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PubblicatoCristoforo Mosca Modificato 9 anni fa
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L’ASCESA DI POMPEO Quando Silla si ritirò volontariamente dalla vita politica, il senato non fu più in grado di governare Roma. I problemi erano molti: tra i più gravi vi erano l’insurrezione popolare scoppiata nei territori spagnoli, le ostilità riaperte da Mitridate in Oriente, una rivolta servile scoppiata in Italia che, a differenza di quelle minori del secolo precedente, rapidamente domate, era destinata a rivelarsi la più grave della storia romana. Era necessario un nuovo capo militare che spingesse l’esercito a sostenere le sorti del senato: quest’uomo fu Gneo Pompeo. Dopo aver combattuto giovanissimo a fianco di Silla, egli aveva affrontato una difficile situazione in Spagna. Lì il generale Quinto Sertorio capeggiava la rivolta di coloro che sostenevano l’indipendenza della Lusitania (attuale Portogallo), a fianco dei quali si erano schierati anche esuli romani. La lotta era cominciata nell’80 a.C. e, nonostante l’arrivo di Pompeo, si concluse solo nel 72 a.C., quando Sertorio venne ucciso a tradimento da un suo soldato.
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Sulla strada del ritorno dalla penisola iberica Pompeo riuscì a riportare un’ulteriore vittoria. Nel 73 a.C. era scoppiata una rivolta servile capeggiata da Spartaco, uno schiavo proveniente dalla Tracia, che la sorte aveva condotto a Capua, dove aveva sede la più celebre scuola di gladiatori. Egli aveva concepito un piano per rendere la libertà ai suoi compagni, che al suo seguito avrebbero risalito l’Italia per poter tornare nei propri paesi d’origine, la Gallia o la Tracia. Spartaco, però, si trovò a guidare un esercito di circa rivoltosi, che, contrariamente al piano, non si diresse a nord, bensì a sud, a ciò istigato da alcuni delinquenti infiltratisi nel gruppo, con l’intenzione di saccheggiare le ricche città del Meridione. Roma, per fermare questa rivolta, fu costretta a mobilitare un esercito al comando di Marco Licinio Crasso. Nel 71 a.C. i ribelli vennero sconfitti e 6000 schiavi superstiti furono messi a morte su altrettante croci, issate lungo la via Appia, tra Capua e Roma. Quelli che erano riusciti a mettersi in salvo dirigendosi verso nord furono sbaragliati da Pompeo.
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Le vittorie militari avevano fatto acquistare a Pompeo una popolarità ed un prestigio che incominciarono a preoccupare persino l’aristocrazia senatoria, che fino a quel momento aveva riposto in lui tutte le sue speranze ed i cui interessi egli aveva fino ad allora sostenuto. Tornato a Roma, Pompeo aveva iniziato ad ambire al consolato, anche se non aveva ricoperto le cariche inferiori, come volevano le riforme sillane. Per forzare il senato, egli strinse alleanza con Crasso, l’uomo più ricco di Roma. Per ottenere il consenso anche dei populares, Pompeo promise che, da console, avrebbe modificato in senso democratico la costituzione sillana. Con Pompeo e Crasso accampati con le loro legioni alle porte di Roma e con i populares che li sostenevano, il senato fu costretto a cedere: contro le regole costituzionali, nel 70 a.C. Pompeo e Crasso divennero consoli. Fedele alle promesse fatte, Pompeo propose e fece votare una serie di leggi che smantellavano la costituzione sillana (reinserì i cavalieri nelle giurie dei tribunali speciali per il reato di malgoverno nelle province; restituì ai tribuni della plebe le prerogative loro sottratte; espulse dal senato ben 84 senatori indegni.)
