La presentazione è in caricamento. Aspetta per favore

La presentazione è in caricamento. Aspetta per favore

tornando indietro nel tempo

Presentazioni simili


Presentazione sul tema: "tornando indietro nel tempo"— Transcript della presentazione:

1 tornando indietro nel tempo
Eneide:

2 …troiae qui primus ab oris
Arma virumque cano… …troiae qui primus ab oris 2

3 Virgilio: l’Omero dei Romani
Augusto aveva chiesto un poema che celebrasse la gens dalla quale proveniva e che sancisse con un’investitura divina la scelta istituzionale dell’impero. Virgilio accolse la richiesta mettendosi in competizione direttamente con Omero e sul fronte latino con Ennio, regalando ai romani il loro epos nazionale e insieme l’enciclopedia dei valori in cui ciascun romano si sarebbe dovuto riconoscere. Virgilio fu impegnato nella composizione dell’Eneide ininterrottamente per quindici anni. Via via che l’opera prendeva forma, veniva letta agli amici e anche alla corte di Augusto, suscitando ammirazione. È noto l’episodio della sorella dell’imperatore, Ottavia, che svenne per l’emozione all’ascolto dei versi che riguardavano la morte di suo figlio Marcello. La tradizione vuole che Virgilio in punto di morte chiedesse che il poema venisse dato alle fiamme perché lo sentiva non rifinito, ma che Augusto contravvenisse al desiderio, affidandone l’edizione a Vario Rufo e Plozio Tucca. Il successo e l’emozione con cui fu accolta l’Eneide furono subito enormi, essa divenne un libro fondante della cultura latina, entrò nelle scuole come modello per i giovani romani. Virgilio diventa così l’”Omero” dei Romani: nella capacità di realizzare un poema epico con la grandiosità dell’impianto propria del genere, in grado di contenere nella propria estensione un affresco di avventure per mare e per terra, una rete di personaggi con le loro emozioni, una “storia” in senso forte, di uomini, di eroi e di dei, che potesse catturare l’attenzione dei lettori con il piacere del racconto e nello stesso tempo diventare per loro il punto di riferimento etico-morale, componendo attraverso il modo di agire del suo protagonista una sorta di codice di comportamento universale per i Romani.

4 Struttura e trama dell’opera
Il poema in esametri è suddiviso in XII libri e narra le vicende di Enea, eroe troiano figlio di Venere e Anchise, scampato alla distruzione di Troia e giunto per volere del Fato alle foci del Tevere per dar origine alla stirpe romana e alla gens lulia. La narrazione si divide in due parti: la prima (libri I-VI) racconta le peregrinazioni di Enea e dei compagni fino all'arrivo nel Lazio, la seconda (libri VII-XII) le lotte per assicurarsi il possesso della nuova patria assegnata dagli dei. I- Una tempesta scatenata da Eolo, istigato da Giunone ostile ai Troiani, sorprende la flotta di Enea in navigazione dalla Sicilia verso l'Italia. L'intervento di Poseidone e di Venere consente a Enea di approdare presso Cartagine. Didone, regina e fondatrice della città, accoglie benevolmente i profughi Troiani e offre loro un banchetto.  II- Durante il banchetto Enea racconta le sue vicende: l'inganno del cavallo di legno che consente ai Greci di entrare entro le mura di Troia e incendiare e distruggere la città; la fuga nella notte con il vecchio padre Anchise e il figlioletto lulo; la partenza in cerca di una nuova patria. III- Prosegue il racconto di Enea: i Troiani arrivano in Tracia, dove conoscono la sorte di Polidoro, ultimo figlio di Priamo; approdano a Delo, dove l'oracolo da un responso sulla nuova sede, che dapprima si crede essere Creta; in seguito si scoprirà che si tratta di Esperia; in Sicilia sfuggono il pericolo di Scilla e Cariddi e di Polifemo, e qui muore anche Anchise. Salpati dalla Sicilia li assale la tempesta e naufraghi sulle spiagge libiche vengono accolti dai Cartaginesi. Termina così il lungo racconto. IV- Didone s'innamora di Enea, ma Giove invia Mercurio, che richiama l’eroe alla sua missione. Enea obbedisce e parte, nonostante le preghiere di Didone, che per la disperazione s'uccide, dopo oscure maledizioni e previsioni di futura vendetta.

