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Leggere Dante.

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Presentazione sul tema: "Leggere Dante."— Transcript della presentazione:

1 Leggere Dante

2 Dante e la giustizia Proposta di lettura di Gianfranco Bondioni
Perché questo titolo mutuato da un saggio di Eric Auerbach? Perché Dante ci propone modelli di lettura del reale che ci circonda (il “mondo terreno”) validi ancora oggi

3 Perché leggere Dante oggi?
Per la sua modernità: falso Per conoscere il suo tempo: non pertinente Per i valori universali del suo pensiero: falso Perché propone un modo di lettura interessante 5. Perché è un grande poeta. Che cosa significano i punti 4 e 5? Non si fa la stessa domanda per Leonardo o per il Partenone Il pensiero di Dante non è attuale né in scienza(del tutto antigalileiano, non pregalileiano), né in politica (che cosa interessa oggi del papato e dell’impero?) né in religione (l’angelologia). Torneremo sulla modernità di Dante a proposito del modo di affrontare i contenuti (non fermarsi all’oggetto: vedi punto 4) Non si usa l’opera d’arte per conoscere un periodo storico; non è documento; altri fini I valori del suo pensiero sono quelli di un Fiorentino (quindi provinciale) del Trecento, per di più in ritardo

4 Perché propone un modo di lettura interessante
Il poeta come scriba Dei “…a quel modo che ditta dentro vo significando” (Pg. XXIV, 53-54) Scrivere sotto dettatura Trovare i significanti giusti per i significati “dettati” Il verbo dire, dittare nel senso preciso di scrivere in rima; i dittatori nel senso preciso di poeti Quod significat e quod significatur in San Tommaso: anche qui non è pensiero originale

5 Perché propone un modo di lettura interessante
Scrivere sotto dettatura: che cosa? Cioè: quale è il contenuto dell’opera dello Scriba Dei? La totalità del mondo La verità del mondo Goethe e il contenuto del romanzo: è l’universo

6 Come noi leggiamo Come lo leggeva il mondo Dante
La realtà è oggettiva Il suo significato è chiuso in essa Le modalità della conoscenza si basano su leggi interne alla scienza La realtà è simbolica Il suo significato è fuori di essa, in Dio Le modalità della conoscenza si basano su leggi teologiche esterne alla scienza

7 Come lo Scriba Dei esprime la totalità e la verità del mondo?
Il contingente non è né verità né totalità: quindi necessità di “andare dietro” a ciò che appare il simbolismo medievale l’allegoria e il simbolo la figura

8 Il contenuto dell’opera dello scriba Dei
Il simbolismo medievale come mezzo per scoprire la verità e la totalità del mondo L’uomo del medioevo ha interpretato il mondo attraverso lo studio della parola di Dio (Bibbia) e delle opere di Dio (l’universo). L’universo è la manifestazione provvisoria (un semplice “segno”) della infinita ed eterna bontà, potenza, sapienza di Dio. Le cose buone come ci appaiono sono solo una parte di loro stesse: noi ne cogliamo la materialità dietro alla quale però sta un senso più profondo che, certo, con le sole forze dell’uomo non si può cogliere – perché è il progetto divino – ma che comunque si deve cercare. Come ci si deve dedicare allo studio allegorico e figurale delle Scritture, così ci si deve dedicare anche allo studio simbolico del mondo per coglierne il messaggio divino. Alcuni simboli ebbero (si pensi anche agli affreschi e alle miniature medioevali) universale diffusione e per l’uomo medioevale erano immediatamente coglibili anche se a noi oggi richiedono uno sforzo di comprensione. Per l’uomo del medioevo la foresta era sempre un reale pericolo (belve, briganti ecc.) e diventa simbolo universale del pericolo della vita peccaminosa; così come è immediato il parallelo fra mare in tempesta e tempesta della vita; fra sole che illumina la strada e la grazia che porta a Dio; fra viaggio e vita o ricerca di Dio. La realtà vera, la radice ultima ed eterna delle cose è il piano divino che sta dietro alle apparenze: per cogliere il significato del mondo contingente e transeunte della storia è dunque indispensabile vedere le cose nella loro vera e ultima forma eterna, sub specie aeternitatis: il terrestre è inscritto nell’eterno, è manifestazione dell’eterno e l’unico modo per parlare dell’eterno è di parlare dei fenomeni. Da qui deriva l’attenzione di Dante per le manifestazioni della realtà umana (l’etica, la scienza, l’amore, la politica, la poesia eccetera); da ciò deriva anche il fatto che Dante interviene con il giudizio, la condanna, la proposta (spesso utopica) a proposito di tutti i fenomeni della storia.

9 Se lo scriba Dei deve parlare della totalità del mondo deve
Creare una lingua che esprima la totalità in tutti i suoi aspetti e il suo valore simbolico (stile comico: se ne parlerà nei prossimi incontri) Creare gli strumenti linguistici e poetici per esprimere la totalità (la convenientia)

10 Creare una lingua che esprima la totalità
La lingua usata è piana “e umile, perché è la lingua volgare in cui discutono anche le donnette” Mescolanza di terminologia filosofica, teologica, scientifica con la lingua del mercato e della farsa Uso di varie lingue, dialetti, stili e generi e invenzione/sperimentazione di nuovi Uso delle lingue tecniche e dei linguaggi settoriali delle scienze, arti, mestieri eccetera È il plurilinguismo dantesco

11 Creare una lingua che esprima la totalità
Plurilinguismo vs monolinguismo (Stilnuovo, Petrarca) Enorme allargamento del lessico (da 600 a molte migliaia di parole) Creazione di neologismi Uso di hapax 1 Sulla base del principio della convenientia, cioè dell’adeguamento fra materia e lingua, Dante accetta “accanto alle parole e forme del fiorentino contemporaneo, anche voci e forme che stanno cadendo dall’uso, qualche forma del toscano occidentale e meridionale, qualche rara voce di altri dialetti italiani, molte voci latine, parecchie francesi. Questa vastità d’orizzonte ha tuttavia una limitazione rigorosa: mentre il poeta ammette senz’altro, ove gli occorrano, le forme e i vocaboli fiorentini, gli altri devono aver avuto una qualche consacrazione letteraria” (Migliorini, 1963, pp ). Dante ricorre a gallicismi, latinismi, forme dialettali per costruire serie di allotropi: ad es. gioire/godere; sere/segnore; vigilare/vigliare; vegliare/vegghiare. Questo accade o per mimesi della lingua del parlante, o con intenzioni nobilitanti o per esprimere forza ed efficacia: comunque una prova di ricchezza espressiva. 2L’intento di rappresentare la totalità del reale porta all’inventiva lessicale, alla formazione di parole nuove, alla promozione nell’uso poetico di forme in origine del tutto estranee al patrimonio letterario, voci d’uso popolare e dure o forme infantili e familiari espressamente bandite nel De vulgari eloquentia: la dimensione culturale è mutata e oggetto della mimesi artistica è ora tutta la realtà, non solo salus, venus e virtus. Su 84 neologismi danteschi (generalmente composti instabili: pochi sono sopravvissuti come, ad esempio, inurbarsi) ben 59 sono verbi denominali: un passaggio quindi dalla staticità del nome alla dinamicità del verbo. 3 Funzione simile svolgono anche i 204 hapax della Commedia che toccano comunque tutti i registri, dal comico al sublime. E spesso (ben 173) sono in rima e creano così effetti di spicco, anche perché la necessità rimica spinge la ricerca in zone rare e poco battute del linguaggio.

12 Creare gli strumenti linguistici e poetici per esprimere la totalità: La convenientia
La convenientia come invenzione di una lingua che crea il proprio contenuto; in quanto ποίησις, l’azione dell’arte ha per contenuto la verità e la totalità del mondo (Gianfranco Contini) La convenientia come adeguamento della lingua al contenuto costituito dalla verità e dalla totalità del mondo

13 Perché leggere Dante oggi?
Perché e grande artista, cioè ha strumenti di interpretazione e di comprensione del reale (il simbolismo medievale; l’ideologia cristiana) strumenti di espressione di quanto interpretato e compreso (nuova lingua, stile comico, convenientia)

14 Esemplifichiamo sul tema della giustizia
principio organizzatore del cosmo secondo l’ordine divino principio organizzatore del destino eterno degli uomini secondo la volontà divina principio organizzatore della vita civile sulla terra: massimo di ordine = massimo di giustizia secondo il modello divino (ruolo dell’Impero). 1 Il principio fondamentale posto da Dante è che ciò che Dio vuole e decide è sempre giusto, anche ciò che agli uomini può apparire sbagliato o non essere comprensibile. “L’essere e il moto complessivo dell’universo hanno origine dal primum mobile (cioè dall’amore di Dio tanto quanto dall’amore per Dio). Come la creazione rappresenta un dispiegarsi e riflettersi dell’essere divino – “Non è se non lo splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro sire” – così anche il suo moto, anzi tutta la sua attività risale sempre continuamente a lui. Questo vale non solo per le sfere celesti [...], ma per tutta la creazione [...]”. L’universo è il moltiplicarsi del primo moto [per giungere a ciò che Dio ha stabilito:] “ovra delle rote magne, / Che drizzan ciascun seme ad alcun fine”; (Auerbach 1984, pp ). 2 Principio del contrapasso nell’inferno e nel purgatorio, dell’adesione al piano di Dio nel paradiso (disposizione provvisoria); partizione dell’inferno (presenza/assenza di dolo; incontinenza, violenza e frode), del purgatorio (peccati capitali e loro tripartizione: peccati dell’animo; acidia; peccati del corpo); nel paradiso (responsabilità individuale, influenze celeste, disposizione gerarchica). 3. La giustizia sulla terra è la traduzione nella storia e nel mondo degli uomini della giustizia di Dio: questa si manifesta per mezzo della giustizia imperiale. L’Impero è lo strumento con cui Dio amministra la giustizia nel mondo: non a caso l’imperatore che ha redatto il Codice del diritto romano si chiama Giustiniano, da ius, diritto, radice dell’italiano “giustizia”. Prima edizione a stampa della Commedia: Foligno 1472.

