclo di romanzi, suddiviso in tre trilogie, ciascuna denominata con il nome di un fiore (la rosa, il giglio, il melograno), a simboleggiare le tappe evolutive del suo spirito dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di esse; i protagonisti dei romanzi, infatti, non sono che la proiezione sul piano narrativo dello stesso D’Annunzio.

I ROMANZI DELLA ROSA - Il piacere (1889) è il primo romanzo della trilogia dedicata alla rosa, il fiore simbolo della voluttà, della passione invincibile. Protagonista del romanzo è Andrea Sperelli, un nobile artista romano che vive diverse esperienze amorose fuori da ogni vincolo morale ed è tutto teso «a fare della propria vita un’opera d’arte». L’innocente (1892): protagonista del romanzo è Tullio, nobile intellettuale, che vede finire il suo matrimonio con Giuliana, con la quale mantiene un rapporto fraterno. Ad un certo punto i due si riavvicinano: lei gli confessa di avere avuto un’altra relazione e di essere incinta. Tullio accetta la situazione, ma la nascita del figlio, l’innocente a cui allude il titolo, scatena in lui una gelosia irrefrenabile che lo porta ad uccidere il bambino, forse con la complicità della moglie. Il trionfo della morte (1894): Giorgio Aurispa è amante di Ippolita Sanzio. Durante una breve separazione, l’uomo ritorna nel suo paese natale in Abruzzo (lasciando Roma): qui si apre uno spaccato di tenerezza verso la madre e le sorelle e di odio nei confronti del padre che tradisce la moglie e dissipa le sostanze delle amanti. Ritornato a Roma, riprende insoddisfatto la sua relazione con Ippolita fino a quando decide di morire gettandosi da una scogliera. Giorgio è un inetto.

I ROMANZI DEL GIGLIO Il giglio è il fiore simbolo della passione che si purifica. Il superuomo non è più schiavo delle passioni: è un individuo destinato a dominare sugli altri (Nietzsche non auspicava, tuttavia, l’avvento di un uomo superiore agli altri, bensì l’avvento di un’umanità rinnovata che doveva liberarsi dalla morale). Di questa trilogia, D’Annunzio scrisse solo il primo romanzo. - Le Vergini delle rocce (1896): Claudio Cantelmo, aristocratico e imperialista, seguace delle dottrine del superuomo, vuole sposare una delle principesse di un’antica famiglia borbonica del regno delle due Sicilie. che vive a Trigento, paese di rocce. Scopo del matrimonio è procreare il futuro sovrano, il «re di Roma» al quale un giorno il popolo offrirà la corona regale.

I ROMANZI DEL MELOGRANO Anche nella terza trilogia (il melograno, il pomo dai molti granelli, con allusione ai frutti che possono derivare dal dominio delle passioni) D’Annunzio scrisse solo Il fuoco (1900). In questo romanzo ambientato a Venezia, si racconta la vicenda di un’attrice, Foscarina (chiamata da D’Annunzio Perdita), che consapevole dello sfiorire della propria bellezza, accetta di essere l’amante di Stelio che da lei trae ispirazione per un’opera teatrale. Esaurita questa funzione di ispiratrice, Perdita decide di lasciare Stelio. Il romanzo è autobiografico, in quanto vi è adombrata la storia d’amore del poeta con l’attrice Eleonora Duse.

LE LAUDI Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi (1903): è una raccolta di 3 libri di poesie, intitolati ciascuno a una stella delle Pleiadi (in realtà i libri dovevano essere sette quante sono le stelle della costellazione). Il poeta celebra la vitalità della natura. Maia è un poema a sfondo autobiografico: il poeta racconta, come un moderno Ulisse, la trasfigurazione mitica di un suo viaggio in Grecia; Elettra contiene la celebrazione di poeti (Dante), eroi della patria (Garibaldi), nonché la rievocazione di città (Ferrara, Pisa, Firenze, Lucca, …) che, avendo vissuto un passato glorioso, aspettano, in silenzio, che risorga la nuova Italia a rinnovare la gloria antica; Alcyone è il capolavoro di D’Annunzio. In essa il poeta si spoglia del suo io e si immerge nella natura, fino ad identificarsi con essa (panismo). Le poesie hanno come sfondo il paesaggio fiorentino e la Versilia durante un’estate e fino all’inizio dell’autunno; Merope contiene canzoni composte per la guerra di Libia.

Con la denominazione “notturno” (che allude alle prose di memoria, Notturno, scritte nel 1916 mentre era immobile nell’oscurità per una ferita ad un occhio) si indica la produzione dannunziana che va dal 1910 alla morte. In questa fase si riscontra un D’Annunzio più intimistico, concentrato sulla sua esperienza privata e solitaria, turbato dal senso del fallimento e dall’ombra della morte. ma mai privo del suo egocentrismo.