5 V- Enea naviga verso l'Italia
V- Enea naviga verso l'Italia. Si ferma in Sicilia dove celebra i ludi in memoria di Anchise. Enea è convinto in sogno dal padre a lasciare l’isola, ma prima fonda Segesta e sul monte innalza un tempio a Venere. Poi riprende la navigazione, durante la quale cade in mare il nocchiero Palinuro. VI - Giunto a Cuma Enea, dopo aver compiuto i riti prescritti, è guidato dalla Sibilla nell'Averno. Qui incontra Anchise che gli indica presso il fiume Lete le anime che purificate incarneranno i discendenti di Enea, da Remolo a Marcello, giovanissimo nipote di Augusto. Tornato dai compagni Enea è pronto a ripartire. VII- Nel Lazio Enea è accolto dal re Latino che gli promette in sposa la figlia Lavinia. Giunone manda la furia Aletto a suscitare l’ira di Amata, moglie di Latino, che s'oppone e vuole sia mantenuta la promessa di nozze fatta a Turno, re dei Rutuli. Scoppia la guerra. Rassegna dei guerrieri latini e italici, chiusa dalla vergine guerriera Camilla, fra le schiere dei Volsci. VIII- Enea risale il Tevere per cercare alleati. Giunge da Evandro, re di un'umile colonia di Arcadi presso il Palatino, edificata negli stessi luoghi su cui sorgerà Roma. Evandro manda con Enea il figlio Pallante e cento cavalieri. Venere porta al figlio le armi fabbricate da Vulcano. IX- Turno attacca i troiani. Eurialo e Niso, audaci guerrieri di Enea, vengono uccisi mentre tentano una pericolosa azione nel campo nemico. X- Nel concilio degli dei Giove dichiara che nessuno, neppure lui stesso, può opporsi al destino. Arriva Enea con gli alleati e la battaglia si fa sempre più aspra. Cadono Pallante ucciso da Turno e Mezenzio con il figlio Lauso, uccisi da Enea. XI- Una tregua permette la sepoltura dei morti e le spoglie di Pallante vengono restituite a Evandro. Si torna a combattere e muore eroicamente Camilla. I Troiani hanno la meglio. Turno decide di sfidare Enea a duello. XII- Prima che il duello cominci Giunone provoca un tumulto nel quale Enea resta ferito. Tratto in salvo da Venere e guarito e torna a combattere. I Troiani vittoriosi s'avvicinano alla città di Laurento e la regina Amata si toglie la vita. Enea affronta Turno in duello e l'uccide.

6

7 Il Fatum Al centro della visione del soprannaturale, Virgilio pone l’idea di un ordine immutabile, richiamando l’idea del Fatum: l’insieme di leggi inalterabili che regola gli eventi del mondo e nessuno può opporvisi, neppure gli dei, nonostante tentino di ritardarli in favore dei loro protetti. L’evento fondamentale che dovrà verificarsi è la fondazione di Roma. A Roma la parola che indica il destino, Fatum, deriva dal verbo fari, che indica l’azione del dire, veniva usato in origine per definire il responso degli indovini. Questo verbo era messo in bocca a Giove, ciò che è “detto” da lui diveniva immediatamente destino per gli uomini. È possibile radunare tutte le figure del poema in due gruppi: Collaboratori del Fatum (Enea, Anchise, Ascanio, i compagni troiani, Evandro, Pallante, gli alleati italici). Forze anti-Fato (Didone, Turno, Amata, Camilla). Questi sono destinati a una sconfitta poiché agiscono secondo il furor, incarnazione delle forze irrazionali e del caos, sconfitto dall’era di pace che Giove promette si realizzerà un giorno sulla Terra e il cui compimento era prossimo attraverso l’opera di Ottaviano. Tutti i personaggi sono accomunati dalla sofferenza. Il momento più acuto della riflessione virgiliana su tale tema si ha in presenza delle morti giovanili. Nell’epos virgiliano è assente la gioia feroce del vincitore, in cui soffre non solo chi è vinto e muore, ma anche chi vince e uccide.