15 Giustizia e diritto Giustizia come manifestazione del Diritto
Diritto come insieme delle regole che disciplinano lo stare in una società e, più precisamente, regole che contengono una conseguenza sanzionatoria Distinzione in Dante (e in San Tommaso) del Iustum naturale e del Iustum legale Giustificazione del diritto in base alla fonte. 1. 2. Differenza fra le regole che non hanno conseguenze se non nella riprovazione sociale e le regole sanzionatorie del diritto 3. Possibilità di conflitto fra i due Iusta: la legge che confligge con il Iustum naturale è ingiusta. Poiché la legge va interpretata nel senso più favorevole alla società va in crisi il concetto di Iustum naturale che diventa relativo presso i diversi popoli (per Dante NON è così). 4. Principio di autorità; le tavole della legge

16 Legge scritta e contrapasso: il superamento della faida.
«Se tu avessi», rispuos’io appresso, «atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star dimesso» Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava dov’io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa». Allor disse ’l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga. Edizione della Commedia di Aldo Manuzio. If. XXIX, Inizia esplicita la drammatizzazione del soliloquio mentale: alla coscienza di Dante (quindi Virgilio) appare chiara la necessità di superare il diritto barbarico della vendetta privata che genera liti e discordie nella città e mina quindi le basi della societas christiana stessa; ma alla medesima coscienza del poeta (il dannato che rimprovera il viandante e l’agens stesso che pronuncia parole di pietà) risultava evidente che non si poteva andare oltre semplicemente rifiutando un costume di giustizia nobilitato dall’antichità, dal consenso generale e dalla sua stessa diffusione fra gli strati gentilizi e feudali della popolazione. In altre parole: sul palcoscenico si rappresenta il conflitto fra due posizioni che sono spia di un confronto-scontro ben più radicale e profondo fra ideologie e concezioni di civiltà; e lo si rappresenta come scontro di posizioni culturali entrambe anche interne al poeta e alle sue idee. Da un lato l’antica consuetudine legislativa della vendetta privata, sancita dal diritto germanico e accolta dalla tradizioni, rispettata anche dai comuni, pur con alcune limitazioni (la vendetta non poteva superare l’offesa ad esempio); essa godeva di sicuro sostegno popolare ed era ritenuto un dovere nelle famiglie nobili, come casa Alighieri. Dall’altro lato, vi è l’idea risalente al diritto romano che lo stato debba anche essere garante e amministratore della giustizia. E questa tesi, che sostiene la necessità dell’intervento ordinatore più alto dello stato e che più facilmente si può accostare al concetto cristiano di perdono personale, è per Dante più convincente. Ma comunque proprio perché la vendetta privata è un aspetto della bella civiltà cortese del passato, essa ha in sé una forza non trascurabile, costituisce un problema non eliminabile. Inoltre questo argomento si unisce a quello della famiglia e del clan, altrettanto fondamentali per un uomo del Duecento, a Firenze, dove la consorteria era l’organismo di azione e di vita politica, economica e sociale di tutti; in più per i ceti di origine nobiliare l’appartenenza alle casate e alle famiglie era vissuta come elemento distintivo e di identificazione. L’affermazione virgiliana costituisce il preciso invito della ragione ad abbandonare l’ordine di idee esemplificato dalla figura del dannato. Il maestro non sta invitando Dante a non sentirsi colpevole perché il parente non è stato ancora vendicato o, peggio, per non averlo vendicato personalmente, ma sta invece consigliando all’allievo di entrare in un’altra prospettiva, di considerare una giustizia completamente diversa nella quale non vi sia posto per la vendetta e per la violenza. Infatti accettare quest’ultima logica non significa solo accogliere le residue posizioni dell’anarchia individualistica feudale, ma significa anche legittimare la violenza nei comuni e dei comuni. «Da nessuna delle parole di Dante traspare il rimpianto di una vendetta mancata; e da tutto l’episodio spira se mai un senso di alta, e pur distaccata, pietà, che comprende e compatisce, ma non è mai indulgenza, e tanto meno rinunzia ad un ideale etico superiore. Ad ogni modo queste e altre siffatte considerazioni e glosse, se anche non sono inutili a una più attenta interpretazione storica dell’episodio, non toccano propriamente la sostanza della poesia. Per la quale è sufficiente ed essenziale il sentimento di un contrasto non facilmente eliminabile fra le leggi divine e le umane consuetudini, fra il dovere cristiano del perdono e il pregiudizio mondano della vendetta» (Sapegno 1963, p. 572). In tal modo tuttavia non si corre il rischio di schiacciare sotto un’alta concezione morale di natura cristiana sentimenti e passioni umane: da qui il riconoscimento delle ragioni del dannato. Anche perché altrove il poeta ha sostenuto le tesi della vendetta, nobilitata da una lunga tradizione giuridica, culturale e letteraria e dall’insegnamento di grandi maestri quali Brunetto Latini per il quale, «[...] come che vada / la cosa, lenta o ratta, / sia la vendetta fatta». Dante stesso conclude la famosa canzone per la donna-pietra Così nel mio parlar voglio esser aspro (Rime CIII, 83) con il verso gnomico «ché bell’onor s’acquista in far vendetta». Si tratta certamente di una dichiarazione da inserire all’interno delle formule obbligate dallo ‘‘stile aspro’‘ della canzone più che di un esplicito proclama di una radicata convinzione: infatti nell’opera del poeta sono più numerose le testimonianze opposte, ispirate al precetto cristiano del perdono. E appunto, la canzone che nelle Rime segue quella appena citata, Tre donne intorno al cuor mi son venute, conclude con «ché ’l perdonare è bel vincer di guerra» (CIV, 107); ma sarà soprattutto il Purgatorio la cantica dove trionfa questo ideale cristiano di etica e di politica nuove: il canto v, che presenta tante vittime di tiranni e di discordie, dice che essi morirono «pentendo e perdonando» (v. 55); nel canto xv appare santo Stefano che prega Dio «che perdonasse a’ suoi persecutori» (v. 113), mentre nel canto XXXIII solo a Dio è riservato di far vendetta nei tempi stabiliti dalla sua potenza. Alla legge della faida era ispirato il comportamento di Mosca de’ Lamberti nel canto precedente: e non vi è dubbio che con tale presentazione del personaggio la vendetta privata, per quanto motivata da alti ideali di giustizia, risulta eticamente e politicamente condannata. Infine è significativo che nell’ultimo sonetto della «tenzone», Forese Donati ironizzi sulla mancata vendetta da parte del poeta a proposito di una grave offesa patita da Alighiero, padre di Dante, e anzi lo accusi di aver introdotto in Firenze la discutibile usanza di aver «per fratello e per amico» chi «ti carica ben di bastone» (Rime LXXVIII,11 e 10).

