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Postmoderno e postumano
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Che cos’è il Postmodernismo
Il termine è stato coniato nel 1949, e si riferisce a un movimento, nel campo dell’architettura, che polemizza con il razionalismo asettico del modernismo e propone una visione mobile e composita. Robert Venturi: «I like elements which are hybrid rather than "pure", compromising rather than "clean", […] accommodating rather than excluding. […] I am for messy vitality over obvious unity. […] I prefer "both-and" to "either-or", black and white, and sometimes gray, to black or white. […] An architecture of complexity and contradiction must embody the difficult unity of inclusion rather than the easy unity of exclusion».
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Postmoderno vs. moderno (in architettura)
Il Modernismo è, in generale, una reazione alla modernità e alla sua presunzione di razionalità. Nel campo architettonico, ovvero nel campo della gestione dello spazio, il Modernismo è però la celebrazione della modernità, con le sue strutture regolari e prive di ambizioni «estetiche» – v. l’Home Insurance Building di Chicago (1883) e il Flatiron Building di New York (1903). Il Postmodernismo architettonico privilegia invece una «barocca» contaminazione di forme e stili, come in Piazza d’Italia di New Orleans (1978) e nella Norton Beach House di Venice (1983).
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Lo spazio (architettonico) modernista
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Lo spazio (architettonico) postmoderno
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Modernismo vs postmodernismo
Modernismo: enfasi sulla dimensione soggettiva della percezione, a fronte di una realtà incomprensibile la cui esistenza non viene però mai negata (dubbio epistemologico) Postmodernismo: messa in discussione sia del soggetto sia della realtà, perché sono costruzioni artificiali (dubbio ontologico) – ogni tentativo di mettere «ordine» e di trovare un «senso» è di per sé «falso»: esiste solo l’impero dei segni, che non rimandano ad altro all’esterno di sé
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Il postmoderno e il pastiche
Termine francese, derivato dall’italiano pasticcio Indica una tecnica che «impasta» elementi eterogenei, senza cercare di armonizzarli Spesso ha intenti parodici Combina generi e stili diversi per rispecchiare la caoticità incomprensibile della «iperrealtà» (rappresentazione iperbolica della realtà che sembra più «reale» del «reale») postmoderna Mette in dubbio l’esistenza stessa della «realtà», ormai sostituita dal gioco infinito delle immagini prodotte dalla comunicazione globale
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La metafiction Metafiction:
Tecnica che esalta l’artificialità della narrazione, rendendola del tutto evidente e manifesta Abolisce il principio della “willful suspension of disbelief” (Coleridge, 1817) Destabilizza l’«autorità» dell’autore, che diventa un elemento artificiale assieme agli altri elementi del testo La historiographic metafiction, che mescola fatti storici (e personaggi) documentati con eventi (e personaggi) inventati (di)mostra non solo l’artificialità del testo di fiction ma anche quella del testo storiografico, perché entrambi rispondono alle stesse esigenze di costruzione dell’intreccio, del discorso, e dei loro significati
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Distorsione dello spazio-tempo
Il Postmodernismo conduce alle più estreme conseguenze la rottura dell’ordine dello spazio e del tempo introdotto dal Modernismo, ma spesso, anziché tradurla in forme ironiche eppure tragiche come in Joyce o Eliot, la usa per promuovere una sorta di euforica irresponsabilità rispetto al «mondo esterno» (non in Blade Runner, dove l’artificialità delle memorie dell’androide, privato di ogni controllo sul suo «tempo», è metafora di un’ideologia che trasforma le classi subalterne in «macchine», disumanizzandole).
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Tecnocultura e iperrealtà
Fredric Jameson: “society has moved past the industrial age and into the information age” Jean Baudrillard: la postmodernità ha prodotto il passaggio a una iperrealtà in cui le simulazioni hanno sostituito il reale Nel mondo dell’informazione tecnologica globale, hanno senso solo le rappresentazioni, ovvero i segni e le immagini trasmesse dai mass e personal media Simulacro: copia di un originale che non esiste
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Postmodernismo e paranoia
Paranoia: convinzione che poteri occulti determinino l’aspetto esteriore della «realtà», che in effetti è solo una costruzione artificiale, mentre la realtà «vera» resta nascosta, irraggiungibile Postmodernismo: non c’è alcuna realtà «vera» – esiste solo il mondo dei segni, e delle loro interpretazioni (Nietzsche: non ci sono fatti, solo interpretazioni)
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La fine delle «Grandi narrazioni»
Jean François Lyotard, La Condition postmoderne (1979): le «grandi narrazioni» (o «metanarrazioni», nella terminologia di Lyotard), ovvero le narrazioni metafisiche (illuminismo, idealismo, marxismo, nazifascismo, ma anche la psicoanalisi o il positivismo) che hanno giustificato ideologicamente lo status quo o viceversa lo hanno criticato proponendo il suo ribaltamento rivoluzionario, cedono il passo a micronarrazioni, contingenti e spesso non documentate, che hanno valore solo relativo, «personale», mai assoluto, «generale».
