Teoria dello Stato e del Controllo Sociale Lezione 03 Corso di Formazione in Sicurezza e Mitigazione del Rischio Milano, 19 febbraio 2009
La nascita delle teorie sulla “devianza” C.Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764) Illuminismo razionalista (utilitarista): il deviante è un essere razionale che delinque compiendo un calcolo fra rischio e benefici Nascita della teoria classica del diritto penale e sviluppo dei suoi fondamentali principii: legalità, materialità, commisurazione delle pene La pena come deterrente dell’azione criminale e rilegittimazione della ragionevolezza del contratto sociale, attraverso lo strumento del carcere Durante l’illuminismo il comportamento deviante degli individui era letto alla luce del paradigma filosofico della rational choice: dietro alla commissione di un atto o comportamento criminale, vi sarebbe sempre una scelta dettata dal libero arbitrio del soggetto deviante. Questa scelta scaturirebbe da un’attenta commisurazione sui due piatti di un’ideale bilancia dei rischi e dei benefici collegati alla realizzazione di un piano criminoso: quando il piatto dell’utilità marginale ottenibile attraverso il reato pesa di più rispetto a quello occupato dallo spauracchio della sanzione meritata, ogni ragionevole criminale di questo mondo scioglierà le proprie riserve mentali e si deciderà a commettere un reato. Viceversa, laddove i costi ipotetici dovessero risultare superiori agli eventuali benefici, quell’individuo si asterrà dal commettere un comportamento deviante, e la funzione deterrente delle pene e degli altri strumenti coercitivi di controllo sociale sarà pienamente soddisfatta. È, pertanto, essenziale al raggiungimento dell’obiettivo dello Stato (la garanzia della comune sicurezza dei suoi cittadini) porre particolare attenzione non tanto alla possibilità di punire gli individui devianti – riconosciuta ab initio dalla costituzione del contratto sociale – ma alla modalità ed alla quantità di tale sanzione, visto che saranno questi aspetti a salire sul piatto della bilancia di ogni potenziale delinquente. A questo problema è dedicata l’opera probabilmente più famosa di questo periodo, relativamente alla questione criminale: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Al suo interno si affermeranno alcuni dei principi che ancora oggi costituiscono l’ossatura di fondo di ogni sistema giuridico penale: il principio di legalità, in base al quale la sicurezza e la libertà degli individui, che sono ad un tempo fine e fondamento di ogni costruzione statuale, può essere limitata solo da leggi emanate dallo Stato; il principio di materialità, in virtù del quale al centro del diritto penale deve stare il fatto commesso e non il suo autore; il principio di commisurazione delle pene, che vuole che ad ogni reato debba corrispondere una sanzione proporzionata al suo disvalore oggettivo, ossia al danno che l’evento deviante ha arrecato allo Stato. I diversi caratteri della pena, secondo Beccaria, devono quindi tenere conto della razionalità di ogni potenziale deviante e devono poter incidere sulla psicologia di tali soggetti al momento in cui essi effettueranno il calcolo utilitaristico fra costi e benefici potenziali. Se la pena risponde a tali criteri, essa riuscirà a svolgere efficacemente la propria funzione deterrente e potrà imprimere ad ogni potenziale deviante una maggiore consapevolezza della ragionevolezza del contratto sociale. Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, [essa] dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi (Beccaria, 1764, cit. in Melossi, 2002: pp.33-34). Ma il sistema penale teorizzato da Beccaria e dagli altri autori illuministi non aveva solamente questa valenza affittiva e dissuasiva (probabile frutto delle influenze esercitate dal pensiero utilitarista scozzese del XVII e XVIII secolo): esso era, al tempo stesso, caratterizzato dalla funzione educativa della pena e dall’importanza attribuita al carcere come strumento di progresso della società. La sottolineatura di questa valenza pedagogica della sanzione era, infatti, necessaria per un movimento filosofico che poneva al centro del contratto sociale individui razionali e muniti di diritti soggettivi. Laddove questi individui non fossero dotati di un livello di razionalità sufficiente a renderli consapevoli dei propri diritti ed idonei a partecipare al contratto sociale, occorreva uno Stato che si preoccupasse di educarli all’esercizio della razionalità; tanto più nel caso in cui questi individui si fossero resi responsabili di comportamenti devianti, che ponevano, dunque, in discussione l’ordine sociale scaturito dalla libera sottoscrizione di quel patto. Per questo motivo, il carcere (inventato, nella sua forma correzionale, nel corso del XVI secolo) diventa uno strumento particolarmente funzionale alla creazione di questi individui razionali e responsabili: attraverso l’espiazione della pena, il duro lavoro quotidiano e l’abitudine al controllo (un controllo che nel modello di penitenziario panottico di Jeremy Bentham diventa invisibile e, perciò, immaginabile in ogni momento della giornata), il carcere produce “macchine repubblicane”, dotate di disciplina, capacità di autocontrollo, apprezzamento dei valori posti alla base del patto sociale. Ciò che coincide, in larga misura, con il concetto di razionalità esistente all’epoca dei Lumi.