17 Legge scritta e contrapasso
Il termine: contra-patior L’origine biblica e giuridica Vendetta e espiazione Il principio base: la redistribuzione, cioè la corrispondenza di bene al bene e di male al male 1. La parola contrapasso deriva dal verbo latino contra patior (“subisco in senso contrario”): dunque è opportuno scriverla con una sola p, senza raddoppiamento fonosintattico (come del resto fa Dante nella sola occorrenza del termine: If. xxviii 142, quando dice Bertran de Born“ Così s’osserva in me lo contrapasso”); da essa è comunque escluso qualsiasi senso di “passaggio”, come si potrebbe ipotizzare con falsa etimologia. 2 Il concetto del contrapasso è da ricercare nella legge del taglione richiamata in passi biblici, noti al poeta (Es. 21, 23; Lv. 24, 17-21; Dt. 19, 21); nel medioevo la consuetudine giuridica è alla base anche della faida, accettata in molti statuti cittadini ma che Dante, almeno nella Commedia, pare rifiutare. Dalla Bibbia il concetto passa in giudici e filosofi medioevali. Così è formulata da san Tommaso: “Ma questa è la forma del giudizio divino cosicché uno sia punito secondo la colpa che ha commesso, come dice Matteo VII, 2 “perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurate sarete misurati”. Quindi è giusta la pena che è puro e semplice contrapasso” (Summa theol. II, ii, q. 61, a. 4). 3Nel sistema giudiziario medioevale la pena si prefigge la vendetta, con lo scopo di rendere al colpevole male per male; e l’espiazione della tendenza peccaminosa, quasi un fine educativo, di natura civile o sociale nella dottrina giuridica dello stato, di natura etico-religiosa nella dottrina dantesca. “La pena è efficace, quando non solo è proporzionata alla gravità della colpa, ma anche in perfetto antagonismo col peccato. A questo criterio che presiede al sistema punitivo medievale, può darsi il nome di contrappasso penale. Il contrappasso nel Medioevo non è infatti soltanto un principio che governa il sistema di punizione, ma una norma generale che dà forma e carattere a molti istituti del tempo. A cagion d’esempio, le rappresaglie, oltreché nella solidarietà del comune hanno la loro giustificazione nella teorica del contrappasso, e tutte le guerre commerciali fra città e città ne sono un’applicazione. I mercanti di un paese arrecano un’ingiuria a quelli di un altro o non tengono i patti giurati o rifiutano la concessione di qualche privilegio: subito si compie la vendetta in forma di contrappasso (i due concetti s’integrano e si completano a vicenda) e si perseguitano quei mercanti ponendoli fuori della legge [...]. Il contrappasso punitivo medievale è, se io non m’inganno, in armonia perfetta coi due principi massimi che guidano l’applicazione della pena [...]. Si taglia la mano al ladro, al falsario, al deturpatore delle immagini, che della mano appunto han fatto mal uso, si strappa o si perfora la lingua al falso testimone e al bestemmiatore, si mozza il piede a chi sollecito prende parte a un tumulto. E quando le leggi comandano l’amputazione di un membro senza designarlo, insegnano taluni che è bene uniformarsi al criterio del contrappasso, colpendo precisamente quel membro che ha compiuto il delitto”. “Ma il contrappasso non si adatta soltanto alla vendetta, bensì anche all’espiazione, perché la pena, secondo il criterio del tempo, tanto più riesce a cancellare le orme del peccato, quanto più nella sua forma materiale ricorda il delitto compiuto. Perfettamente efficace è poi allorquando sta in perfetta opposizione col reato, ché allora ha la potenza di distruggere il mal fatto” (Arias, Le istituzioni giuridiche medioevali nella “Divina Commedia”, citato in Di Salvo, I, pp ).

18 Contrapasso e ordinamento dell’inferno
Il contrapasso nell’Inferno: pena eterna come retribuzione del male commesso; Punizione dell’atto, cioè dell’offesa come reintegrazione dell’ordine turbato; Peccatore come strumento per ri-armonizzare l’universo; Pena come prevenzione: esemplarità come deterrente; Poena damni e poena sensus. Contrapasso per opposizione o per somiglianza Infatti nell’inferno la pena è duplice: consiste nella perdita di Dio (poena damni, la pena del danno, della mancanza) e nella poena sensus (pena corporale). Le anime dell’inferno tendono a Dio, che non raggiungono né raggiungeranno mai, e contemporaneamente sono per sempre peccatrici del peccato che le ha dannate perché in ciò sta la loro realizzazione; ma odiano il loro peccato, causa della poena damni. Sono quindi anime lacerate, in eterno amanti del male e contemporaneamente consapevoli che esso le ha rovinate. La poena sensus è la manifestazione esterna e sensibile di tale contraddizione. E poiché è espressione profonda dell’essenza peccaminosa dell’anima, la pena è necessariamente per contrapasso. “[Le pene] non sono prodotti arbitrari di una fantasia sfrenata, che cerchi di accumulare scene orrende, ma opera di un severo esame dell’intelletto, che ha scelto per ogni peccato ciò che gli compete, e che dalla coscienza della giustizia della sua scelta, e della sua conformità con l’ordine divino, trae la forza di conferire alle parole e alle immagini evidenza grandiosa e mirabile. La cosa non è diversa per i mostri mitici che servono ai cerchi infernali insieme da custodi e da simbolici animali araldici” (Auerbach 1984, p. 102).

19 Contrapasso e ordinamento del purgatorio
Pena non eterna come espiazione; Punizione dell’intenzione, non dell’atto; Peccatore come strumento per ri-armonizzare l’universo; Pena come prevenzione: esemplarità come deterrente; Contrapasso per opposizione. Inoltre il contrapasso dell’Inferno è diverso da quello del Purgatorio. Nella seconda cantica, essendo il peccato ormai perdonato, il principio della vendetta è superato. Rimane solo il principio dell’espiazione della tendenza peccaminosa, che ha portato al peccato durante la vita sulla terra. Per questo la ricerca dell’armonia fra delitto e sua punizione è sempre per opposizione, dato che questa è intesa come controveleno per i germi della malizia mondana; nell’inferno invece la colpa può essere analoga oppure contraria al peccato, dato che in entrambi i modi raggiunge il proprio fine che è eminentemente di vendetta.

20 La giustizia: principio cardine della storia umana
Inizio, centro e fine della storia: peccato originale, redenzione, giudizio universale; Roma e l’impero; La seconda caduta e l’età moderna: le tre fiere; La storia futura e la poesia profetica; Dante reazionario? 1. Alla base della concezione dantesca della storia vi è una radicale divisione tra una valutazione positiva, sostanzialmente mitica della storia antica – che si identifica sostanzialmente con la storia romana – e una valutazione negativa e assai polemica sul piano morale della storia contemporanea.La storia del mondo umano ha un inizio e una fine costituiti rispettivamente dal peccato originale (la prima caduta) e dal giudizio universale.Ma soprattutto la storia ha un centro che è costituito dalla redenzione in cui si manifesta l’intervento di Dio nella storia e il carattere provvidenziale della storia stessa. 2 A tale esito di redenzione prima, di diffusione del cristianesimo poi porta la storia di Roma. “La Provvidenza divina ha eletto fin dagli inizi Roma a capitale del mondo, ha conferito al popolo romano spirito di sacrificio e forza eroica per conquistare il mondo e possederlo in pace, e quando dopo secoli di gravi sacrifici e di continue lotte fu compiuta l’opera di conquista e di pacificazione, il sacro compito predetto già ad Enea, e il mondo abitato era in pace nelle mani di Augusto, allora giunse il momento e il redentore apparve. [….] L’aquila romana, di cui Giustiniano nel cielo di Mercurio racconta le imprese, prima prepara la venuta di Cristo, e poi porta a compimento la volontà redentrice divina; il terzo Cesare, Tiberio, in quanto legittimo giudice dell’uomo Cristo, è l’esecutore e vendicatore del peccato originale, che soddisfa all’ira di Dio; il conquistatore di Gerusalemme, Tito, è l’esecutore legittimo della vendetta sui Giudei, e nel fondo dell’Inferno, nelle fauci di Lucifero stanno, accanto a Giuda, gli uccisori di Cesare, Bruto e Cassio” (Auerbach 1984, p. 112). Dunque la storia romana ha carattere provvidenziale poiché in essa si sono poste le basi dei due istituti universali, cioè l’Impero e la Chiesa, che devono sempre garantire la felicità dell’uomo in questa e nell’altra vita. 3 Ma, dopo Adamo, l’uomo è caduto una seconda volta: l’età moderna inizia con un radicale errore, la donazione di Costantino a partire dalla quale la Chiesa si è trasformata in potere politico ed economico e ha eclissato l’Impero. Così il “mondo è scardinato, l’equilibrio imposto da Dio è distrutto, e principio di ogni male è la ricchezza della Chiesa, che secondo l’ordinamento divino non dovrebbe possedere nulla”. Da quando “la curia romana con sfrenata avidità usurpa persino la potenza imperiale, da quando gli imperatori asburgici, dimentichi del dovere, lasciano in balia di se stesse l’Italia e Roma, capo del mondo, da ogni parte c’è caos ed eccesso, e ciascuno si impadronisce di qualunque cosa gli sembri raggiungibile, e il frutto di questi istinti scatenati sono guerra e sconvolgimenti” (Auerbach 1984, p. 113). 4 Poiché comunque la storia degli uomini è regolata dalla provvidenza, l’intervento divino è assolutamente sicuro: attraverso un veltro o un Dux si rinnoverà il mondo, lo si riporterà alla purezza voluta da Cristo e inconsapevolmente annunciata da Virgilio nella sua quarta Egloga, a quella povertà che recentemente san Francesco ha indicato al mondo. Sono tempi non lontani: così ha promesso sulla terra Gioacchino da Fiore, così nei cieli garantisce, fra gli altri, san Pietro. 5 «Quand’egli lamenta e condanna la disunione, le lotte e le catastrofi del suo tempo, non gli viene neppur per un attimo il pensiero che vi si possa pre p a r a re una nuova forma e un nuovo ordinamento della vita, immanente eppure fruttuoso. Mai il poeta sembra a un lettore moderno tanto lontano e reazionario, tanto poco profetico e cieco del futuro. Ma se si pensa con quali sacrifici fu pagato quel futuro, la civiltà moderna, come la scissione tra vita interiore e esteriore sia diventata sempre più opprimente, come l’unità di vita umana e europea andasse perduta, come il frantumarsi e l’inefficacia di ogni ideologia sia diventata sensibile a ognuno, anche nell’ambito più ristretto – quando inoltre si consideri come le basi spirituali su cui i moderni tentano di ricostruire la comunità umana sono più deboli dell’ordine del mondo di Dante – non avrà per questo il desiderio vano e sciocco di far rivivere ciò che è irrimediabilmente passato, ma ci si guarderà dal disprezzare e condannare lo spirito sapientemente ordinatore di Dante» (Auerbach 1984, p. 115).