8 Enea, eroe della pietas A una nuova idea di epos, lontana da quella della tradizione omerica, corrisponde un nuovo tipo di eroe, non più esaltato per la virtus militare, per il coraggio con cui combatte, per la spietata ferocia con cui abbatte i nemici. A rendere grande questo nuovo eroe sono soltanto le doti interiori; il combattimento più duro e faticoso che deve affrontare è quello indirizzato all’esercizio di una virtus morale, in nome del bene l’individuo deve essere pronto al sacrificio di sé e capace di sopportare il dolore. Nell’Eneide la pietas è virtù specifica di Enea, che lo contraddistingue non solo all’interno del poema, ma anche nel rapporto con gli eroi protagonisti di altre opere epiche greche e latine. Fin dal proemio egli è definito come pius e quando Didone, disperata perché Enea l’ha abbandonata, vorrà gettare un’ombra su di lui definirà impia (empie) le sue azioni. La pietas di Enea consiste nel suo amore verso la patria, il padre Anchise, la moglie Creusa, il figlio Ascanio, nel suo costante atteggiamento di venerazione per gli dei e di mettersi costantemente in ascolto del potere divino, riprogrammando la sua vita alla luce di quanto vuole il fato. Enea sembra aver capito che la sua esistenza ha senso solo a partire dal compimento della missione affidatagli dalla divinità, confidando in questo, egli è pronto a ogni sacrificio e rinuncia. Enea è definito, anche, un eroe “passivo”, una personalità fredda e distaccata e perciò artisticamente mal riuscito. In realtà, meglio si potrebbe parlare di eroe riflessivo e pensoso. Virgilio è stato in grado di trasferire nella sua opera la visione del mondo della società a lui contemporanea, consegnando alla sua comunità un’enciclopedia di valori: la pietas, la clementia, l’amicitia e l’humanitas.

9 quando le convenzioni superano l’amore
Il mito di Didone: quando le convenzioni superano l’amore

10 Didone: una regina potente, una donna fragile
Di questo personaggio, che ondeggia tra storia e leggenda, si sarebbe persa ogni traccia o ricordo, se non avesse avuto un cantore d’eccezione come Virgilio. Grazie a lui, poeti, scrittori, pittori e musicisti l’hanno resa immortale. Didone, la mitica fondatrice di Cartagine, che il mito più antico chiama Elissa, è un personaggio epico e quasi virile. E’ una donna energica, intelligente ed  astuta. Virgilio fa di lei l’eroina di un dramma amoroso orchestrato e diretto dal Fato. Ma chi era veramente la nostra eroina? La Elissa, cioè  Allizah la Consacrata del mito più antico oppure la Didone, cioè la Virago del mito virgiliano? Sia storia oppure leggenda, la Elissa-Didone dell’antico mito era una donna dignitosa, forte e astuta. Primogenita di Belo, re di Tiro, alla morte del padre ne ereditò il trono assieme al fratello Pigmalione. Per nulla disposto a dividere il trono con la sorella, Pigmalione fece uccidere Sicheo, sposo di lei, e prese il potere da solo. Per evitare una guerra civile la regina decise di  lasciare Tiro ed iniziare il suo peregrinare nel Mediterraneo in cerca di una nuova patria. Ma subito la bella Elissa dette prova di quanto ingegno fosse dotata.

11 Per lasciare Tiro aveva bisogno di navi e lei non ne disponeva
Per lasciare Tiro aveva bisogno di navi e lei non ne disponeva. Allora montò un’ astuta messinscena per raggirare il fratello. Gli chiese un incontro per discutere e trovare un accordo e Pigmalione cadde nel tranello per la cupidigia delle ricchezze della sorella. Egli inviò immediatamente uomini e navi a prelevarla, ma la notte stessa in cui le navi approdarono nel porto, Elissa fece caricare di nascosto a bordo tutte le sue ricchezze, lasciando in bella mostra sul ponte una gran quantità di sacchi contenenti sabbia, facendo credere che l’oro fosse là dentro. Appena le navi ebbero raggiunto il mare aperto, la Regina ordinò ai suoi uomini di gettare nelle acque quell’ipotetica ricchezza gridando: “… meglio in mare che nelle mani infide ed indegne di Pigmalione.” In realtà si trattava solo dei sacchi pieni di sabbia. Timorosi della reazione del loro re, gli uomini di Pigmalione preferirono mettersi al servizio della regina e guidarono le navi in direzione dell’isola più vicina. Dopo lungo peregrinare, le navi raggiunsero le coste della Libia ed ancora una volta la regina pose in atto un piano assai ingegnoso.