La nascita delle teorie sulla “devianza” C.Lombroso (L’uomo delinquente, 1876) Avvento del Positivismo: la realtà si studia con il metodo delle scienze naturali. Critica all’astrattismo dei teorici illuministi Da Darwin alla “fossetta occipitale”: la devianza causata dall’atavismo, mancato sviluppo biologico di un delinquente nato Irriducibilità dei delinquenti lombrosiani al contratto sociale: internamento in apposite strutture manicomiali ed allontanamento dal resto della società Critiche interne ed esterne alle teorie lombrosiane: dalla “fallacia causale” alla “questione meridionale” Con l’avvento del Positivismo, i pilastri alla base del modello di società prefigurato dai teorici illuministi vengono posti pesantemente in discussione. La razionalità degli individui, il dispiegarsi del loro libero arbitrio, la stipulazione di un patto collettivo fra cittadini sono costruzioni metafisiche che vengono tacciate di eccessiva astrattezza da un movimento filosofico che, invece, ambisce a studiare la realtà utilizzando paradigmi teorici e metodi di analisi affini a quelli utilizzati dalle scienze naturali. Peraltro, i primi contributi che il Positivismo apportò alla riflessione sulla devianza, pur prendendo le distanze dalle astrazioni che caratterizzavano la teoria della pena di matrice illuminista, non si discostarono da quell’impostazione strettamente individualista, che ricercava le cause dei comportamenti devianti in un difetto dei soggetti che li ponevano in essere. Con la Scuola Positiva italiana ed il suo autore più conosciuto, Cesare Lombroso, l’attenzione si sposta dai difetti della razionalità degli individui a quelli di tipo biologico. Il presupposto filosofico dell’opera lombrosiana era il coevo sviluppo del pensiero evoluzionista di Charles Darwin, che sconvolse i paradigmi delle scienze naturali ma produsse influenze anche in altri ambiti disciplinari. Nel suo famoso “Descent of man” del 1871, Darwin scriveva: Nel genere umano, alcune delle peggiori inclinazioni che occasionalmente appaiono nelle famiglie senza alcuna causa determinabile possono, forse, essere dovute a regressioni ad uno stato selvaggio… (Darwin, 1871, cit. in Melossi, 2002: p.56) Quest’ipotesi dell’esistenza di un legame fra le turbe della personalità di certi individui ed una loro condizione di “selvaggi” non compiutamente evoluti suggestionò profondamente Lombroso e fu alla base della sua famosa teoria criminologica dell’atavismo. Ne “L’uomo delinquente”, di qualche anno posteriore all’opera di Darwin, Lombroso sosteneva che lo sviluppo individuale di ciascun soggetto ripercorreva, nel proprio percorso biologico verso la maturità fisica, le tappe che la specie umana aveva percorso durante il proprio percorso evolutivo. In certi individui, però, questo sviluppo si era fermato ad uno stadio anteriore a quello raggiunto dalla specie umana: la loro condizione era, pertanto, analoga a quella degli uomini primitivi. L’uomo delinquente (evocato nel titolo del suo libro) era, per l’appunto, il rappresentante nelle nostre società di questo selvaggio rappresentante della nostra specie. La devianza (intesa sia in senso criminologico che in senso psichiatrico) era causata dal mancato sviluppo biologico dell’individuo deviante, e i segni biologici e psichici della devianza sarebbero stati osservabili da un’attenta analisi del corpo e del comportamento di tali soggetti: tali caratteri sono definiti atavici, proprio perché riflettono la primitiva condizione dell’essere umano. Il più