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Sarebbe sbagliato pensare che Pompeo avesse abbracciato completamente la causa dei populares; semplicemente egli aveva capito che la politica del senato era perdente e che la corruzione al suo interno aveva raggiunto un livello inaccettabile, come dimostrato dal famoso scandalo di Verre, un pretore che, nel 70 a.C., venne processato per gli abusi commessi in Sicilia. Al termine dell’anno in carica come console, Pompeo rifiutò di andare a comandare una provincia e ricevette invece poteri straordinari per combattere contro i pirati. Quest’ultimi avevano stabilito le loro basi sulle coste meridionali dell’Asia Minore, della Cilicia e di Creta e rappresentavano ormai una minaccia che doveva essere affrontata. Nel 67 a.C., Pompeo, dopo 3 mesi di combattimenti, riuscì ad avere la meglio sui pirati ed a rendere più sicura la navigazione nel Mediterraneo. L’anno successivo a Pompeo vennero nuovamente affidati i pieni poteri, questa volta al fine di chiudere per sempre la partita con Mitridate, re del Ponto, che nel 75 a.C. aveva invaso la Cappadocia e la Bitinia, territori sotto il protettorato di Roma. Pompeo ebbe facilmente ragione di Mitridate, che, nel 63 a.C., tradito dal suo stesso figlio Farnace, si uccise.
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Nel 62 a.C., quando tornò in patria, Pompeo non diede alcun segno di voler abusare del proprio potere, come i suoi concittadini temevano. Dopo aver congedato l’esercito, si limitò a chiedere al senato la ratifica dei provvedimenti presi in Asia e la distribuzione di terre ai suoi veterani. Un passo indietro: alla fine del 63 a.C., mentre Pompeo era in Oriente, a Roma venne scoperto e sventato un tentativo di colpo di stato. Il piano prevedeva l’eliminazione dei consoli in carica, una strage di senatori e, almeno sulla carta, l’attuazione di un progetto rivoluzionario, che aveva al centro la cancellazione dei debiti, una delle antiche e mai soddisfatte aspirazioni della plebe e al tempo stesso uno dei provvedimenti più invisi ai nobili, che dal prestito ad usura traevano una percentuale significativa dei loro redditi. A progettare ed animare la congiura fu Lucio Sergio Catilina, un nobile di famiglia prestigiosa, ma dalle condizioni economiche gravemente dissestate. La congiura fu scoperta grazie ad una spiata e repressa con provvedimenti ai limiti della legalità da Cicerone, che quell’anno era salito al consolato proprio imponendosi sulla candidatura di Catilina.
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L’ASCESA DI CESARE Caio Giulio Cesare, nato nel 100 a.C., apparteneva all’antica, nobile famiglia degli Iulii, che si vantava di discendere da Enea, figlio di Venere. Durante la guerra civile, aveva sostenuto i populares, salvandosi dalle proscrizioni solo grazie alle numerose amicizie aristocratiche. Pur essendo nobile, tuttavia, la sua famiglia si trovava in disastrose condizioni economiche, per risollevare le quali, con grande abilità, Cesare si alleò con Crasso, che non solo finanziava le sue campagne politiche, ma pagava i debitori che lo perseguitavano. Crasso, a sua volta, era un uomo di scarsa abilità politica e di ancor più scarsa popolarità, il quale doveva il suo potere unicamente alle ingenti ricchezze personali, che gli permettevano di controllare le elezioni.
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Pompeo, una volta rientrato dalla guerra contro Mitridate, era rimasto profondamente deluso dal comportamento del senato che aveva respinto le sue richieste (terre ai veterani; ratifica dei provvedimenti da lui presi in Asia Minore), limitandosi a tributargli il trionfo. Nel 60 a.C., Cesare (che aspirava al consolato), Crasso e Pompeo si resero conto che, alleandosi tra di loro, avrebbero potuto raggiungere i loro obiettivi, superando l’ostilità del senato. In quell’anno, dunque, i tre strinsero a Lucca un accordo noto come primo triumvirato. In realtà, si trattava di un puro e semplice accordo personale, secondo cui Pompeo avrebbe appoggiato la candidatura di Cesare al consolato per l’anno 59 a.C., Cesare avrebbe fatto approvare i provvedimenti di Pompeo, Crasso avrebbe sostenuto presso gli esponenti della classe finanziaria la distribuzione delle terre ai veterani di Pompeo.