12 Dopo lungo peregrinare, le navi raggiunsero le coste della Libia ed ancora una volta la regina pose in atto un piano assai ingegnoso: ottenne dal principe Jarba un terreno su cui edificare la sua casa “grande quanto ne può contenere una pelle di bue. Jarba accettò ed Elissa fece tagliare in striscioline finissime la pelle di bue e con esse tracciò un perimetro che conteneva tutta la collina e la campagna circostante. Su quel terreno la Regina edificò la sua città: Cartagine o  Birse, che in greco significa “Pelle di bue” e in fenicio vuol dire “Collina”. La regina di Cartagine attirò immediatamente le mire di molti pretendenti. Primo fra tutti, quelle dello stesso principe Jarba, il quale giunse a minacciarla di muoverle guerra se non l’avesse accettato come sposo. Elissa finse di accondiscendere alle richieste e chiese ed ottenne di aspettare la fine del periodo di vedovanza. Quando giunse il giorno della scelta di uno sposo, la regina, ancora innamorata del marito e fedele al giuramento di non sostituirlo con un altro uomo si trafisse con una spada. Il tardo mito, però, la vuole identificata con la donna che seguì Enea profugo a Cartagine dopo la fuga da Troia e che, abbandonata, si uccise e si gettò sul rogo lanciando imprecazioni. Plutarco per primo respinse questa versione dei fatti resi da Virgilio, insostenibile sia per il carattere della donna che per  inesattezza cronologica. Non solo Virgilio, ma anche Ovidio ne fa un personaggio da tragica-commedia.

13 La Didone di Ovidio è una “relicta”
La Didone di Ovidio è una “relicta”. E’ una  donna che piange e si dispera; chiede ed implora. Il personaggio non ci appare eroico come nell’antico mito, ma vinto e un po’ patetico: non è più quello di una regina gloriosa, ma di una donna fragile sopraffatta dalla passione ed accecata da un dolore senza tregua né espedienti: neppure quello abile, ma inutile, di un presunto figlio in arrivo per trattenere l’amato, un ridicolo espediente da “piccola” donna. Infine Didone si uccide con la spada che lo stesso Enea le aveva donato e diventa immortale solo per essere stata una donna, ma soprattutto una donna  fragile, dopo essere  stata una regina gloriosa. È, dunque, un personaggio che diventa immortale grazie alla propria sconfitta. Ma perché? Perché Virgilio era romano e Didone, invece, cartaginese. E perché Roma e Cartagine erano eterne nemiche. Ma anche perché la morte di questa regina doveva essere il primo segno della vittoria dei romani sui cartaginesi. E non doveva essere la “storia” dello scontro fra le due potenze, bensì la “leggenda d’amore” fra due personaggi mitici finita in dramma. Doveva essere così, perché  l’EPILOGO della “Leggenda” di Didone, doveva costituire il PROLOGO della “Storia” di Roma.

14 Didone, cieca d’amore Siamo all’inizio del IV libro dell’Eneide: Virgilio dipinge la regale Didone come una donna già in preda al sentimento, un’onda quasi sconosciuta che non sembra governare, un fuoco che lentamente prende corpo nel suo cuore e che sarà suo “compagno” per molto tempo. “Ma la regina ormai tormentata da grave pena, alimenta nelle vene la ferita ed è rosa da cieco fuoco” Enea ha appena terminato il racconto delle sue avventure e Didone ha già impresse nel suo cuore le parole e il volto dell’eroe. L’agitazione la tormenta e la speranza ricade nell’appellarsi ad Aurora, la sola dea che è in grado di cacciare le ombre dell’inquietudine amorosa. Emergono i sintomi della patologia d’amore: la metafora della ferita e della fiamma si richiama alla tradizionale rappresentazione dell’amore come vera passione patologica. Disperata, Didone si rivolge alla sorella Anna, svelandole i dubbi di questa sconosciuta fiamma, giurando che non avrebbe violato la fede promessa al morto Sicheo. “Solo costui piegò i sentimenti e scosse il cuore che vacilla. Conosco i segni della antica fiamma”. La regina è inconsapevolmente già innamorata, ma divisa tra opposte tensioni: da una parte il ricordo e la fedeltà giurata al marito defunto, dall’altra la stirpe troiana di Enea. Ma l’eroe amato deve necessariamente seguire il Destino, forza superiore che lo porterà ad abbandonare Cartagine e dirigersi verso il Lazio per fondare Roma. Nel frattempo però Giunione e Venere scatenano un temporale misto a grandine. La regina ed il suo amato sono costretti a rifugiarsi nella stessa spelonca e a “…tenersi caldi nel lusso, immemori dei regni, e rapiti da turpe passione”. L’istinto femminile non sbaglia mai: Didone avverte qualcosa di sospetto. “Ma la regina presentì le trame (chi potrebbe ingannare uno che ama?) e captò prima di tutti le mosse future, lei che temeva anche quando tutto era tranquillo”.