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Il postumano Il postmodernismo teorizza l’abolizione non solo della realtà esterna, oggettiva, ma anche di quella interna, soggettiva (Cartesio distingueva tra res extensa, il “mondo esterno”, e res cogitans, il soggetto consapevole di se stesso). Di conseguenza, anche l’umano cessa di essere una realtà a sè stante, contraddistinta dalla presenza di caratteri suoi propri e dall’assenza di caratteri “alieni”. Il postumano teorizza il superamento di questa concezione binaria e oppositiva: umano e non-umano (naturale o artificiale) si confrontano e si fondono, dando vita a identità ibride e mobili Secondo la filosofia occidentale “umanistica”, la natura umana è autonoma, razionale, dotata di libero arbitrio, e “unitaria”. Il postumanesimo rivaluta l’imperfezione, la disomogeneità, la contraddizione. L’identità stessa non è più “identica”, ma multipla e mutevole.
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Il cyborg La perfetta incarnazione del postumano è il cyborg (cybernetic organism, fusione di organico ed elettronico). In A Cyborg Manifesto (1984) Donna Haraway critica la separazione tra “corpo” e “anima” che percorre tutta la filosofia occidentale, e che vede il corpo come un puro “contenitore” per l’anima, il suo “contenuto”. Il soggetto è invece costituito come un insieme di elementi in reciproca relazione e in costante cambiamento, e la sua “identità” non si colloca in alcuno di questi elementi, ma nella loro sempre mutevole configurazione (donde la messa in discussione della nozione stessa di soggetto). Secondo Katherine Hayles (How We Became Posthumans, 1999), la dimensione virtuale della comunicazione elettronica ha trasferito nel mondo immateriale alcuni aspetti dell’identità umana che prima erano indissolubilmente legati alla sua materialità corporea – l’identità umana è quindi diventata postumana, e non è nemmeno più una ”identità”. La teoria del postumanesimo spesso celebra come conquista questa perdita della “singolarità” corporea, ma molti testi “postmoderni” denunciano invece l’asimmetrica distribuzione del potere tra chi può permettersi di “navigare” liberamente tra molteplici identità virtuali (perché in termini socio-economici è perfettamente “stabile”) e chi invece è costretto/a a vivere determinati ruoli (spesso diversi e contraddittori) imposti dal «sistema», senza mai trovare una qualche stabilità.
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Blade Runner: un fanta-noir
Negli anni ’70 e ’80 il cinema di fantascienza, obbedendo alla logica postmoderna della fusione dei generi, si mescola con il cinema western e il cinema noir. In Blade Runner la dimensione western è solo accennata, nelle colonie “extra-mondo”, la “Frontiera” dove vivono e lavorano I replicanti; il noir diviene invece la cifra stilistica dominante. Blade Runner rimanda chiaramente a film noir degli anni ’40 come The Big Sleep, Double Indemnity e The Postman Always Rings Twice, in cui Los Angeles è descritta come città “notturna” del vizio e della corruzione. Nella versione distribuita nei cinema nel 1982, c’è il voice over del protagonista che commenta con tono hard boiled la sua vicenda.
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Blade Runner e Do Androids Dream of Electric Sheep?
Blade Runner è liberamente tratto da Do Androids Dream of Electric Sheep?, il romanzo di Philip K. Dick del 1968 in cui la California (il romanzo è ambientato però a San Francisco) è ugualmente in decadenza, ma arida e quasi disabitata, perché gli umani si stanno trasferendo su altri mondi. In entrambi i testi, il nucleo centrale è la permeabilità della frontiera tra umano e non umano, con l’umano che si disumanizza sempre più nella sua caccia agli androidi fuggiaschi (i “nuovi schiavi” della postmodernità) e il non-umano che rivendica il suo diritto alla vita, ribellandosi a un destino che in realtà è quello dell’umanità, ridotta a puro ingranaggio nella macchina dell’economia globale e delle corporations (termine che usa la parola “corpo” per definire qualcosa che non lo ha…).