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Eletto console nel 59 a.C., Cesare onorò gli impegni presi con Pompeo e con Crasso. Oltre alla distribuzione di terre ai veterani di Pompeo, Cesare ottenne che si distribuissero terreni anche alla plebe. Cesare inoltre stabilì che i verbali delle sedute delle assemblee e del senato venissero resi pubblici ed abolì la pratica di prendere gli auspici prima delle assemblee legislative. Durante il consolato, Cesare si era assicurato il comando proconsolare nella Gallia Cisalpina e nell’Illirico. In seguito, ottenne il governo della Gallia Narbonense (l’attuale Provenza), una regione assai turbolenta, ma proprio per questo interessante agli occhi di Cesare. Egli sognava di portare i confini di Roma sempre più a nord e ad ovest nella Gallia libera, oltre i confini della Narbonense. Prima di lasciare Roma, però, pensò di allontanare dalla città i suoi nemici optimates, Cicerone e Marco Porcio Catone (il pronipote del celebre Catone il Censore).
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L’occasione che Cesare aspettava per muovere guerra contro le popolazioni galliche giunse quando gli Elvezi, che occupavano l’attuale Svizzera occidentale, incalzati dalle popolazioni germaniche degli Svevi e dei Sequani, iniziarono a premere sui confini degli Edui, una tribù gallica libera, stanziata ad occidente del territorio elvetico. Di fronte al pericolo, gli Edui, alleati dei Romani, chiesero aiuto a Cesare e la risposta di questi fu immediata: nel 58 a.C., ancora prima che il senato lo autorizzasse, affrontò gli Elvezi a Bibracte (oggi Autun) e li sconfisse. Assunta la veste di difensore dei Galli liberi, egli sconfisse poi Ariovisto, re dei Germani, giungendo ai confini della Gallia del Nord. Le popolazioni locali si unirono in una coalizione antiromana, che, però, fu rapidamente sgominata da Cesare, il quale, nel 57 a.C., raggiunse le coste della Manica.
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LA GALLIA PRE- ROMANA
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LE SPEDIZIONI DI CESARE IN GALLIA
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A Roma, durante l’assenza di Cesare, i populares erano impegnati in continui scontri con le bande armate di un certo Milone, di cui gli aristocratici si servivano per contrastare la loro politica. Inoltre, Pompeo, allarmato dal potere crescente di Cesare, aveva ripreso i contatti con l’oligarchia senatoria, incoraggiandola a richiamare Cicerone dall’esilio (come poi avvenne). Deciso ad impedire che queste manovre cambiassero gli equilibri di potere, nel 56 a.C., Cesare tornò in Italia e a Lucca strinse con Pompeo e Crasso un nuovo accordo, in cui, di nuovo, le cariche pubbliche venivano “lottizzate” a fini di potere personale: Cesare sarebbe stato di nuovo proconsole in Gallia, Pompeo e Crasso sarebbero divenuti consoli nel 55 a.C. e quindi avrebbero avuto a loro volta un proconsolato.
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Tuttavia l’accordo non durò a lungo; Pompeo si schierò ben presto dalla parte dell’aristocrazia senatoria, presentandosi come il difensore delle istituzioni repubblicane e come il più feroce avversario di chi a queste attentava (vale a dire Cesare). Nel 53 a.C. Crasso morì combattendo contro i Parti e nel 52 a.C. Pompeo, per volere del senato, fu nominato console senza collega, con potere assoluto di guerra e incaricato di reclutare un esercito per controllare la città. Del tutto al di fuori delle regole istituzionali che il senato sosteneva di difendere, per volere di questo stesso organo, egli aveva in mano il potere assoluto di governo ed era giunto a disporre di una forza militare notevole.
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Tornato in Gallia, Cesare aveva continuato la sua irresistibile marcia di conquista, raggiungendo la Britannia, ancora sconosciuta, dove, nel 54 a.C., aveva stretto alleanza con alcune tribù locali, giungendo fino al Tamigi. Ma nel 53 a.C. fu di nuovo impegnato in Gallia, per combattere Vercingetorìge, giovane capo degli Arverni, al comando di numerose tribù decise a riconquistare la libertà perduta. Dopo aver tenuto eroicamente fronte per 2 anni alle legioni romane, nel 52 a.C., asserragliato nella città di Alesia, Vercingetorìge fu costretto ad arrendersi al nemico nettamente più forte. Ridotta a provincia, la Gallia venne definitivamente incorporata nel mondo romano.