famoso di questi caratteri fu la fossetta occipitale scoperta dall’esame del cranio del brigante calabrese Vilella: quella fossetta veniva ricondotta ad uno sviluppo cranico non completamente avvenuto e, quindi, alla presenza di un cervello subnormale. I numerosi segni della devianza che Lombroso riscontrò nei corpi dei “delinquenti nati” da lui minuziosamente esaminati, erano parimenti riscontrabili anche presso “gli uomini selvaggi e le razze colorate”, ed in effetti presentano diverse curiose analogie con i tratti somatici associati generalmente alle popolazioni meridionali: la fronte sfuggente, la chioma folta e arricciata, la voluminosità delle orecchie, la grossezza di mandibole e zigomi... A queste caratteristiche biologiche si accompagnavano altri caratteri di tipo “psicologico” che Lombroso collegava alla natura delinquente: la “precocità ai piaceri venerei e al vino”, l’impulsività, la mancanza di rimorsi, l’eccitabilità, la passione per il gioco e per l’alcool, la suscettibilità, l’abbandono alle superstizioni… Tutte caratteristiche che già avrebbero difficilmente potuto accostarsi all’idea di uomo razionale del pensiero illuminista, e che ora la Scuola Positiva considerava addirittura prove scientifiche dell’inferiorità biologica di determinati individui e della loro ontologica devianza. Individui che, in quanto irrimediabilmente diversi, non potevano neppure essere in qualche modo disciplinati o rieducati, come nelle teorie sull’uso correzionale del carcere: nei loro confronti risulta adeguata solo l’allontanamento dal resto della società, a garanzia che questi individui “selvaggi” non possano riprodurre se stessi ed i caratteri devianti da cui sono affetti (una posizione che sarà alla base della nascita di alcune strutture di internamento ispirate ai principi dell’eugenetica). Le posizioni lombrosiane ebbero grande successo, ma suscitarono anche vivaci critiche di studiosi coevi e posteriori alla sua opera. In primo luogo, fu criticata la scientificità delle sue teorie, a causa della fallacia causale delle sue dimostrazioni: diversi studiosi, sia fra i seguaci di Lombroso che fra i suoi avversari, replicarono i suoi esperimenti su differenti classi di individui (criminali e non), ma arrivarono a conclusioni del tutto difformi, e dovettero concludere che Lombroso aveva scambiato una qualche regolarità nelle osservazioni che egli aveva effettuato per l’esistenza di un rapporto causale fra i segni psicosomatici della devianza ed il comportamento criminale. L’altro tipo di critica fu avanzata da Gramsci nel suo scritto sulla questione meridionale e ribadita da altri studiosi, ed era relativa all’opera di stigmatizzazione degli individui appartenenti ai ceti popolari meridionali effettuata da Lombroso. Ufficiale medico dell’esercito piemontese in Calabria dieci prima della pubblicazione de “L’uomo delinquente”, Lombroso non avrebbe saputo resistere alla tentazione di rinforzare la dominazione militare delle regioni meridionali attraverso un’affermazione scientifica dell’inferiorità del proletariato meridionale. La diversità di questi individui li rende, in tal modo, di per sé irrimediabilmente ed ontologicamente devianti: questa differenza può essere compresa solo attraverso una sua riconduzione nella sfera della patologia, biologica ancor prima che sociale. E i segni esteriori della diversità diventano una sorta di stigma della devianza e della pericolosità di questi soggetti, da internare per salvaguardare la sicurezza dei consociati.
