La Divina Commedia Canto 1 inferno Dante Alighieri

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Transcript della presentazione:

La Divina Commedia Canto 1 inferno Dante Alighieri Federica Moricio 3°E S.S

Nel mezzo del cammin di nostra vita…

Mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita…

qual era è cosa dura esta selva selvaggia Ahi quanto a dir qual era è cosa dura  esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!  

Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte. Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. 

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto,  guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata,  così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta;  e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ’mpediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. 

Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino  mosse di prima quelle cose belle;

sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle  l’ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone.  Questi parea che contra me venisse con la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse. 

Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,  questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista, e giugne ’l tempo che perder lo face, che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;  tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ’ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove ’l sol tace. 

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. 

Quando vidi costui nel gran diserto, "Miserere di me", gridai a lui, "qual che tu sii, od ombra od omo certo!".  Rispuosemi: "Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui. 

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 

Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?". 

"Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?", rispuos’io lui con vergognosa fronte.

"O de li altri poeti onore e lume, vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.  Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ ha fatto onore.