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LA SECONDA GUERRA CIVILE
Forte delle vittorie militari, Cesare intendeva proporre la propria candidatura al consolato, ma il senato, temendo che egli intendesse conquistare il potere con la forza, decise di contrastare le sue aspirazioni. Per essere eletto, Cesare avrebbe dovuto lasciare le sue legioni e presentarsi a Roma come privato cittadino. Egli chiese allora che anche Pompeo sciogliesse il suo esercito, ma il senato respinse la richiesta. Pertanto, la notte del 10 gennaio del 49 a.C., Cesare attraversò con le legioni il fiume Rubicone, presso Rimini (che segnava i confini fra la Gallia Cisalpina e l’Italia centro-meridionale), pronunciando la storica frase “Alea iacta est”. Secondo la legge, chiunque avesse condotto un esercito oltre il Rubicone sarebbe divenuto nemico di Roma.
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Cesare avanzò verso la capitale senza incontrare pressoché alcuna resistenza. Incapace di organizzare una difesa, Pompeo fuggì allora in Macedonia. Cesare, conquistata la penisola italica e sgominate in Spagna le legioni fedeli a Pompeo, nel 48 a.C. sconfisse lo stesso Pompeo in Grecia, nella battaglia di Farsàlo, in Tessaglia. Pompeo si spostò a quel punto in Egitto, dove regnavano Tolomeo XIII e la sorella e sposa Cleopatra. Tolomeo ordinò che Pompeo venisse ucciso, senza ottenere alcuna ricompensa da Cesare per il suo gesto. Quest'ultimo, infatti, nel contrasto che opponeva Cleopatra al fratello, sostenne con decisione le parti della ventiduenne regina, della quale, ormai cinquantaduenne, si era perdutamente innamorato.
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Nel frattempo, in Asia Minore si era ribellato il re del Ponto Farnace ( figlio di Mitridate). Cesare, costretto a lasciare l’Egitto, nel 47 a.C. lo sconfisse a Zela con tale rapidità che la notizia venne comunicata al senato con un’altra delle sue frasi diventate storiche: “Veni, vidi, vici”. Recatosi quindi in Africa, nel 46 a.C. sconfisse a Tapso i seguaci di Pompeo superstiti (tra cui Catone il Giovane), che avevano trovato rifugio alla corte di Giuba, re di Numidia. Ad Utica Catone il Giovane preferì uccidersi piuttosto che assistere alla fine della libertà repubblicana (per questo verrà soprannominato Catone l’Uticense). Gli ultimi seguaci di Pompeo furono definitivamente battuti nel 45 a.C. a Munda, nel sud della Spagna. Cesare era ormai padrone di Roma.
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CAIO GIULIO CESARE Di Cesare fu scritto:
"Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni; il primo e veramente unico imperatore" (Th. Mommsen, Storia di Roma antica - Libro V - Cap. XI)
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IL GOVERNO DI CESARE Assunto il titolo di imperator (generale vittorioso) e di padre della patria, Cesare si fece nominare dittatore a vita. Le istituzioni repubblicane erano formalmente ancora in vigore, ma nella sostanza tutti i poteri erano concentrati nelle mani di Cesare. Questi non ne abusò e con magnanimità e senso dello stato diede inizio ad un’organica politica riformatrice, i cui atti principali furono i seguenti: Fece rientrare a Roma gli esiliati. Concesse la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina. Emanò nuove leggi per lo sviluppo dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Migliorò il governo delle province. Razionalizzò il sistema delle distribuzioni gratuite di grano. Diede inizio ad una campagna di grandi opere pubbliche per diminuire la disoccupazione (sistemazione del Foro, arginamento del Tevere, prosciugamento delle Paludi Pontine). Fondò colonie per garantire una decorosa sistemazione ai proletari.