Le teorie sulla “devianza” mature E.Durkheim (La divisione del lavoro sociale, 1893) Esistenza di una dimensione intermedia fra individui e Stato: la società Crescente complessità e differenziazione nella divisione del lavoro: dalla solidarietà meccanica alla solidarietà organica Alla ricerca di un ordine morale: rapidità delle trasformazioni sociali ed anomia degli individui Come abbiamo visto in precedenza, nelle prime teorie della devianza l’attenzione si concentra solitamente sulle cause della devianza, considerata come fenomeno patologico che deve essere debellato per preservare l’ordine sociale da rischi di disgregazione. Manca, però, in tutte quelle teorie, la capacità di analizzare e produrre un modello complessivo di società, tale da potervi inscrivere il fenomeno deviante non come elemento contingente ed estraneo ad esso, ma come elemento strutturale di ogni formazione sociale. Al contrario, la prospettiva da cui partono tutte quelle teorie era fondamentalmente individualistica: era l’individuo in quanto tale a venir meno al patto che egli aveva sottoscritto con gli altri consociati (per ragioni collegate ad un uso distorto della sua razionalità o alla sua natura malvagia), ed era lo Stato, concepito in termini antropologici, a farsi carico della sua punizione per ristabilire le condizioni di sicurezza all’interno dei propri confini. Con il francese Emile Durkheim le teorie della devianza entrano in una prospettiva pienamente sociologica: il fenomeno deviante non può essere indagato partendo esclusivamente dall’azione individuale. Questo perché non si può pensare che la società si esaurisca in una somma di comportamenti individuali: esistono, in realtà, meccanismi sociali che operano indipendentemente o parallelamente alle azioni individuali, e che producono rilevanti conseguenze sulla vita dei vari individui. L’oggetto primario dell’interesse durkheimiano è, quindi, questa entità intermedia fra Stato e individuo: la società, i fenomeni prodotti al suo interno e le dinamiche attraverso le quali essi vengono prodotti. Prima di parlare della teoria della devianza durkheimiana, occorre dar conto, pertanto, del modello di società che egli descriveva e dell’ordine morale che lo sosteneva. Per Durkheim, ciò che caratterizza e differenzia la moderna società industriale dai passati modelli di società è la tendenza ad una crescente complessità e differenziazione nella divisione del lavoro; tale fenomeno, però, non sarebbe sostenuto dal puro e semplice appagamento di bisogni soggettivi, ma dalla necessaria creazione di una nuovo tipo di solidarietà sociale che lega gli individui alla comunità di appartenenza. Durkheim, in polemica con i teorici contrattualisti, non accettava che la costruzione dell’ordine nelle società industriali potesse risolversi in una semplice composizione pattizia degli interessi egoistici dei consociati: una volta che il fondamento religioso della società sembrava essere ormai entrato irrimediabilmente in crisi, occorreva che questi rapporti di scambio (necessari allo sviluppo economico) fossero puntellati da un sostrato morale che in qualche modo fondasse il legame di appartenenza alla società dei suoi diversi membri. In “La divisione del lavoro sociale” Durkheim distingue due tipi di solidarietà sociale, e lega ciascuna a due differenti modelli di società. C’è una solidarietà di tipo meccanico, propria delle società preindustriali, in cui i compiti degli individui sono sostanzialmente simili, e la divisione del lavoro è pressoché inesistente; e c’è, invece, una solidarietà organica, tipica delle società complesse, in cui i compiti sociali degli individui sono differenziati e altamente specializzati, ed in cui complessi sistemi normativi regolano i rapporti sociali. A questi due tipi di solidarietà (e di società) vengono associati due diversi sistemi giuridici di riferimento: il primo tipo di solidarietà è ben rappresentato dal diritto penale e da sanzioni repressive, che servono a creare e mantenere una “coscienza collettiva” unita attorno al nucleo dei valori di quella società. Al secondo tipo di solidarietà ben si attaglia, al contrario, il sistema del diritto civile e amministrativo, in cui le sanzioni sono di tipo restitutivo: infatti, per Durkheim, in una società evoluta il ricorso alla sanzione repressiva è sempre meno ricorrente, perché (tranne i rari casi di trasgressione di una norma fondamentale) gli individui sono legati