PRIME OBIEZIONI Iohan de Kater o Caterus 1) p. 89: “quale causa richiede un’idea? che cos’è un’idea?” “è la cosa pensata in quanto oggettivamente nell’intelletto”
RECUPERO DELL’INTENZIONALITÀ? realtà oggettiva: “termine dell’atto dell’intelletto” “non muta nulla nella realtà (effettiva) della cosa, che può anche non esistere” (messa tra parentesi, epoché, dell’esistenza)
NOMINALISMO “la realtà oggettiva è una pura denominazione”; o forse anche solo CONCETTUALISMO: la nostra conoscenza non aggiunge nulla alle cose in se stesse, ma i nostri concetti ci aiutano a conoscere le cose
CAUSA e ATTO si può parlare di causa solo per ciò che esiste effettivamente, ossia è in atto esistenza come realtà in atto (atto di essere nel senso di Tommaso d’Aquino)
ALMENO CE NE SARÁ UNA RAGIONE per cui un’idea ha una determinata realtà oggettiva (= un determinato contenuto pensato)
per Caterus si può dire di ogni idea quel che Descartes dice delle idee innate: il triangolo è quello che colgo con la mente, anche se non ce ne fosse uno al mondo. Un contenuto pensato è quello che è, in se stesso, ed è “eternamente vero” come tale.
se non riusciamo a vedere tutte le verità eterne come tali è solo perché conosciamo solo parzialmente, un po’ alla volta, per l’imperfezione della nostra mente che non può abbracciare tutto nello stesso momento: questa è la ragione per cui un’idea è diversa dalle altre.
se Descartes dice che un’idea non è un puro niente bisogna per Caterus distinguere: è niente, rispetto all’essere in atto, anche se è pur qualcosa in quanto pensata; è solo un ente di ragione che non si può considerare causato, ossia posto fuori dell’intelletto.
2) da chi trarrei la mia esistenza? Caterus vede qui la via dalle cause efficienti (la seconda via di Tommaso d’Aquino e la prova aristotelica): “io esisto, sono una cosa che pensa; questa è per sé o per opera d’altri? se fosse per sé, sarebbe Dio, perché si sarebbe data ogni perfezione”.
MA COSA VUOL DIRE “PER SÉ”? Caterus osserva che Descartes sembra intenderlo in modo diverso da quello comune: non più in senso negativo, ma positivo: “mi sarei dato tutte le perfezioni”.
ma anche intendendo per sé in senso negativo, ossia non per opera di altri, come può Descartes pensare che sia una cosa infinita? A meno che non ragioni come Suárez, che pare abbia detto che ciò che è limitato ha una causa; e quindi ciò che non ha una causa dovrebbe essere infinito, illimitato
Anche su questo il Caterus ha dei dubbi: non potrebbe essere che ciò che è limitato, lo sia per la sua stessa essenza, e non per una causa, ossia un principio esterno? il caldo è caldo e non freddo, proprio perché è caldo: ossia è tale per sé, per se stesso.
Caterus concorda per la quarta meditazione: quel che concepisco in modo chiaro e distinto è vero, proprio perché è vero tutto quello che è oggetto specifico di ogni facoltà: i sensibili propri, la volontà, ecc. L’errore sta nel nostro giudizio.
Ma non è d’accordo sull’applicazione del criterio dell’evidenza: conosco in modo chiaro e distinto l’Infinito? se non sono in grado di rappresentarmi il chiliogono, come posso dire di conoscere l’Infinito in quanto infinito?
Una osservazione preliminare: il Caterus dice: “se non sono in grado di rappresentarmi il chiliogono, come posso dire ...” Dicendo “rappresentarmi” fa confusione tra l’intendere e il rappresentare, di cui si parla solo nella sesta meditazione.
Caterus incalza: non ho una conoscenza chiara e distinta dell’Infinito, come osservava Tommaso d’Aquino a Giovanni Damasceno: “la conoscenza di Dio può dirsi innata solo in modo confuso”
ma supponiamo anche di avere un’idea chiara e distinta dell’Infinito: possiamo concludere che questo infinito esiste? E riprende la discussione di Tommaso d’Aquino con Anselmo d’Aosta...
Attenzione: Caterus cita Tommaso d’Aquino, e dice il discorso come se Tommaso lo facesse a se stesso, ma in realtà Tommaso riporta il discorso di Anselmo prima di criticarlo
Caterus discute anzitutto sulla definizione che Tommaso riporta da Anselmo: “Dio è l’essere di cui non posso pensare nulla di più grande, e quindi devo pensarlo come esistente”. Cartesio dice la stessa cosa: “Dio è l’essere perfettissimo”. L’argomento è il medesimo...
Se l’argomento è il medesimo... allora può valere la stessa critica che Tommaso fa a se stesso (o meglio ad Anselmo): metà di p. 95: “Che ora san Tommaso risponda a se stesso ed al signor Des Cartes...”
Tommaso osserva: posto che sia questa l’idea di Dio, non ne segue che esista in effetti (in rerum natura), ma solo che non può essere pensato se non come esistente, ossia che esiste solo nell’intelletto (in apprehensione intellectus tantum)
a meno che, come osserva Tommaso, non sappiate già per altra via che Dio esiste (mediante le prove a posteriori): allora, sapendo che Dio esiste, saprò anche che esiste in modo necessario, ossia che in Dio esistenza ed essenza coincidono.
Caterus conclude con una battuta L’idea di “leone esistente” comprende necessariamente le due cose, il leone e l’esistenza. Nella sua mente, Dio non può pensare se non le due cose insieme. Ma questo non significa che esista, se non è posto in atto dall’azione creatrice di Dio.
Kant dirà: l’esistenza è una posizione assoluta, che non può che essere data dall’esperienza e non ricavata a priori, come nella prova ontologica (NB è Kant per primo a chiamarla così: Anselmo la chiamava a simultaneo, Cartesio e Leibniz la chiamavano a priori)
La critica di Kant è equivalente a quella di Tommaso d’Aquino, solo che per Tommaso c’è anche la possibilità di argomentare l’esistenza di Dio a posteriori, mentre per Kant ogni prova anche a posteriori presupporrebbe l’argomento ontologico.
Caterus passa infine alla sesta meditazione: cosa vuol dire “distinzione reale tra l’anima e il corpo”? non potrebbe bastare dire che è una “distinzione formale ed oggettiva” come dice Duns Scoto, per distinguerla sia dalla distinzione reale che da quella di ragione
Caterus con questa osservazione passa dalla parte di Scoto contro Tommaso d’Aquino (distinzione reale), ma ha ben capito che Cartesio in realtà, parlando della distinzione che concepisco in modo chiaro e distinto tra l’anima e il corpo, parla di una “distinzione formale ed oggettiva” come Duns Scoto.