1. Le pratiche di mediazione – soprattutto in ambito penale - sono figlie di una cultura estranea al nostro statuto giuridico ed esprimono un pragmatismo che sacrifica quei principi e quei valori che sono a fondamento della nostra società e della nostra tradizione. Concetti come “colpa – responsabilità – giudizio - sanzione” vengono vanificati, ignorati o decisamente mortificati.
2. La mediazione penale minorile è un espediente organizzativo e burocratico “giustificato” dal cumulo delle pendenze che gravano sul funzionamento dei nostri tribunali. E’innegabilmente un costo aggiuntivo, ma con risultati incerti e per molti aspetti “perversi”: nel tentativo di sveltire alcune procedure, viene sacrificato il concetto stesso di giustizia retributiva.
3. La mediazione toglie alla vittima il diritto ad ottenere soddisfazione attraverso una punizione necessaria ed esemplare a carico del reo. Il colpevole potrà sentirsi legittimano a reiterare il danno, mentre la vittima si sentirà non solo bersaglio di un sopruso, ma esclusa da qualunque vera azione riparatrice.
4. La mediazione opera in una dimensione misteriosa e parallela ai contesti legittimi e naturali in cui viene esercitata la giustizia. In questo modo, rende inutile il dibattimento processuale come esercizio di garanzia e di trasparenza e svuota di senso la funzione della professione legale.
5. La mediazione è affidata a figure “professionali” ibride, estranee alla cultura del diritto, inadeguate a condurre indagini e valutazioni sulle dinamiche del reato, inesperte nei percorsi di analisi dei vissuti personali e limitatamente addestrate a gestire “pratiche persuasive”, rischiosamente manipolative. I mediatori, ispirati da un presunto buon senso, banalizzano i conflitti e alimentano il senso di ingiustizia.