all’organismo sociale da vincoli complessi, che rendono superfluo il ricorso alla punizione severa (Durkheim, 1900). La società industriale, però, non è un insieme organico perfetto e privo di contraddizioni: al contrario, Durkheim ammette che, nonostante l’esistenza di una solidarietà sociale di tipo organico, vi sono forme anormali di divisione del lavoro, che creano tensioni e conflitti irrisolti. Soprattutto, vi è una costante ed inevitabile discrasia temporale tra le rapide trasformazioni sociali indotte dalla crescente divisione del lavoro tipica di un sistema capitalistico, e la costruzione di un sistema di regole individuali appropriato per il nuovo tipo di società. È una situazione di inadeguatezza morale e normativa, che Durkheim esprime con il termine anomia, e che provoca il progressivo distacco dell’individuo da quella rete relazionale che salvaguarda la sua permanenza all’interno di un ordine sociale ben definito. Tanto più rapido è lo sviluppo economico (e le trasformazioni di vita legate ad esso), tanto più grave sarà questo squilibrio (Durkheim, 1893). Per Durkheim questa situazione di anomia, presente nelle complesse società industriali, è alla base di una serie di fatti sociali, ossia di fenomeni che si verificano all’interno delle formazioni sociali (assumendo una consistenza quasi reificata nel pensiero durkheimiano) e che presentano una loro rilevanza nella formazione delle relazioni fra individui. Sono proprio questi fatti sociali a costituire, secondo l’autore francese, l’oggetto specifico delle analisi della neonata disciplina sociologica. I fatti sociali, nell’accezione di Durkheim, sono realtà caratterizzate dall’esteriorità e dalla coercizione: essi, infatti, esistono al di fuori delle coscienze individuali e s’impongono ad esse in modo che non li si possa ignorare, se non andando incontro a sanzioni, di tipo giuridico o sociale, che riaffermano la loro esistenza.
Le teorie sulla “devianza” mature E.Durkheim (Le regole del metodo sociologico, 1895) La devianza come fatto sociale normale: non elemento patologico, ma “parte integrante di ogni società sana” La funzione della devianza: definizione dei confini morali di una formazione sociale e riaffermazione della coesione di gruppo attraverso la reazione sociale alla devianza e la conformità alla norma La funzione della pena: esemplarità per la riaffermazione dei confini morali della società e della solidarietà organica Lo Stato democratico come grande “razionalizzatore”: attraverso la comunicazione fra Stato e cittadini, si alimenta la diffusione della solidarietà sociale e della coesione Lo stesso meccanismo caratterizzerebbe, secondo Durkheim, il fenomeno della criminalità. Parlando delle “regole relative alla distinzione fra normale e patologico” (Durkheim, “Le regole del metodo sociologico”, 1895: pp. 59-79), egli affermò così che, malgrado l’opinione diffusa che la criminalità fosse un fenomeno patologico da debellare, essa al contrario era un fatto sociale normale, “parte integrante di ogni società sana”. Non solo essa era sempre esistita in tutte le società di cui si ha conoscenza, ma sarebbe continuata ad esistere, paradossalmente, anche in una “società di santi”, che fosse riuscita a debellare ogni forma di criminalità definita come tale. Questo perché la criminalità adempie ad un’importante funzione sociale: quella di mantenere intatta la coesione sociale di un gruppo. Attraverso la definizione dei fenomeni criminali, una determinata formazione sociale delimita (a contrario) un’area morale nella quale la maggior parte dei consociati riesce a riconoscersi: tale area morale è alla base del loro senso di appartenenza al gruppo e della loro coesione sociale. La devianza non attiene, quindi, alla definizione di ciò che è giusto o sbagliato in assoluto: i contenuti di tale distinzione sono, infatti, storicamente e socialmente relativi (nella “società di santi” cui s’accennava supra, i fatti devianti coincideranno probabilmente con mere infrazioni all’etichetta). La devianza svolge un’utile ed insostituibile funzione sociale nella misura in cui afferma con evidenza tale distinzione, stabilisce i confini morali e normativi di una società e chiama gli appartenenti al gruppo sociale a conformarsi a tale distinzione, riaffermando la propria identità di gruppo e la propria permanenza all’interno di quei confini morali, attraverso la reazione sociale alla devianza. Non solo: in determinate