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All’aristocrazia senatoria nulla importava di tutte queste iniziative
All’aristocrazia senatoria nulla importava di tutte queste iniziative. Essa voleva riconquistare il potere perduto e dava credito alle voci secondo le quali Cesare avrebbe voluto instaurare una monarchia di tipo orientale, in questo influenzato da Cleopatra, dalla quale, tra l’altro, aveva avuto un figlio, Cesarione. Inoltre, Cesare era odiato anche da alcuni repubblicani, convinti che egli avesse privato Roma della libertà. In questo clima maturò la congiura che portò alla sua morte. Il 15 marzo del 44 a.C. (le Idi di marzo) Cesare si recò in senato, nonostante fosse stato avvertito dell’esistenza del complotto. Qui si trovò il passo sbarrato dai congiurati, capeggiati da Cassio e da Marco Giunio Bruto, suo figlio adottivo. Dopo aver pronunciato una delle frasi più celebri che la storia romana ricordi (Tu quoque, Brute, fili mi!), Cesare si tirò la toga sul capo, offrendo simbolicamente la vita agli dei, e cadde sotto 23 colpi di pugnale.
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L’EREDITA’ DI CESARE: ANTONIO E OTTAVIANO
Nei giorni successivi alle Idi di marzo, si scatenò la rivalità tra Antonio, uno dei luogotenenti più vicini a Cesare, che voleva presentarsi come suo successore, ed il diciannovenne Caio Ottaviano, nato nel 63 a.C. da una figlia di Giulia, sorella del dittatore scomparso, da quest’ultimo adottato e citato nel suo testamento come suo erede ufficiale. Inoltre, sempre per testamento, Cesare aveva lasciato 300 sesterzi ad ogni membro del proletariato urbano e ad ogni legionario. Il 20 marzo, durante i suoi funerali, il popolo, che lo aveva sempre amato, si abbandonò a manifestazioni di dolore e di protesta così violente che Bruto e Cassio, le cui case nel frattempo erano state incendiate, furono costretti a fuggire in Oriente. Verso la fine di aprile, Ottaviano, che alle Idi di marzo si trovava in Epiro, tornò a Roma fermamente deciso a far rispettare le ultime volontà di Cesare.
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Poiché Antonio si rifiutò di consegnargli il lascito di Cesare, Ottaviano vendette i propri beni personali e, con il ricavato, distribuì alla plebe ed ai soldati le somme loro destinate da Cesare. In questo modo la sua popolarità crebbe enormemente. Antonio, nel frattempo, pretendeva il governo della Gallia Cisalpina, già regolarmente assegnato a Decimo Bruto. Contro le sue pretese, Cicerone si era scagliato con le celebri orazioni note come Filippiche, perché la loro veemenza ricordava le orazioni pronunciate dall’oratore greco Demostene contro Filippo il Macedone. Ma Antonio non aveva ceduto ed era partito con l’esercito verso la Gallia, intendendo occuparla con la forza. In aiuto di Decimo Bruto il senato inviò allora l’esercito consolare, al quale si affiancarono le truppe raccolte da Ottaviano. Nel 43 a.C., a Modena, Antonio fu sconfitto e da lì si recò nella Gallia Narbonense, raggiungendo il generale Marco Emilio Lepido, proconsole in quella provincia e suo fedelissimo. I due vennero dichiarati nemici della repubblica.
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Ottaviano, nonostante avesse appena raggiunto i 20 anni e non avesse ancora percorso il cursus honorum, chiese di ricoprire il consolato. Quando il senato respinse la sua richiesta, accusandolo, tra l’altro, di aver combattuto contro Antonio con truppe irregolari, Ottaviano cominciò a pensare all’opportunità di un accordo con il suo rivale. Dopo essersi assicurato quest’alleanza, nel 43 a.C. egli fece accampare le sue truppe in armi alle porte di Roma e, entrato in città, si fece eleggere console. Il suo primo provvedimento fu la revoca dell’amnistia concessa ai cesaricidi e dell’editto con cui Antonio e Lepido erano stati dichiarati nemici della patria. Sempre nel 43 a.C., Ottaviano incontrò a Bologna Antonio e Lepido, con i quali strinse un accordo noto come “secondo triumvirato”. Esso aveva una durata di 5 anni, si prefiggeva di punire gli uccisori di Cesare, di combattere i loro alleati e di dare allo stato una nuova costituzione. A differenza del primo triumvirato, che era stato solamente un accordo privato, l’intesa tra Ottaviano, Antonio e Lepido fu considerata una magistratura straordinaria e venne resa pubblica.
