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ALL’INDOMANI DELLE GUERRE PUNICHE Le guerre avevano fatto la fortuna di alcune classi sociali, ma avevano portato alla rovina proprio coloro che avevano.

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1 ALL’INDOMANI DELLE GUERRE PUNICHE Le guerre avevano fatto la fortuna di alcune classi sociali, ma avevano portato alla rovina proprio coloro che avevano contribuito in modo determinante alla grandezza di Roma, primi tra tutti i piccoli proprietari terrieri. Gli obblighi militari, infatti, avevano costretto i contadini ad abbandonare le campagne; al ritorno dalla guerra, oltre a trovare i loro poderi inariditi, essi avevano trovato sul mercato, a prezzi più che competitivi, i cereali provenienti dai territori d’oltremare e dalle grandi proprietà terriere in mano agli aristocratici. Così i piccoli proprietari terrieri si videro costretti a vendere le loro terre ai grandi proprietari terrieri, sperando di farsi assumere da quest’ultimi come lavoratori salariati, ma costoro preferivano la manodopera servile, economicamente più conveniente.

2 La maggioranza degli ex contadini si riversò dunque in città, alimentando il numero dei disoccupati (chiamati proletarii, non avendo altro bene che la prole), alla costante ricerca di piccoli lavori. Tutto quello che il governo riuscì a fare, in questa fase, per evitare che la situazione degenerasse, fu procedere a pubbliche distribuzioni di grano e distrarre la folla organizzando giochi nel circo (panem et circenses). La nuova ricchezza, rappresentata dal bottino di guerra e dai tributi imposti ai territori conquistati, era finita nelle mani della nuova classe sociale dei cavalieri, cioè di coloro che potevano permettersi un equipaggiamento per la guerra a cavallo. Infatti, diversamente dall’aristocrazia, la cui ricchezza era legata essenzialmente alla terra, i cavalieri avevano ben presto compreso l’opportunità di dedicarsi ad attività assai redditizie, come il commercio, l’appalto di opere pubbliche, la riscossione dei tributi per conto dello stato (come pubblicani). [ Riferimento al plebiscito Claudio del 218 a.C.]

3 GLI SCHIAVI E LE PRIME RIVOLTE SERVILI Nei primi secoli della storia romana, quando il loro numero era limitato, gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale; essi erano considerati persone di famiglia, trattate con umanità e non di rado legate ai padroni da buoni rapporti. Sul finire del II secolo a.C., la popolazione servile era notevolmente aumentata e i rapporti fra schiavo e padrone erano mutati completamente. Il mercato degli schiavi, alimentato anche dalla pirateria, era diventato una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (emblematico il caso dell’isola di Delo). Gli schiavi vennero impiegati soprattutto nell’agricoltura; erano considerati come semplici strumenti di produzione e sfruttati al massimo. Esistevano, però, anche categorie privilegiate di schiavi: quelli destinati al servizio domestico, quelli addetti alle attività commerciali, i pedagoghi ed i medici. All’inizio del II sec. a.C. si ebbero le prime rivolte di schiavi in Etruria, in Puglia ed in Calabria. Nel 136 a.C. ci fu una grande rivolta anche in Sicilia.

4 LA DEGENERAZIONE DELLA POLITICA Molti dei disoccupati riversatisi in città al termine delle guerre di conquista erano sopravvissuti diventando clientes delle grandi famiglie. In cambio di benefici di varia natura, essi si lasciavano manovrare dalle famiglie patrizie diventando, durante le occasioni di voto, l’espressione degli interessi personali e di clan dei loro protettori. Contemporaneamente, anche le magistrature si erano corrotte: chi intraprendeva la carriera politica lo faceva per diventare al più presto console e sfruttare le possibilità di guadagno offerte dal comando militare e dal governo delle province.

5 LA CRESCITA DELLA TENSIONE CON I “SOCII” ITALICI ED I PROVINCIALI Gli “alleati” (socii) italici avevano partecipato alle guerre a fianco di Roma, offrendo un contributo decisivo. Tuttavia, nonostante il ruolo chiave da loro assunto, Roma non li aveva ammessi alla distribuzione delle terre conquistate, li sottoponeva a pesanti imposizioni fiscali e non concedeva loro il diritto di voto. In poche parole, li considerava alla stregua di sudditi. Ancora più scontenti dei “socii” erano gli abitanti dei territori al di fuori dell’Italia (Sicilia, Sardegna, Corsica, Gallia Cisalpina, Gallia Transalpina, Africa, Spagna, Macedonia, Grecia e vaste zone dell’Oriente): qui i magistrati incaricati di governare abusavano del loro potere, sottoponendo i sudditi provinciali a vessazioni continue.