21 La giustizia sulla terra
Dai cieli alla terra; Le istituzioni terrene: la chiesa e l’impero; I poteri dell’imperatore; Origine dell’impero; Cause della decadenza dell’impero; La civiltà del passato; 7. Il futuro dell’impero. 1. Dio, attraverso gli influssi dei cieli, determina le autorità e le istituzioni che devono governare il mondo. 2. Esse sono l’impero e la chiesa: dalla duplicità dei fini che Dio assegna all’uomo (felicità terrena e felicità celeste) deriva la necessità della doppia autorità. L’impero è stato provvidenzialmente creato da Dio come uno degli strumenti per reggere gli uomini nella loro debolezza dopo il peccato di Adamo, per indirizzarli verso i loro fini specifici. L’impero –e la sua massima realizzazione storica, cioè l’impero romano (e da ciò deriva anche la costante e centrale presenza di Virgilio che di tale impero fu il cantore)- è dunque lo strumento con il quale Dio ha costruito e mantenuto sulla terra la civiltà “giusta”. Il destino terreno dell’uomo consiste nella conquista di quella libertà morale che può essere raggiunta solo all’interno dell’ordine garantito dall’impero perché solo l’impero può garantire la giustizia sulla terra. 3. L’Impero ha l’“universale e inrepugnabile officio di comandare” e per “questo officio per eccellenza Imperio è chiamato, sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento”. Così nel Convivio, quindi un testo probabilmente precedente la Commedia. L’Impero, tramite la filosofia e nella pace, porta l’uomo alla felicità: solo l’Impero infatti può garantire l’esistenza di una società ordinata sulla terra, premessa indispensabile per il trionfo della giustizia e per la conquista della libertà morale. 4. Dunque l’Impero è strumento divino e il potere dell’imperatore dipende senza alcuna mediazione da Dio, fonte del potere universale. La curia pontificia romana sosteneva, al contrario, che spettava al papa conferire o togliere il potere all’istituto politico. Questa presa di posizione teocratica generava confusioni volute fra autorità di san Pietro e autorità di Dio. Il papa è successore di Pietro, non di Cristo: quindi gli uomini devono ubbidienza al primo pontefice solo per quanto attiene alle competenze riconosciute al primo papa da Dio. E in tale delega non è compreso il potere politico. Già il viaggio di Enea agli inferi narrato da Virgilio è segno del carattere provvidenziale dell’impero: “Imperio è chiamato, sanza nulla addizione” dice Dante nel passo succitato del Convivio. Ed effettivamente non ha senso per Dante parlare di impero germanico, o francese o spagnolo, dato che l’Impero è universale; al limite, non ha neppur senso parlare di impero romano, dato che l’Impero è eterno e non è un prodotto storico. Ma riferendosi ai Romani giustamente si può parlare di Impero universale perché il popolo romano è il più nobile ed è sempre stato privilegiato da Dio. L’impero in mano ai Romani non ha mai agito per fini particolari o di un solo popolo, ma sempre a favore dell’intera umanità, cioè per fini universali. Cristo stesso rispettò la giusta autorità dell’impero. 5. La nascita degli stati nazionali (soprattutto quello francese), l’ingerenza della chiesa tutta volta all’interesse per il denaro e la civiltà mercantile hanno segnato la decadenza dell’impero. Fin dall’inizio della Commedia Dante individua le cause della decadenza politica e morale. L’individuazione delle cause si ricollega al principio sostenuto nel Monarchia, là dove si postula una sola autorità superiore che possedendo tutto non abbia né ragioni di invidia né ragioni di cupidigia, ma sia solo mossa da giustizia: la decadenza è prodotta da lonza, leone e, soprattutto lupa cioè da invidia o lussuria, superbia e cupidigia. La cupidigia ha reso folli i cuori della gente di Chiesa, interessata solo a benefici e decime e ha contaminato papi come Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXII; altri papi sono vili, i prelati indegni, gli ordini mendicanti degenerati. Alle origini di tutto ciò sta la donazione di Costantino, creduta vera da Dante e quindi oggetto di critiche feroci nella sua sostanza politica ed etica e nei suoi fondamenti giuridici. E la curia romana è quindi il centro del male sulla terra. Nel Paradiso, facendo parlare l’aquila, simbolo dell’Impero e rappresentazione della giustizia, Dante lancia la sua condanna contro gli imperatori responsabili anch’essi della decadenza, quanto meno per essersi lasciati defraudare dai papi dei loro poteri. Forse, più che colpevoli, essi appaiono inetti e incapaci.Se la curia di Roma è la responsabile prima e l’Impero è colpevole per omissione di doveri, questo non completa il panorama delle colpe. L’unità dell’Impero, l’esistenza stessa dell’istituto imperiale sono messe in crisi anche da re indegni, dagli stati nazionali (in particolare dalla Francia), dai comuni e dalle signorie in Italia; quindi soprattutto da Firenze. 6. La decadenza è la situazione attuale, ma non sempre è stato così; non molto tempo fa –ma è un tempo ormai mitico- la chiesa non aveva usurpato i poteri imperiali: la presenza di due guide, una religiosa e una politica, garantiva una splendida civiltà fatta di cortesia e di magnanimità, virtù queste che certo sono limitate se restano solo terrene. Grazie a queste virtù anche Firenze fu un tempo città bella e cortese. Dal generale nubifragio –che ha coinvolto nella pratica dell’usura e nel tradimento della liberalità cortese anche le famiglie nobili- si salvano solo i tre vecchi lombardi e le famiglie dei Malaspina e dei Della Scala che mostreranno la loro cortesia ospitando Dante. 7. L’Impero tornerà assai presto ad essere strumento di Dio e quindi riporterà sulla terra la giustizia e la civiltà della cortesia unita alla virtus dei Romani. Per far ciò dovrà giungere chi distrugga la lupa della cupidigia e restauri i diritti imperiali punendo i papi indegni e i re, che con i regni nazionali hanno distrutto la sovranazionalità dell’Impero. Dovrà venire un salvatore, come volevano le correnti millenaristiche e semiereticali; un salvatore laico però, è questa una novità tutta dantesca. E i tempi sono ormai prossimi. Il mondo restaurato sarà basato su sapïenza, amore e virtute in spregio dei valori economici e del potere. Il modello è francescano, centrato sul pauperismo evangelico. Ad esso poi si aggiungono i valori cortesi del coraggio, della lealtà, della generosità, dell’amore.