La pioggia nel pineto (da Alcyone) Questa poesia rappresenta il fondersi del soggetto con il paesaggio naturale. Sorpreso con l’amata, Ermione (nome mitologico), dalla pioggia nella pineta nei pressi di Marina di Pisa, il poeta si concentra sui suoni prodotti dal cadere dell’acqua sulle diverse varietà di vegetazione e dal verso di alcuni animali. La trasformazione inizia nella seconda strofa, dove il poeta paragona il volto di Ermione a una foglia e i suoi capelli a una ginestra e si compie nell’ultima strofa,  dove D’Annunzio definisce Ermione non bianca ma quasi fatta virente, cioè verde, come una pianta, e ne paragona i vari elementi del corpo ad altrettanti elementi naturali: il cuore alla pesca, gli occhi alle polle (pozzanghere) d’acqua, i denti alle mandorle. In questa immersione totale del poeta e di Ermione nel paesaggio naturale che li circonda entrambi ritrovano «la favola bella che illude», cioè la vita con i suoi sogni d’amore e le sue speranze. Metrica: 4 strofe di 32 versi ciascuna

Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.

Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitío che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, nè il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota. Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione.

Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i denti negli alvèoli con come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.

PARAFRASI Taci. All’ingresso del bosco non sento parole che puoi definire umane. Ma sento parole più straordinarie che parlano le gocce di pioggia e le foglie lontane (perché il suono proviene dal folto del bosco). Ascolta. Piove dalle nuvole disseminate nel cielo, piove sulle tamerici che sanno di sale e sono bruciate dalla calura, piove sui pini scagliosi (perché i tronchi sono ruvidi e come coperti di scaglie) e ispidi (per le foglie aguzze), piove sui mirti divini (perché sacri a Venere), sulle ginestre che splendono per i fiori raccolti in mazzi, sui ginepri ricoperti di gemme profumate, piove sui nostri visi che fanno parte della foresta, piove sulle nostre mani nude, sui nostri abiti leggeri (attraverso i quali filtra la pioggia), sui freschi pensieri che l’anima fa sbocciare rinnovata, sulla favola bella che ieri ti illuse, che oggi mi illude, o Ermione. Odi? La pioggia che cade sul fogliame della pineta deserta produce un crepitio che dura e varia secondo quanto è folto il fogliame. Ascolta. Alla pioggia risponde il canto delle cicale che non è fermato né dalla pioggia né dal colore scuro del cielo. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, e le gocce di pioggia sono come miriadi di dita che fanno suonare diversamente queste piante. Noi siamo nel più intimo della foresta, non più esseri umani ma vivi d’una vita vegetale. E il tuo volto bagnato ed inebriato dalla gioia e le tue chiome profumano come le ginestre, o creatura originata dalla terra che hai nome Ermione.

Ascolta, ascolta. Il canto delle cicale che stanno nell’aria va diminuendo sotto la pioggia che aumenta. Ma in crescendo si mescola un canto più rauco, che sale dall’ombra scura dello stagno in lontananza. Solo una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non arriva il suono delle onde sulla spiaggia. Non si sente sulle fronde degli alberi scrosciare la pioggia d’argento che purifica, lo scroscio che varia secondo i rami più folti, meno folti. Ascolta. La cicala è muta, ma la figlia del lontano fango, la rana, canta nell’ombra più profonda, chissà dove, chissà dove. E piove sulle tue ciglia, o Ermione. Piove sulle tue ciglia nere che sembra tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi verde, sembri uscita dalla corteccia di un albero. E tutta la vita è in noi fresca e odorosa, il cuore nel petto è come una pesca non ancora toccata gli occhi tra le palpebre sono come fonti d’acqua in mezzo all’erba; i denti nelle gengive sembrano mandorle acerbe. E andiamo di cespuglio in cespuglio, ora tenendoci per mano ora separati (la ruvida e forte stretta delle erbe aggrovigliate ci blocca le ginocchia) chissà dove, chissà dove! Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco, piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri mi illuse, che oggi ti illude, o Ermione.

IL FANCIULLINO E IL SUPERUOMO Il «fanciullino» pascoliano e il «superuomo» dannunziano sono due miti che, pur nascendo negli stessi anni, sembrano opposti. Il primo incarna l’innocenza, la mansuetudine, il secondo la lussuria, la violenza. Tuttavia hanno le loro radici nello stesso terreno: la società di massa che inizia ad imporsi, l’imperialismo che culminerà con lo scoppio della prima guerra mondiale. I due miti sono una risposta a questi processi storici che hanno portato all’annullamento dell’individuo. Il «fanciullino» è un mito consolatorio di evasione che si esprime nel bisogno di allontanarsi dal presente per rifugiarsi nel mondo idillico della campagna (vita tranquilla, sgombra da angosce e paure) e in quel «nido» familiare che protegge l’uomo e ne impedisce il contatto traumatico con il mondo esterno. Il «superuomo» non vive nel passato, affronta il presente: invece di rimuovere, decide di celebrare ciò che fa paura, l’espansione industriale, la macchina, la guerra, il dominio dei più forti sui deboli.