6 I GRACCHI E LA POLITICA DELLE RIFORME In questa situazione, fecero la loro comparsa sulla scena politica i fratelli Tiberio e Caio Gracco, appartenenti ad una famiglia patrizia imparentata con quella degli Scipioni, particolarmente colta e aperta ai problemi sociali. Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162 a.C., concepì un progetto di riforma che mirava a due obiettivi, strettamente connessi: - ricostruire il ceto dei piccoli proprietari terrieri, decimato da un secolo di guerre di conquista; - garantire una base sufficiente di reclutamento all’esercito, composto in gran parte proprio da piccoli agricoltori. Per raggiungere questi obiettivi si trattava di redistribuire, almeno in parte, le terre pubbliche (ager publicus) che per legge appartenevano allo stato, ma che di fatto i grandi proprietari terrieri amministravano come loro beni personali.

7 I GRACCHI E LA POLITICA DELLE RIFORME Nel 133 a.C. Tiberio Gracco venne eletto tribuno della plebe e fu in grado di avanzare una proposta di legge, che stabiliva un limite massimo per la terra pubblica che poteva essere detenuta da un privato: 125 ettari (500 iugeri, secondo l’unità di misura latina), che potevano aumentare fino a 250 in presenza di figli. Le terre eccedenti queste estensioni sarebbero state ripartite in piccoli appezzamenti, all’incirca di 7 ettari, e assegnate ad altrettanti nullatenenti. Agli assegnatari servivano poi strumenti agricoli e sementi per avviare la produzione: Tiberio propose che anche di questo si occupasse lo stato, finanziando la riforma con i beni lasciati in eredità al popolo romano da Attalo, re del piccolo regno di Pergamo (in Asia Minore) morto proprio nel 133 a.C..

8 La reazione dell’aristocrazia senatoria, composta prevalentemente da latifondisti, che si videro colpiti nei loro interessi economici, fu immediata e decisa. Tiberio fu accusato di volersi impossessare del potere ed il senato votò contro di lui il “senatoconsulto” (deliberazione del senato) cosiddetto “ultimo”, che dava poteri straordinari ai consoli in caso di pericolo per lo stato. Per la prima volta nella storia di Roma, esso era stato votato contro un concittadino. Nei tumulti che seguirono, Tiberio Gracco fu ucciso. Nel 123 a.C., circa 10 anni dopo la morte di Tiberio Gracco, venne eletto tribuno della plebe suo fratello Caio (154-121 a.C.). Caio mise a punto e fece approvare un progetto politico, molto più ampio ed articolato di quello di suo fratello. Il suo obiettivo era quello di isolare politicamente l’aristocrazia più conservatrice e di guadagnarsi l’appoggio di tutte le altre forze sociali, quell’appoggio che era mancato a Tiberio.

9 Caio ripropose la legge che limitava il diritto di possesso delle terre pubbliche, ma ad essa affiancò i seguenti provvedimenti: - legge annonaria che stabiliva l’acquisto e l’immagazzinamento da parte dello stato di notevoli quantità di grano da distribuire ai nullatenenti; - ammissione dei cavalieri nelle giurie dei tribunali che giudicavano il reato di malgoverno nelle province; - fondazione di nuove colonie in Italia e nelle province per dare case e terre ai proletari; - attribuzione della cittadinanza romana ai “socii” italici (ma fu l’inizio della sua rovina). La politica di Caio sembrò in un primo tempo avere successo. A lui riuscì, per esempio, ciò che non era riuscito a Tiberio: farsi eleggere tribuno per 2 anni di seguito. Ma l’aristocrazia senatoria non rimase a guardare: nel 121 a.C. Caio fu dichiarato nemico dello stato. Di fronte al precipitare degli eventi Caio preferì farsi uccidere da un suo schiavo.

10 I FRATELLI GRACCHI

11 L’EPOCA DELLA CRISI: DA GIUGURTA ALLA PRIMA GUERRA CIVILE La repressione violenta dei Gracchi ebbe l’effetto di scoraggiare per parecchi anni l’iniziativa politica dei populares. Solo tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. emersero le figure, fra loro piuttosto diverse, di due nuovi capi popolari: Gaio Mario e Livio Druso. Gaio Mario (157-86 a.C.) era ciò che i Romani definivano homo novus, ovvero colui che intraprendeva la carriera politica provenendo da una famiglia in cui nessuno aveva ricoperto il consolato. Nel 118 a.C. morì Micipsa, re di Numidia, un regno nord- africano da tempo tributario di Roma, e nella lotta che si accese per la successione i 2 figli del re, Aderbale e Iempsale, furono eliminati da un loro cugino, Giugurta, che divenne il nuovo sovrano.