22 Struttura del mondo e giustizia di Dio: Pd, 1
La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende 3 in una parte più e meno altrove. 103 ……………«Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma 105 che l’universo a Dio fa simigliante. Qui veggion l’alte creature l’orma de l’etterno valore, il qual è fine 108 al quale è fatta la toccata norma. Ne l’ordine ch’io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, 111 più al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l’essere, e ciascuna 114 con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inver’ la luna; questi ne’ cor mortali è permotore; 117 questi la terra in sé stringe e aduna; né pur le creature che son fore d’intelligenza quest’ arco saetta, 120 ma quelle c’hanno intelletto e amore. La gloria di Dio, creatore e animatore di tutto ciò che tende a Lui, si diffonde per tutto l’universo e brilla più in un luogo e meno in un altro «Tutte le cose create sono disposte in maniera ordinata fra loro, e questo ordine è la forma che rende l’universo simile a Dio. In ciò le creature dotate di intelletto riconoscono la traccia di Dio, che è il fine verso il quale tende l’ordine cosmico che è la norma che regola l’universo, come ho accennato. Nell’ordinamento di cui parlo ricevono un’inclinazione tutte le cose create, secondo la condizione che ciascuna ha avuto in sorte: quindi più o meno vicine a Dio, loro principio. Di conseguenza si muovono a mete diverse nel grande mare di tutto ciò che esiste, e ciascuna con una inclinazione naturale che la guidi. Questo istinto è quello che porta il fuoco verso la luna, in alto; è questo il principio di movimento negli esseri dotati di vita sensitiva; è questo che costituisce la forza di coesione e di adesione della terra: e l’arco dell’istinto colpisce non soltanto le creature prive di ragione, ma anche quelle dotate di intelligenza e volontà. Non si può parlare separatamente di bontà, giustizia, sapienza eccetera di Dio: tutte le qualità sono fuse e uguali (all’infinito) 1 La parola tematica gloria e i suoi derivati compaiono 42 volte nella Commedia e di esse ben 28 sono nel Paradiso. La gloria è la grandezza di Dio che qui viene indicato come l’autore del movimento del cosmo, il «motore immobile» secondo la definizione aristotelica che san Tommaso riprende definendo Dio movens non motum (Summa theol. I, q.105, a. 2). Il movimento è la creazione dell’universo, è la forma che Dio dà al mondo, è la tendenza del cosmo a riunirsi a Dio. 103 Nell’esposizione contenuta nelle parole che seguono Beatrice presenterà l’ordine dell’universo partendo dalla molteplicità dei fenomeni per risalire all’unità della causa che dà ordine; nel canto successivo seguirà il processo inverso deducendo l’ordine nel molteplice fenomenico, la natura, dalla totalità dell’universo, una reductio ad unum in cui tutto trovi la propria collocazione e quindi la propria spiegazione. Le leggi fisiche che regolano il movimento dei corpi risultano così non negate ma inserite in un contesto più ampio, quasi casi particolari di una legge universale; quindi in tale universalità trovano la propria spiegazione di fondo. 104 Nella terminologia aristotelico-scolastica forma è il principio essenziale che fa sì che una cosa sia esattamente quella. «Noi oggi diremmo legge, principio universale (come, ad esempio, della gravitazione): ma altro è legge altro è forma; altro è avvertire, ricercare nel mondo comportamenti costanti e generali, altro è avvertire un principio come forma, attività, principio motore e direttivo via via più consapevole, che lega in unità e solidarietà provvidenziale tutte le cose nelle quali, così ordinate, si rispecchia la sapienza e l’amore divino. Donde il sentimento medievale della vita, armonioso e concorde e sacro, con tutte le conseguenze, sul piano religioso, morale, politico, prammatico che tutti conoscono» (Sansone 1989, pp ). Ancora una volta Dante segue da vicino san Tommaso: «Dal momento che il mondo non è stato creato a caso ma è stato creato da Dio attraverso l’intelletto agente, ne deriva che nella mente di Dio vi sia la forma, ad imitazione della quale il mondo è stato creato» (Summa theol. I, q. 15, a. 1). 110 «Ove è da sapere che la divina bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avvegna che questa bontade si muova da simplicissimo [identico a se stesso] principio, diversamente si riceve, secondo più e meno, da le cose riceventi. [...] Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli [...] e altrimenti da l’anima umana, che, avvegna che da una parte sia da materia libera, da un’altra è impedita; [...] e altrimenti da li animali, la cui anima tutta in materia è compresa, ma alquanto è nobilitata; e altrimenti da le piante, e altrimenti da le minere [dai minerali]; e altrimenti da la terra che da li altri [elementi], però che è materialissima, e però remotissima e improporzionalissima a la prima simplicissima e nobilissima vertude, che sola è intellettuale, cioè Dio» (Cv. III, VII, 2 e 5). Il lungo passo di Dante deriva da uno altrettanto lungo di san Tommaso. Dopo aver affermato che «tutte le cose procedono dalla volontà di Dio, tutte a loro modo sono inclinate a desiderare il bene, ma diversamente», precisa che l’inclinazione delle piante e dei corpi inanimati è l’«appetito naturale», quella degli esseri sensibili è l’«appetito sensitivo» e quella degli esseri razionali è la «volontà» (Summa theol. I, q. 59, a. 1). 113 Il verso afferma la centralità della conoscenza intellettuale del vero: l’universo, anzi, è manifestazione di Dio e l’ordine ne è la legge scientifica e metafisica suprema, la forma. La legge dell’universo costituisce una sorta di dinamica dell’amore, una scienza quindi che studia il movimento delle cose create, movimento circolare, si è detto, che parte da Dio e a Dio tende. Concentra lo sguardo sull’infinito: ciò non significa distoglierlo dalle cose, non significa avere una visione immaginaria, utopistica e astorica. Significa al contrario ricercare nella molteplicità contraddittoria dell’apparente i punti fermi della visione scientifica, che per Dante è morale, metafisica e ontologica. Il cosmo è ordinato e per ciò stesso felice, modello per l’uomo. È sufficientemente generico da essere evocativo (come anche i diversi porti del v. 112): non si puntualizza con minuzia classificatoria ma si abbraccia con uno sguardo infinito. È costruito in maniera tale che l’analogia potentissima universo-mare si collochi esattamente al centro della terzina; essa fa quindi da fulcro ai due estremi (e non a caso ai vv. 112 e 114 vi è la rima equivoca) che vengono quindi attratti nell’infinito cosmico centrale. La particolarità (diversi porti, ciascuna) gravita verso l’unità di Dio come voleva Tommaso e prima di lui Agostino. La terzina dantesca esprime in poesia (forma, struttura, lessico, rime...) il concetto teologico. 115 Il concetto è stato così espresso in Cv. III, III, 2: «ciascuna cosa [...] ha ’l suo speziale amore. Come le corpora simplici [i quattro elementi] hanno amore naturato in sé a lo luogo proprio – e però la terra sempre discende al centro; lo fuoco ha [amore naturato a] la circunferenza di sopra, lungo lo cielo de la Luna, e però sempre sale a quello –». Ma bisogna precisare che ‘‘l’istinto’‘, attrazione verso il luogo naturale e quindi verso l’ordine è un principio extra-naturale posto nella materia: salta la divisione tra fatti naturali e fatti spirituali, con l’inserimento di un principio spirituale, o psichico, nel mondo fisico.