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Blade Runner e la città postmoderna/postumana
Una città notturna, piovosa, sovraffollata, cosmopolita – entro i confini urbani tutti gli altri confini vengono abbattuti Una città “apocalittica”, posta alla fine della storia dell’umanità, minacciata da una catastrofe ecologica (la vita non-umana è già quasi scomparsa – la Sesta Estinzione) Una città distopica (il rovescio dell’utopica “Città di Dio”, dove tutto è organizzato e ordinato – nella LA di Blade Runner domina il caso/caos Una città di fantasmi (replicanti umani e animali, immagini digitali, esseri umani che si muovono come macchine, illuminati da luci artificiali stranianti)
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Ambigui finali La versione del 1982, perfezionata dalla produzione, termina con la fuga di Deckard e Rachel verso la luce (con immagini tratte dall’inizio di The Shining, film horror che descrive l’autodistruzione di una famiglia…), ma il director’s cut si chiude con i due che prendono l’ascensore dopo che Rachel ha urtato un origami di Gaff rappresentante un unicorno (simbolo della fusione che supera le frontiere inter-specie, ma anche dell’estinzione). Sempre nel director’s cut appare una scena assente nell’edizione 1982, in cui Deckard sogna un unicorno. L’unicorno di carta stagnola potrebbe quindi indicare che anche Deckard è un replicante, che le sue memorie sono state «impiantate», e che Gaff le conosce.
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Blade Runner 2049 Blade Runner 2049 pone nuove domande sull’umanità, sulla non-umanità, e sulla post-umanità. Il film di Scott suggeriva che la domanda “che cosa significa essere umani?” potesse trovare una risposta non in una qualche “verità oggettiva”, ma nelle modalità di relazione tra gli umani e tra questi e il non-umano – il test Voight-Kampff cui i replicanti vengono sottoposti serve a verificare se siano capaci di “empatia”, e cioè di condividere sensazioni e sentimenti dell’“altro”, sia umano sia non-umano. Ma questa verifica riguardava comunque esseri biologici dotati di autocoscienza (umani o replicanti che fossero) e trovava risposte quantomeno “aperte”, soprattutto se giungiamo alla conclusione (condivisa dal regista) che anche Deckard è un androide (ma è evidentemente capace di provare empatia, come del resto Roy Batty alla fine della sua – breve – vita…), e se consideriamo quanto poco “empatici” siano gli umani verso i replicanti.
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Una metafora dello schiavismo
In entrambi i film la frontiera tra umani e replicanti riproduce metaforicamente la «linea del colore» che separava (e separa…) bianchi e neri nella società americana: l’espressione «skin jobs» per definire gli androidi rimanda chiaramente alla differenza di «pelle» – anche gli umani hanno ovviamente la pelle, ma anche i «bianchi» hanno un colore (in realtà, sono «rosa»), eppure i «non bianchi» vengono definiti «di colore». Inoltre, i replicanti sono chiaramente degli schiavi, ovvero lavoratori non pagati e di proprietà dei loro padroni, privi di qualunque diritto. Infine, Wallace propone esplicitamente questa relazione, e vede nella riproduzione biologica dei replicanti la soluzione alla loro «scarsità» («replicando» il controllo sulla riproduzione della forza lavoro che gli schiavisti operavano su schiavi e schiave).
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Inversione dei ruoli Ancor più che nel film di Scott, in quello di Villeneuve i ruoli tra umani e non umani si ribaltano, con gli androidi che vanno alla ricerca della possibilità di avere un’origine «biologica», e gli umani che modificano la propria biologia con impianti cibernetici, come nel caso di Niander Wallace, che può vedere solo grazie ad essi (anche in questo film l’enfasi sul «vedere» sottolinea come il nostro rapporto col mondo passi soprattutto attraverso il senso della vista, ma la sua «artificialità» diventa in Wallace metafora di «disumanità»).
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Identità in flusso Alla fine di Blade Runner (nel Director’s Cut) si suggerisce che Deckard sia un replicante, ma in Blade Runner 2049 sembra che sia piuttosto un umano, e che sia riuscito ad avere una figlia con l’androide Rachel – la frontiera biologica tra umano e non-umano verrebbe quindi superata, e la figlia, Ana Stelline, sarebbe una «mulatta» umano/replicante. Oppure Deckard è comunque un replicante? L’Agente K all’inizio è un androide, poi si convince di essere il figlio (quindi, almeno in parte umano) di Deckard e Rachel, e poi di avere invece soltanto delle memorie impiantate della sua gemella «virtuale», Ana. Ma è proprio così (Deckard lo chiama «Joe»…)? E poi, muore davvero, alla fine?
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Umanità non biologiche
L’altra innovazione fondamentale di Blade Runner 2049 è l’introduzione di una intelligenza/emotività totalmente artificiale, non biologica: Joi, la «compagna» olografica, e quindi non corporea, di K. Ciò nonostante, anche Joi varca il confine tra umano e non umano, prova emozioni, e ne fa provare a K (soprattutto quando si «fonde» – imperfettamente, come sottolineano gli sfarfallamenti dell’immagine – con la corporeità della prostituta replicante). Il presupposto del film, che è anche la sua conclusione, è che l’identità è un flusso in continua ridefinizione, e che non è legata all’origine (umana, non umana, cibernetica) ma alla relazione tra il soggetto e gli altri soggetti, tra un «io» che non può mai essere identificato se non nel suo rapporto con l’«altro».
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