12 I Romani inizialmente accettarono il fatto compiuto; ma quando Giugurta, nel 112 a.C., massacrò la popolazione della città di Cirta, compresi i numerosi mercanti italici là residenti, il senato decise di aprire le ostilità. Per diversi anni, tuttavia, le operazioni si trascinarono ed i Romani subirono ripetute sconfitte, anche perché generali e senatori si lasciavano corrompere dal denaro di Giugurta. Di fronte all’incapacità dell’aristocrazia senatoria di risolvere un conflitto che sulla carta appariva persino banale, i populares sostennero l’elezione al consolato di Mario, avvenuta nel 107 a.C., con il mandato di porre fine alle ostilità nel più breve tempo possibile. Mario tenne fede all’impegno: nel giro di 3 anni ristabilì la situazione, sconfiggendo i Numidi e catturando lo stesso Giugurta, condotto a Roma in catene nel 104 a.C.

13 Il senato ricorse ancora a Mario per fronteggiare l’invasione di due popoli germanici, i Cimbri ed i Teutoni, che si erano spinti fino a minacciare, intorno al 105 a.C., i domini romani nella Gallia Narbonese e nella pianura padana. La gravissima emergenza impose una soluzione estrema: per 5 anni consecutivi, dal 104 al 100 a.C., il consolato fu affidato a Mario. Con 2 sanguinose vittorie, sui Teutoni ad Aquae Sextiae (102) e sui Cimbri ai Campi Raudii (101), egli riuscì a sventare anche questo pericolo. Il prestigio di Mario era all’apice. Ma l’azione di Mario fu decisiva anche grazie alla riforma dell’esercito da lui attuata. Per la prima volta nella storia di Roma l’arruolamento divenne volontario e aperto anche ai nullatenenti. In questo modo il soldato romano diventava un proletario per il quale la guerra era spesso l’unica fonte di reddito, rappresentata dallo stipendio militare, ma anche dal bottino ricavato dai saccheggi nei territori conquistati.

14 La riforma di Mario venne accettata dal senato in un momento di grave emergenza, che non permetteva indugi. Tuttavia, nel 100 a.C., la politica di concessioni e benefici a favore delle classi meno abbienti e di quei soldati di cui Mario era l’indiscusso capo carismatico provocò una frizione sempre più netta non solo con il senato, ma anche con i cavalieri e la plebe, sul cui appoggio il generale basava il proprio consenso. Mario uscì dalla scena politica per più di un decennio. Nel 91 a.C. venne al pettine un altro nodo della crisi politica repubblicana: la questione della cittadinanza ai socii italici. Il tribuno della plebe Marco Livio Druso (come già aveva fatto Caio Gracco) propose l’estensione della cittadinanza romana ai socii; tuttavia, questo era un provvedimento che anche la plebe vedeva con un certo sospetto, nel timore di perdere, dividendoli con altri, i privilegi legati alla cittadinanza romana. La proposta di Druso non ebbe successo ed il tribuno fu assassinato.

15 L’eliminazione di Druso ebbe però un effetto imprevisto: i socii italici, convinti che ormai non rimanesse altra via per raggiungere i loro obiettivi, decisero di prendere le armi. La rivolta, iniziata ad Ascoli Piceno, si estese in tutta l’Italia centro-meridionale e tenne impegnate le truppe romane per 3 anni, fino all’89 a.C. (ma focolai di rivolta si ebbero fino al termine degli anni ottanta). La guerra sociale, così chiamata perché combattuta tra Roma ed i suoi socii, vide contrapposti popoli da secoli abituati a combattere fianco a fianco. I nuclei più forti di combattenti erano rappresentati dai Marsi e dai Sanniti, intorno ai quali le altre popolazioni si erano strette in un vero stato federale, che coniava monete, possedeva un forte esercito e aveva eletto a sua capitale la città di Corfinio, detta Corfinio Italica.