23 “Giustizia mosse il mio alto fattore” : la pena degli ignavi If., 3
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna che girando correva tanto ratta, 54 che d’ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto 57 che morte tanta n’avesse disfatta. Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui 60 che fece per viltade il gran rifiuto. Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d’i cattivi, 63 a Dio spiacenti e a’ nemici sui. Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto 66 da mosconi e da vespe ch’eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi 69 da fastidiosi vermi era ricolto. Ed io, che guardai, vidi una bandiera, che, girando in tondo, si muoveva tanto velocemente, che sembrava incapace di ogni sosta; e dietro le veniva una fila così lunga di gente, che io non avrei mai creduto che la morte tanta ne avesse uccisa. Dopo che ne ebbi riconosciuto qualcuno, vidi e identificai l’anima di colui che per viltà fece la grande rinuncia. Immediatamente compresi e fui certo che questo era il gruppo dei vili, spregevoli sia agli occhi di Dio sia ai suoi nemici. Questi sciagurati, che non hanno mai vissuto, erano nudi e punzecchiati di continuo da mosconi e da vespe che vi si trovavano. Gli insetti rigavano il loro volto di sangue, che, mescolato alle lacrime, ai loro piedi era succhiato da luridi vermi. La rappresentazione della pena è,come accade quasi sempre nella Commedia, basata sull’allegoria del contrapasso. In primo luogo le anime sono moltissime (vv ): per la severa morale di Dante la vigliaccheria è male assai diffuso. Esse poi sono costrette ad inseguire di corsa una bandiera che non si vede che cosa rappresenti (vv ; 46-51; 52-54). Dunque chi fu pigro sulla terra ora corre e, poiché in vita non scelse mai una posizione, ora è costretto a inseguire la prima bandiera che capita: «senza che questa avesse per essi un valore, un significato. Il particolare dell’insegna, che altrimenti sarebbe del tutto ozioso e superfluo, assume così la sua funzione nell’ambito del principio del contrappasso. Coloro che, per viltà, non vollero fare una scelta, abbracciare un partito per il bene o per il male, ora debbono seguire un’insegna che non vedono cosa rappresenti, e che può significare tutto, e perciò non significa nulla. Potevano in vita a ragion veduta scegliere un’insegna e seguirla e dare per essa il proprio sangue e le proprie lagrime. Ora debbono seguirne una, che a essi non dice nulla» (Pagliaro 1967, pp ). Questi dannati sono punti da vespe e altri insetti e il sangue che cade dalle loro ferite è pasto per i vermi (vv.64-69): dunque lo stimolo che li spinge ora è cosa vile, dato che in vita non vollero essere “punti” da ideali nobili e i vermi rappresentano la verità profonda di questi dannati, sono il loro specchio. Infine Dante copre di silenzio i loro nomi (vv ; 58-60): chi si è scelto l’anonimato della non scelta non merita di essere ricordato. 57 La prima pena escogitata da Dante ci mostra uno dei modi con cui si applica il contrapasso: qui è una pena creata sull’opposizione alla colpa, sul binomio passività-velocità, fra mancanza di stimoli e punture di vespe. L’opposizione non esclude però le analogie come quella fra bandiera sconosciuta e nessuna bandiera e quella, più pesante, fra ignavi e vermi (v. 69). 60 Non si può pensare che Dante alludesse non a un personaggio singolo, ma ad una sorta di allegoria dell’ignavia. Ciò sarebbe del tutto in contrasto con la poesia dantesca. Però questo non significa che il personaggio non sia emblematico, anzi è tanto più un emblema quanto più è reale. Del resto tutti i commentatori antichi cercano di identificare il personaggio e, fino a Benvenuto da Imola, riconoscono qui l’ombra di papa Celestino V, l’unico papa che rinunciò alla carica. Contro il forte argomento della generale opinione dei lettori contemporanei a Dante a favore dell’identificazione dell’anima con quella del papa sta sia il carattere evangelico-pauperistico di Celestino, sia la sua canonizzazione nel Può darsi che di quest’ultima Dante non sapesse nulla perché avvenuta ad Avignone e pubblicata da Giovanni XXII solo nel 1328, quindi dopo la morte di Dante; né inoltre la canonizzazione dei santi è dogma di fede. Comunque quando Dante accenna (e non cita: anche questo è significativo) a Celestino V, le sue parole non suonano mai positive né in If. XIX 56 (dove è ingannato da Bonifacio), né in If. XXVII (dove si dice che non ebbe care le chiavi di san Pietro). 69 Come si è ricordato in precedenza qui si ha una prima, precisa applicazione del contrapasso, sia secondo la legge del taglione (inoperosità/corsa), sia per somiglianza: «i pusillanimi del vestibolo conservano il loro atteggiamento interiore; cioè, anche per loro, il contrappasso infernale consiste formalmente e propriamente nella fissità [...] delle scelte operate durante la vita terrena. È vero che costoro vollero non operare scelte: scelsero di non scegliere, senza avvedersi che anche questa è una scelta: e da essa furono indotti a un’esistenza inautentica, dispersa nel polverio della vita banale quotidiana. […]L’insegna che quelle anime rincorrono, e che non si lascia neanche identificare, somiglia molto al ‘‘rinvio’‘; e quella corsa senza fine e senza scopo è appunto tormentosa sollecitudine, così come le punture degli insetti esprimono bene gli stimoli della vita banale; e altresì, gli animali immondi, che si nutrono con il sangue e le lacrime di quei miserabili, mostrano come tal vita banale sia solitamente sfruttata da chi bada ad arricchirsi o potenziarsi sull’altrui meschinità morale, secondo un metodo commerciale e politico che non appartiene soltanto ai tempi di Dante» (S. Pasquazi, in E.D. [s.v.]). Versi successivi: le anime lungo l’Acheronte sono moltissime (vv ), secondo la concezione rigorista largamente diffusa nel medio evo che riteneva gran parte dell’umanità malvagia e destinata alla dannazione eterna. Queste anime esprimono il desiderio di essere traghettate (vv.71-75; ) verso il luogo della loro pena (vv ) anche se la prospettiva della sorte che le aspetta genera terrore e sgomento (vv ) che esplode in una sorta di bestemmia universale (vv ). Tocca ancora alla sapienza di Virgilio spiegare l’apparente contraddizione del comportamento delle anime che vogliono raggiungere l’inferno e lo temono: si tratta di un altro segno della giustizia di Dio che spinge le anime a voler raggiungere la loro meta, a voler compiere il loro destino (vv ). La giustizia di Dio vuole che queste anime diventino quello che hanno liberamente scelto di essere: il loro libero arbitrio le ha portate al male, e quindi esse hanno scelto l’inferno; ora Dio fa sì che il destino si compia. La partenza delle anime verso l’altra riva del fiume è rappresentata da Dante (vv ) attraverso la grande similitudine della foglie che cadono in autunno, complicata dalla similitudine interna (v. 117) dell’uccello che risponde al richiamo. Si tratta di una pagina ispirata alla poesia virgiliana (Aen. VI, , che a sua volta riprende il testo greco di Omero, sconosciuto Dante) eliminando però quanto di eccessivamente descrittivo è presente nei versi latini.

24 “Nave sanza nocchiero in gran tempesta”: l’assenza della guida imperiale Pg., 6
e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode 84 di quei ch’un muro e una fossa serra. Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, 87 s’alcuna parte in te di pace gode. Che val perché ti racconciasse il freno Iustinïano, se la sella è vòta? 90 Sanz’ esso fora la vergogna meno. Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, 93 se bene intendi ciò che Dio ti nota, guarda come esta fiera è fatta fella per non esser corretta da li sproni, 96 poi che ponesti mano a la predella. O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia, 99 e dovresti inforcar li suoi arcioni, giusto giudicio da le stelle caggia sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto, 102 tal che ’l tuo successor temenza n’aggia! e oggi invece in te se ne stanno in guerra i tuoi abitanti, e si combattono aspramente l’un l’altro anche quelli che sono circondati da uno stesso muro e da uno stesso fossato. Osserva bene, o infelice, sui litorali le tue città di mare, e poi guarda quelle interne, se qualche tua zona gode di pace. A che cosa servì che Giustiniano ti sistemasse il morso, se poi la sella è vuota? Senza il freno, la tua vergogna sarebbe minore. Ahimè o uomini di Chiesa che dovreste essere ubbidienti a Dio e lasciar sedere l’imperatore al suo posto, se voi capiste bene quello che Dio vi indica nei suoi precetti, guardate come questa fiera è diventata ribelle, perché non è pungolata dagli sproni dopo che voi avete preso in mano le sue briglie. O Alberto, che hai scelto di essere solo tedesco, e che abbandoni questa giumenta che è diventata indomabile e feroce, e invece dovresti inforcare i suoi arcioni, piova dal cielo un giusto castigo sulla tua stirpe, e sia un castigo terribile e ben visibile tanto che il tuo successore ne abbia paura! La civiltà mercantile sostituisce al vecchio modo di produzione agricolo-feudale i nuovi meccanismi del commercio e alle vecchie elités politiche le nuove classi dirigenti, spesso di origine extraurbana. La ricchezza diventa segno di virtù quali l’intelligenza e l’operosità che sono virtù laiche e, in quanto tali, esigono di essere accolte in se stesse senza rimandare a una trascendenza. Questo spiega l’incomprensione di Dante nei confronti delle novità indotte dalla nascente borghesia: egli cerca i valori assoluti che stanno dietro i fatti della storia; non trovandoli nella nuova realtà “laica”, conclude che non vi sono e che quindi il modello proposto dalla storia recente è errato. Nel vi canto del Purgatorio non si toccano tanto i problemi economici della nuova civiltà, quanto quelli delle forme politiche, dei ruoli della Chiesa e dell’Impero, della violenza diffusa, della decadenza morale di Firenze, vista anche come decadenza civile e politica. La rappresentazione della violenza continua nella seconda parte del canto nell’apostrofe all’Italia. Essa si presenta come guerra civile all’interno delle singole città (vv ) siano esse repubbliche marinare (vv ), o città dell’interno (vv ) e coinvolge le famiglie nobiliari cittadine (vv ), o dei grandi feudi extraurbani (vv ). In tale situazione torbida e nella quale la legge rimane inapplicata (vv ), causando la decadenza complessiva dell’Italia (vv ; 94; 98), nascono nuove classi dirigenti formate da borghesi inurbati che Dante definisce tiranni (vv ). Nel pensiero dantesco infatti solo la monarchia universale garantisce agli uomini la libertà, mentre le altre forme di governo come le democrazie, le oligarchie e le tirannidi cercano solo di mantenere il proprio potere, asservendo quindi gli uomini (Mn. xii, 8-9): in quanto fuori dal governo imperiale, l’Italia oggi è serva (v. 76). Della decadenza attuale vi sono quindi colpe diverse, di singoli (nobili litigiosi e borghesi avidi e barattieri), ma soprattutto delle grandi istituzioni universali, della Chiesa e dell’Impero quindi. Esse dovrebbero entrambe mirare alla realizzazione dei fini ultimi dell’uomo: la felicità terrena dell’umanità e la sua salvezza eterna. Non hanno fini particolaristici o privati, come un tiranno o un re di una sola nazione o, in campo religioso, un eretico. Ma i loro fini, benché convergenti, devono restare distinti. L’apostrofe al clero contiene l’accusa di aver invaso il campo dell’imperatore (vv ) commettendo una serie di colpe: a) non ascolta il precetto evangelico che impone di dare a Cesare ciò che spetta a Cesare: in tal modo il clero non è più “devoto”, obbediente a Dio (vv ); b) non è neppure capace di governare ma solo di tirare avanti il governo dell’Italia, come chi non sa cavalcare ma trascina a piedi il cavallo per le briglie (vv ); c) ha causato così il totale imbarbarimento dell’Italia (v. 94). Ma la colpa è anche dell’imperatore che ha lasciato spazio al clero (e ai comuni e agli stati nazionali); si è comportato come un uomo di parte (tedesco, v. 97) non come un monarca universale. In quanto sovrano universale l’imperatore dovrebbe essere il garante della legge e la fonte stessa della certezza del diritto: tali furono gli imperatori antichi (Giustiniano: vv ). Compito specifico dell’imperatore è quindi imporre la legge, sola garanzia di vivere civile in assenza della quale esiste solo la decadenza (vv , 95, 99).