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Per sgominare i nemici, i triumviri ricorsero, come ai tempi di Silla, alle liste di proscrizione e le liste furono, ancora, il pretesto per massacrare centinaia di innocenti. Tra le vittime politiche vi fu anche Cicerone, che con le Filippiche si era attirato l’odio di Antonio. I cesaricidi Bruto e Cassio, nel frattempo, avevano raccolto in Macedonia un esercito. Ottaviano ed Antonio, mentre Lepido restava a controllare la situazione a Roma, partirono per costringerli alla battaglia e, nel 42 a.C., li sconfissero definitivamente nella pianura di Filippi, fra la Tracia e la Macedonia. Bruto e Cassio si suicidarono. La partita con gli anticesariani era chiusa e Roma era nelle mani dei triumviri.
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LA FINE DELLA REPUBBLICA
Dopo la battaglia di Filippi, la rivalità tra i 2 antichi nemici, Antonio ed Ottaviano, si riaccese, provocando una situazione di estrema instabilità politica, vicina alla guerra civile. Per evitare lo scontro armato, nel 40 a.C. Antonio, Ottaviano e Lepido si incontrarono a Brindisi e strinsero un nuovo patto: Antonio avrebbe avuto le province orientali, Ottaviano quelle occidentali e Lepido l’Africa, assai meno importante. Tale accordo fu rafforzato da 2 importanti matrimoni: Ottaviano sposò Scribonia, parente di Sesto Pompeo; Antonio prese in moglie Ottavia, sorella di Ottaviano. Ma il matrimonio non fu sufficiente a tenere Antonio lontano dall’Egitto, dove, nel frattempo, era caduto a sua volta vittima del fascino di Cleopatra. Tornato dunque in Egitto, Antonio si stabilì alla corte di Alessandria, iniziando una convivenza con l’ambiziosa regina e comportandosi come se le province d’Oriente fossero sua proprietà privata. Tra l’altro, si disinteressò per lungo tempo del fatto che i Parti continuassero a minacciare i confini orientali del territorio romano, fino a quando, nel 36 a.C., si decise finalmente a prendere le armi, ma fu costretto ad una drammatica ritirata.
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Mentre Antonio veniva presentato dalla propaganda di Ottaviano come un traditore che non rispettava né i doveri pubblici né gli impegni matrimoniali, Ottaviano si impegnava con grande abilità e successo a costruirsi l’immagine del difensore dello stato e dei valori familiari. Dopo aver sconfitto in Sicilia nel 36 a.C. Sesto Pompeo (ripudiando al tempo stesso la moglie Scribonia per sposare la diciannovenne Livia), nello stesso anno eliminò Lepido dalla scena politica: Ottaviano rimase così padrone assoluto dell’Occidente. In Oriente, invece, Antonio progettava di instaurare una monarchia orientale di tipo ellenistico, con capitale Alessandria. In considerazione di questo fatto, Ottaviano cercò di suscitare l’ostilità di tutti i suoi concittadini nei confronti di Antonio: essendo venuto in possesso del suo testamento, ne diede pubblica lettura in senato. Antonio aveva disposto che le province romane d’Oriente, quasi fossero sue proprietà personali, andassero in eredità ai due figli avuti da Cleopatra.
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Il senato, con il consenso del popolo, dichiarò allora Antonio nemico della patria e nel 32 a.C. Ottaviano fu incaricato di muovergli guerra. Ottaviano dichiarò guerra all’Egitto di Cleopatra, ignorando formalmente l’esistenza di Antonio, che, nel frattempo, alla guida dell’esercito egizio, si era trasferito sulle coste occidentali della Grecia per poter da qui passare in Italia. Nella primavera del 31 .C. Ottaviano, con la sua flotta, bloccò l’uscita del golfo di Ambracia, in Epiro, presso il promontorio di Azio: qui Antonio subì una durissima sconfitta. Cleopatra riuscì a fuggire con una sessantina di navi e Antonio la seguì. L’anno seguente, il loro esercito di terra venne sconfitto dalle truppe di Ottaviano, che aveva posto l’assedio ad Alessandria d’Egitto. Antonio e Cleopatra si tolsero la vita. Ottaviano era il padrone incontrastato di Roma e la repubblica era giunta alla sua fine.
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