16 La guerra sociale dimostrò ancora una volta che il ricorso alla violenza era l’unico modo per strappare concessioni all’aristocrazia dominante. Formalmente la guerra fu vinta da Roma, ma ciò, di fatto, fu possibile solo perché il senato si impegnò a concedere la cittadinanza, dapprima ai popoli che non avevano aderito alla rivolta, infine a tutti coloro che avessero deposto le armi entro una certa scadenza. Nella guerra sociale si era distinto per abilità militare e spregiudicatezza l’aristocratico Lucio Cornelio Silla (138- 78 a.C.). In gioventù egli aveva collaborato con Mario durante la guerra contro Giugurta, ma presto i due si erano trovati schierati su fronti politici opposti: mentre Mario diventava un punto di riferimento della corrente popolare, Silla apparve ben presto agli ottimati come l’uomo che avrebbe potuto difendere il loro potere. Lo scontro tra Mario e Silla (prima guerra civile) si accese in occasione della guerra contro Mitridate VI, re del Ponto.

17 Il Ponto (piccolo regno sulla costa meridionale del Mar Nero) era uno dei regni ellenistici diventati tributari di Roma. Mitridate, tuttavia, non si rassegnò alla dominazione romana e, approfittando del fatto che i Romani erano impegnati nella guerra sociale, diede inizio ad un progetto di espansione in grande stile nell’Asia Minore. Inizialmente il senato si trovò nell’impossibilità di mobilitare un esercito e di inviarlo in Asia. L’intervento divenne però improrogabile quando Mitridate fece massacrare in una sola giornata 80000 cittadini romani ed italici, residenti in Asia Minore per ragioni di commercio. Il comando della guerra mitridatica fu assegnato a Silla, console nell’88 a.C.. I suoi avversari politici, però, popolari e cavalieri, votarono provocatoriamente una risoluzione che trasferiva il comando a Mario, il quale tornava così al centro dello scontro politico dopo oltre un decennio di emarginazione. A questo punto, Silla si pose a capo del suo esercito, impegnato in Campania a reprimere gli ultimi focolai della guerra sociale, e marciò su Roma.

18 Mario fu costretto a fuggire in Africa, mentre Silla, dopo aver conquistato Roma, poté partire con l’esercito alla volta dell’Oriente. Nel corso di 4 anni di guerra Silla ristabilì la situazione in Oriente, sconfiggendo ripetutamente Mitridate ed i suoi alleati. Nel frattempo, però, a Roma Mario, rientrato in città, aveva riottenuto il consolato. Mario morì nell’86 a.C., ma i suoi seguaci mantennero il controllo della situazione, scatenando rappresaglie contro i partigiani di Silla, con massacri e devastazioni. Di fronte a tale situazione Silla preferì concludere una tregua con Mitridate e tornare precipitosamente in Italia, dove sbarcò nell’83 a.C.. L’esercito sillano, superiore numericamente e militarmente, si scontrò con quello dei populares, guidato dal figlio di Mario, Mario il Giovane presso Porta Collina, all’ingresso di Roma, nell’82 a.C.. Mario il Giovane perse la vita e le forze popolari vennero sbaragliate. Silla rimase l’unico detentore del potere.

19 SILLA PADRONE DI ROMA Silla si fece assegnare a tempo indeterminato la carica di dittatore per la riforma dello stato. Egli rimase dittatore per 3 anni, dall’82 all’80 a.C.., durante i quali perseguì con coerenza e spietatezza un programma politico il cui obiettivo ultimo era chiaro: rendere immodificabile il potere dell’aristocrazia senatoria, eliminando qualsiasi altra autorità che potesse minacciarlo, condizionarlo o indebolirlo. Silla si liberò degli avversari politici attraverso le cosiddette liste di proscrizione (elenchi di pubblici nemici dello stato che chiunque poteva uccidere impunemente). Quindi ridusse notevolmente i poteri dei tribuni della plebe. Stabilì poi l’obbligo per i comandanti di congedare gli eserciti non appena giunti in Italia, i cui confini vennero fatti coincidere con l’intera penisola, ad eccezione della pianura padana (linea immaginaria dal fiume Magra al Rubicone).

20 Un’altra norma vietò la rielezione al consolato prima che fossero trascorsi 10 anni dal consolato precedente. L’intero assetto del cursus honorum fu ridefinito. Il diritto di accesso al senato venne esteso ai magistrati minori, a partire dai questori (così il numero dei senatori passò da 300 a 600). Silla, inoltre, mise nuovamente nelle mani dei senatori il pieno controllo dei processi intentati contro i governatori di provincia. Completate le sue riforme, Silla depose spontaneamente la dittatura nell’80 e si ritirò a vita privata. Morì nel 78 a.C..


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