25 “Nave sanza nocchiero in gran tempesta”: l’assenza della guida imperiale Pg., 6
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto, per cupidigia di costà distretti, 105 che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto. Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: 108 color già tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; 111 e vedrai Santafior com’ è oscura! Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: 114 «Cesare mio, perché non m’accompagne?». Vieni a veder la gente quanto s’ama! e se nulla di noi pietà ti move, 117 a vergognar ti vien de la tua fama. E se licito m’è, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, 120 son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? O è preparazion che ne l’abisso del tuo consiglio fai per alcun bene 123 in tutto de l’accorger nostro scisso? Ché le città d’Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa 126 ogne villan che parteggiando viene. Tu, e prima di te tuo padre, avete tollerato, spinti dalla sete di impadronirvi della Germania, che l’Italia, giardino dell’impero, fosse abbandonata e si inaridisse. Scendi in Italia e vieni a vedere i Montecchi e i Capuleti, le famiglie dei Monaldi e dei Filippeschi, o uomo che non curi più i tuoi doveri; i primi già rovinati, e i secondi timorosi di esserlo! Vieni, o uomo crudele, vieni e guarda l’angoscia dei tuoi nobili e risana i loro guasti; e vedrai com’è in rovina la contea di Santafiora! Vieni a vedere Roma, moglie legittima di te imperatore, che piange vedova e abbandonata, e ti invoca giorno e notte: «O imperatore mio sposo, perché non sei in mia compagnia?». Vieni a vedere quanto gli Italiani si amano fra loro! e se non provi nessuna pietà nei nostri confronti, vieni a vergognarti della fama che hai. E se mi è permesso, o Gesù che fosti crocifisso sulla terra per noi, i tuoi occhi che portano giustizia si sono forse rivolti altrove? O è forse la prova che nelle insondabili profondità della tua mente ci mandi per prepararci a un qualche rimedio del tutto incomprensibile per la nostra ragione? Perché le città italiane sono tutte piene di tiranni e si trasforma in un nuovo Marcello ogni contadino ignorante che si butta nelle lotte faziose. Se dunque l’imperatore non assolve a tali doveri non compie ciò che deve compiere, non è un imperatore: per ciò il poeta invita Alberto tedesco a scendere in Italia, per vergognarsi di un nome e di una forma che non merita (vv ) nel suo esser venuto meno ai doveri religiosi (pietà: v. 116) che il ruolo impone. E la causa di ciò sta nella cupidigia, nell’avidità di potere rivolta per di più a una terra sola, alla parte e non al tutto (costà: i territori tedeschi, v. 104). Alla parzialità della Germania si contrappone l’universalità di Roma (vv ) o l’Italia presentata come luogo ideale, come hortus conclusus e paradiso di delizie di ascendenza biblica e cortese, più che come realtà geografica determinata (v. 105): di fatto l’Italia assume una funzione di ponte e di collegamento fra la specificità comunale di Firenze e l’universalità dell’Impero; non è una nazione (concetto che Dante non poteva possedere) ma la concretizzazione di un’idea di perfezione. Nell’apostrofe all’imperatore acquistano particolare peso l’invocazione alla punizione divina che deve scendere dal cielo su chi non sa cogliere i disegni di Dio; punizione che deve essere particolarmente forte ed esemplare (vv ), proprio per il ruolo altissimo dell’imperatore: non deve essere colpita una persona, ma, attraverso una persona, la degenerazione di un’istituzione in sé necessaria e sacra. L’equazione nuovo-positivo della borghesia fiorentina è rovesciata nel suo contrario, antico-positivo e nuovo-negativo: e l’antico è nuovamente l’Impero, depositario di leggi giuste e quindi durature perché ispirate da Dio, alla cui unità la politica del comune fiorentino si oppone. Anzi diventa qui evidente il nesso che lega nell’opposizione all’Impero i comuni italiani che si oppongono alla nobiltà imperiale (vv ), la corte papale (vv ; e quando Dante scrive essa ha abbandonato Roma, quindi ancor più sola e derelitta, vv , per Avignone) e infine la casa reale francese, dove una regina mentitrice fa uccidere un innocente per aprire la strada a un re criminale, Filippo il Bello (vv ; anche canto vii ): Firenze è il laboratorio della politica antimperiale dei papi e dei Valois. All’interno delle apostrofi all’imperatore vi sono due terzine (vv ), in cui il poeta si rivolge direttamente a Dio, versi che in passato hanno suscitato più di una critica per l’audacia del riferimento o per l’identificazione Giove-Gesù in essi presente. Attraverso tali versi Dante mira ad affermare alcune posizioni per lui irrinunciabili: a) la certezza incrollabile nel rimedio divino, che può tardare fino a far vacillare le aspettative e le speranze dell’uomo, ma che comunque senza alcun dubbio giungerà, secondo quanto promesso dalla predicazione apocalittica e dalle correnti millenaristiche, da Gioacchino da Fiore in primo luogo; b) tale rimedio assumerà certamente la forma della restaurazione dell’autorità imperiale che costituisce la riproduzione in terra dell’ordine divino; c) Roma e l’impero sono la forma assunta nella storia degli uomini dell’ordine voluto da Dio; in quanto tali, riproducono i ruoli di Gerusalemme e di Roma nell’antichità (biblica e della storia romana): si tratta sempre di manifestazioni di una storia che è sacra in quanto ha il suo centro nella croce (v. 119), cui allude la divinità antica in quanto figura (Giove, v. 118) e che verrà restaurata dal ritorno di Cristo (parousia). Il concetto pagano di un fato irremovibile è riletto alla luce del possibile intervento provvidenziale che lascia sempre una via di modifica e di salvezza: come nella storia degli uomini e delle grandi istituzioni è possibile – anzi, certo – l’intervento salvatore di Dio, così nella storia personale di ognuno vi è la stessa possibilità e il medesimo dovere per l’uomo di bene operare per la salvezza.

26 La giustizia è l’impero: la chanson de geste dell’aquila Pd., 6
Perché Giustiniano; Giustizia/impero; In-iustitia/nemici dell’impero La biografia di Giustiniano; La Chanson de geste dell’aquila; La polemica contro Guelfi e Ghibellini; 6. La biografia di Romeiu de Villeneuve; 7. Il livello stilistico alto 1 Fra i motivi che hanno suggerito a Dante di scegliere Giustiniano fra i vari imperatori la sua attività di giurista nel Corpus iuris (vv , 24): dunque per Dante l’Impero si viene sostanzialmente ad identificare con la legge. Il nome stesso di Giustiniano per un medioevale derivava dal suo essere l’uomo del diritto, dello ius. E da ius deriva iustitia: l’Impero è lo strumento con cui Dio porta il mondo verso i fini che ha stabilito, fini che sono sempre giusti proprio perché da Dio stabiliti. Per questo nei momenti fondamentali si sottolinea la consonanza tra agire dell’aquila e Dio: è così alle origini, vv. 2-3; è così allorché Cesare fonda l’Impero, v. 57; al momento della redenzione, vv 2 Iustitia sarà dunque dalla parte dell’Impero, di Giustiniano, di Romeo (vv , ) e quindi di Dante; in-iustitia sarà dalla parte dei nemici dell’Impero come i Guelfi e i Ghibellini (vv ; ); i Provenzali (vv ) e quindi i Fiorentini nemici di Dante (e, inconsapevolmente e senza sua colpa, anche l’imperatore Costantino, vv. 1-2). 3 Prima di introdurre la chanson de geste dell’aquila e dopo la conclusione di essa, il canto presenta due biografie esemplari: quella di Giustiniano (vv. 7-27) e quella di Romieu de Villeneuve (vv ). L’imperatore si identifica con: 3.1 l’istituzione imperiale e quindi con la legge e si presenta come colui che unisce contro coloro (Costantino, vv. 1-2) o quelle forze (vv ; ) che dividono. Che egli sia nel giusto lo rivela, oltre al suo nome, anche il fatto che le sue azioni sono sempre determinate dalla volontà divina (vv ; 22-3; e anche 9). Di Giustiniano Dante ricorda che: – è stato (l’uso del passato remoto e del presente, v. 10) imperatore, vv. 9 e 10; – ha redatto il Corpus iuris, vv. 12 e 24; – si è convertito alla fede cattolica, vv – la conversione è stata la premessa alla stesura del Corpus iuris, vv – mantiene per sé l’essenza dell’Impero (il diritto) delegando ad altri il potere politico-militare, vv Emerge dalla rassegna un altro dato importante oltre a quello, già segnalato che fa di Giustiniano uno strumento nelle mani di Dio: il nesso stretto tra fede e diritto. Un imperatore eretico non avrebbe potuto compiere l’alto lavoro: l’eresia divide i cristiani e solo la fede li unisce così come li unisce l’Impero e li dividono le fazioni politiche. Il punto 4 è nella diapositiva 26; i punti 5 e 7 sono nella diapositiva 27 6 Romeo è presentato come “l’uomo dei doveri”, come colui che agisce bene perché si deve agire bene, perseguendo certo i fini mondani dell’onore e della gloria (altrimenti non sarebbe nel cielo di Mercurio), ma con una dirittura morale talmente alta da abbandonare tutto davanti ad un dubbio sulla sua onestà. Egli dunque rappresenta l’uomo giusto in piccolo (vv. 129, 132, 135, 137, 139) così come Giustiniano lo rappresenta in grande: sono uguali ai poli opposti della scala sociale. Romeo è giusto perché amministra il patrimonio con scrupolo ed esattezza biblica (il tasso di interesse del 20 per cento: v. 138) ma che ottiene anche per il suo signore molti altri benefici (vv ). Egli è un romeo, cioè un pellegrino (vv. 135, 139, 141), figura misteriosa e un po’ magica che porta benessere e ricchezza; è vittima dell’invidia (male comune delle corti come ben sa nell’inferno Pier della Vigna, figura per vari versi simile a quella di Romeo) e dell’ingratitudine dei grandi (vv e ), nobile soprattutto nel celare il proprio cuore quando la sua onestà non è riconosciuta. La figura di Romeo è chiaramente autobiografica: Dante infatti, soprattutto durante l’esilio, si proclama il poeta della rettitudine. Basta sostituire Firenze alla Provenza e i Fiorentini ai Provenzali (v. 131), Carlo di Valois che combatte contro i Bianchi fiorentini a Carlo I d’Angiò che ebbe il potere sulla Provenza dopo Raimondo Berengario (vv ), la condanna contro Dante alle parole biece contro Romeo (v. 136), per avere il quadro a cui il poeta allude con la vicenda di Romeo. L’accenno finale al pane e alla mendicità Dante lo riferisce a se stesso in Cv. I, iii, 4-5, nella conclusione dell’Epistola XII e soprattutto in Pd. xvii Ma se l’elemento autobiografico è presente, esso è però secondario rispetto a quello centrale del canto che è costituito dal tema della giustizia: – la giustizia in sé sulla terra, vv – la giustizia impersonata nel più alto livello, l’imperatore, vv. 1-27 – la giustizia impersonata al più basso livello, Romeo e quindi anche Dante, humilis ytalus e exul immeritus vv – i nemici della giustizia vv e