situazioni sarà proprio il comportamento deviante ad anticipare i futuri confini morali di una società. La devianza può, infatti, produrre innovazione, laddove l’adesione a comportamenti illegittimi prefiguri uno spostamento dei confini fra lecito e illecito, in base al quale atteggiamenti, considerati devianti in un dato momento, diventano successivamente legittimi. Questo discorso sarà poi ripreso e sviluppato nel corso del Novecento da Kai Erikson (cfr. § 1.1.6). Se la devianza è un fenomeno funzionale alla fissazione dei confini morali di una formazione sociale, lo stesso strumento penale va visto in quest’ottica: esso non sarà importante per la sua valenza dissuasiva e rieducativa (come in Beccaria) o per l’allontanamento degli individui pericolosi della società (come per gli appartenenti alla Scuola Positiva), ma per la sua esemplarità. La pena, più che ai soggetti ai quali viene imposta, è utile per il resto dei consociati, poiché costituisce un’utile rappresentazione della sanzione che la società infligge a chi si pone al di fuori dei suoi confini morali. La pena non serve – o non serve che secondariamente – a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori: da questo duplice punto di vista è giustamente dubbia, e in ogni caso mediocre. La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità. Categoricamente così negata [dal reato], la coscienza comune perderebbe necessariamente parte della sua energia se una reazione emozionale della comunità non intervenisse per compensare tale perdita: il rilassamento della solidarietà sociale sarebbe l’inevitabile risultato. […] Questo dolore non rappresenta una crudeltà gratuita, ma attesta che i sentimenti collettivi sono sempre collettivi, che la comunione degli spiriti nella medesima fede sussiste interamente, e ripara in tal modo al male che il reato ha recato alla società. […] Possiamo dire senza cadere nel paradosso che il castigo è destinato soprattutto ad agire sulle persone oneste; infatti, poiché serve a guarire le ferite inferte ai sentimenti collettivi, può adempiere questa funzione soltanto dove questi sentimenti esistono, e nella misura in cui sono vivi. (Durkheim, 1893: pp. 125-126). È evidente che con Durkheim non ci troviamo più di fronte ad un rapporto fra detentori del potere e consociati basato sulla pura coercizione, su un meccanismo di controllo di tipo passivo-reattivo. L’attenzione si sposta, da un lato, sulla definizione di ciò che è deviante o meno, che è variabile storicamente e geograficamente a seconda di quali siano i sentimenti collettivi che formano la comunione degli spiriti in una data società; dall’altro lato, si concentra sulle potenzialità coesive della reazione sociale a tali forme di devianza, attraverso la rappresentazione pubblica del castigo. Una funzione esemplare della pena che introduce una sorta di controllo sociale attivo: un controllo basato sulla chiara segnalazione ai consociati dei confini giuridico-morali del gruppo e sul loro sforzo di adesione a tali confini, attraverso la riaffermazione di quella “coscienza collettiva” minacciata dalla commissione dell’evento deviante. Il discorso di Emile Durkheim si arresta a queste considerazioni generali e di principio; tuttavia, il suo contributo resta determinante per le successive teorie sulla devianza: con lui si affaccia l’idea della superfluità di ogni discorso sulle componenti eziologiche (a livello individuale o collettivo) del crimine e/o della devianza. La questione su cui soffermarsi non saranno, perciò, le ragioni economiche, biologiche o culturali della devianza, ma il ruolo che essa assume nel mantenimento dell’ordine sociale, e le politiche con cui in ogni società tale fenomeno necessario viene costantemente definito e riprodotto. Il controllo sociale non è più un semplice attributo del Principe, di un potere centrale più o meno autoritario (impersonificato nel concetto di Stato): è una caratteristica immanente alla società e reso concreto da una serie di organi sociali che si autogestiscono in vista della creazione, del mantenimento e della riproduzione di quella solidarietà organica propria della società moderna. La criminalità non è un fenomeno patologico, ma un elemento strutturale di una società in cui le agenzie deputate al controllo sociale definiscono in termini devianti determinati atti e comportamenti, al fine di mantenere l’ordine sociale.
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