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contro ‘l corso del ciel in Alba sua dimora i sette regi … Torquato e Quinzio Cesare per voler di Roma il tolle puose il mondo in tanta pace gloria di far vendetta alla sua ira vendetta… de la vendetta del peccato antico Carlo Magno, vincendo Per sostenere la sua tesi il poeta traccia una “storia dell’aquila” da Enea a Carlo Magno, di cui gli attuali imperatori tedeschi e soprattutto Arrigo VII sono i legittimi eredi. Non è una storia che si sofferma sui fatti, ma ne ricerca il senso profondo, provvidenziale. 2.1 Accenno all’origine troiana: translatio imperii a Grecis ad Romanos (vv. 2-3) 2.2 le origini di Alba e la preistoria di Roma, (vv ) 2.3 l’Impero prima dell’Impero: il regno e la costruzione di una potenza locale, (vv ) la repubblica e l’espansione in Italia (vv ) la repubblica, il pericolo cartaginese e la costruzione della potenza mediterranea (vv ) 2.4 Cesare fonda l’Impero: la conquista dell’Europa (vv ) la guerra civile contro Pompeo (vv ) 2.5 La pax augustea: fine della guerra civile e la nuova espansione (vv ) 2.6 Il culmine della storia: la redenzione avviene per legittima sentenza dell’Impero (vv ) 2.7 la diaspora ebraica: la vendetta... de la vendetta (vv ) Dante prepara la materia per il canto vii 2.8 La translatio imperii a Romanis ad Francos e renovatio imperii di Carlo Magno; Impero e Chiesa concordi, vv Su otto punti in cui si è divisa la storia dell’aquila, almeno sei concernono direttamente Roma, il primo ne prepara l’avvento e l’ultimo ne è la prosecuzione con il Sacro Romano Impero. L’elemento fondamentale è costituito dunque dalla romanità dell’Impero secondo quanto il poeta andava teorizzando (probabilmente in quel medesimo periodo) nel Monarchia e in alcune Epistole: il popolo romano ebbe l’Impero di diritto perché fu il più nobile dei popoli e fu “forzato” da Dio nella costruzione dell’Impero; non mirò al proprio ma al generale interesse, costruì la pace universale. Gesù, accettando la sentenza di un tribunale romano, riconosce il diritto e l’autorità dell’Impero. Quest’ultimo punto (che nel secondo libro del Monarchia viene portato come la prova fondamentale per via di fede della giustezza della tesi sostenuta dall’autore) è presentato nella Commedia come il centro stesso della storia: tutta la storia dell’Impero ha mirato alla giusta pace dell’età augustea in cui potesse nascere Cristo e il cristianesimo (vv , 79-81), potesse aver luogo la redenzione (vv ) e potesse poi estendersi la dottrina cristiana fino a giungere al sostegno diretto della Chiesa in pericolo da parte dell’Impero (vv ). È assai probabile che nel tracciare la storia ideale dell’Impero Dante avesse in mente l’imperatore Arrigo VII, la sua discesa in Italia, le vittorie (più sperate che reali) contro i nemici dell’Impero: molti termini che si trovano nel poema per designare il volo dell’aquila sono usati nelle Epistole, così come comuni alle Epistole e al Monarchia sono le anafore con cui la nascita trionfale dell’idea di Impero è scandita.

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Faccian li Ghibellin, faccian lor arte Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replico 5 della diapositiva 25 La storia dell’Impero, che occupa circa metà canto, è una aggiunta necessaria (v. 30) alla propria presentazione da parte di Giustiniano. E tale giunta ha il fine dichiarato di mostrare i torti dei nemici attuali dell’Impero, (vv ). Sia al v. 33 sia al v. 101 Dante usa per indicare tale opposizione all’Impero i verbi oppone e appropria, cioè divide chi combatte l’Impero da chi ne tradisce lo spirito facendone un simbolo di parzialità. Nella proposizione dell’argomento ai vv usa l’arma dell’ironia contro Guelfi e Ghibellini; nello sviluppo successivo invece il tono è più sdegnato: dapprima il poeta se la prende con tutti in generale (vv ), poi con i Guelfi (vv ) e con i Ghibellini (v.101), ma sempre in generale (v.102). Rovesciando la disposizione precedente, dedica poi una terzina ai Ghibellini (vv ) individuando la loro colpa nella divisione che operano fra Impero e giustizia, divisione che è frutto di una visione particolaristica e non universale dell’agire politico; e due terzine ai Guelfi visti come gli oppositori dichiarati che cercano di abbatere l’Impero (vv ) in nome dell’autonomia degli stati nazionali. Contro di essi, e contro Carlo II d’Angiò loro capo, cui Dante fa riferimento anche in questo caso con disprezzo (v. 106) e con sarcasmo (vv ), è pronta la vendetta di Dio (vv ) che già ha colpito Brenno e Pirro (v. 44), Annibale (v. 50), Tolomeo (v. 69), Bruto e Cassio (v. 74), Cleopatra (v. 76), i Longobardi (v. 94): a questa galleria ideale di nemici dell’aquila è da aggiungere Carlo d’Angiò coi Guelfi suoi (v. 107). È chiaro che Guelfi e Ghibellini sono accumunati dalla stessa colpa: il particolarismo. Ma è chiaro anche che più grave è la colpa dei Guelfi che sono in aperta opposizione all’istituzione unificatrice dell’Impero e quindi in aperto contrasto con la giustizia e con la provvidenza di Dio. 7 della diapositiva 25 Solo i versi dedicati a presentare le anime e le loro caratteristiche (vv ) hanno un tono discorsivo e didattico e un livello stilistico medio. Tutto il resto è condotto sul registro epico. Anche la parte finale, in cui si possono riscontrare alcuni tratti più lirici e anche più elegiaci, soprattutto nell’ultima terzina ai vv , è però fondamentalmente epico sia perché l’individuo è presentato come exemplum universale (e questo vale anche per la presentazione di Giustiniano all’inizio del canto), sia perché casi simili non mancano nella tradizione epica classica soprattutto virgiliana, sia perché gli strumenti retorici utilizzati in queste parti liminari del canto sono gli stessi usati nella chanson de geste centrale. E questi strumenti si possono individuare in: – latinismi lessicali e sintattici molto frequenti e molto vistosi; – ripetizioni soprattutto anaforiche, spesso arricchite dal chiasmo come ai vv. 10 e 59 o dall’uso delle endiadi o delle coppie; – enjambements anche fra tutti i versi di una terzina, ma non fra terzine: quindi ogni terzina risulta chiusa in sé, rilevata; – passato remoto, il tempo “assoluto”; – abbondanza di citazioni classiche; – eccezionalità del discorso di un’anima che occupa un intero canto.


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