15 Enea è stato infatti richiamato al suo dovere dal dio Mercurio, messaggero di Giove. E’ ormai deciso a lasciare Cartagine e cerca il momento opportuno per parlare a Didone, la quale è informata successivamente dalle voci che la flotta è già allestita e pronta a salpare. Fuori di sé e accesa dal furore erra per la città intera. Avverte il senso della colpa, lo “sbaglio” amoroso: a quell’ospite “strano” ha dato tutto, ha rinunciato alla fama divenendo ostile persino al suo popolo, ha dimenticato i suoi doveri e infine ha dimenticato se stessa. Scissa tra follia, delusione e smarrimento affronta per prima Enea, cercando di distoglierlo dalla sua missione. Le sue parole sono vuote e non hanno potere, poiché nulla può contro il Destino. “Forse fuggi da me? Per queste lacrime, per la tua destra, per la nostra unione, per il nostro matrimonio appena iniziato, se ho qualche merito verso di te, o se hai avuto qualche dolcezza verso di me, io ti prego, abbi pietà della casa che crolla e deponi questa tua idea, se nel tuo pensiero c’è ancora posto per le preghiere”. “Almeno se prima della fuga mi fosse nato da te un figlio, se un piccolo Enea mi giocasse nella reggia, che ti ricordasse nel volto, non sembrerei a me stessa del tutto delusa e abbandonata!” Più che un colloquio tra amanti sembra un scontro tra due punti di vista inconciliabili. Di fronte alle parole impulsive di Didone, Enea appare misurato e governato da dominio razionale: pur riconoscendo i meriti della regina, risponde alle accuse con il tono del tipico “eroe fondatore” che sa sottrarsi a un rapporto esclusivo per restituirsi alla comunità e alla missione cui appartiene. Un freddo tecnicismo giuridico introduce la sua difesa: non c’è stato nessun impegno matrimoniale da parte sua. “Riguardo a ciò dirò poco. Né io sperai di nascondere con frode questa fuga, non credere, né mai ho alzato le fiaccole nuziali o venni a tali patti”.

16 “Ora Apollo Grinèo e gli oracoli di Licia mi han comandato di raggiungere l’Italia; questo è il mio amore, questa la mia patria”. “Smetti di incendiare me e te coi tuoi pianti: inseguo l’Italia non spontaneamente”. Didone, vinta dal pessimismo e dallo stesso fuoco amoroso sembra non voler più ascoltare le possibili risposte dell’eroe, ora definito “malvagio”. “Vai, insegui pure coi venti l’Italia, cerca pure i regni attraverso le onde. Io Spero davvero che in mezzo agli scogli, se le preghiere hanno ancora potere, tu berrai supplizi e spesso chiamerai per nome Didone! Assente ti inseguirò con neri fuochi e, quando la morte separerà le membra dalla mia anima, sarò ombra in tutti i luoghi. Pagherai, malvagio, il fio”. Nella notte Enea è costretto ad affrettarsi a partire. Alla vista delle vele spiegate Didone inizia a battere le mani sul petto e di nuovo parla al suo cuore, in preda alla follia e ad un amore devastante. L’insania le sta oscurando la ragione: “Che dico? O dove sono? Quale pazzia è in grado di cambiare la mente? “ Didone vede crollare tutte le sue aspettative: è colpita dalle parole gelide dell’amato e riconosce che parole identiche (ad esempio “amor”) vengono caricate dall’uno e dall’altro di significati diversi, inconciliabili. Ognuno ha infatti la sua verità. Rimangono le fiamme e la ferita che inizialmente divorò la regina. Ma questo dolore deve essere spezzato e Didone decide di morire: il vulnus d’amore si concretizza nella ferita reale che lei stessa si procura con la spada, dono di Enea, e le fiamme della passione cedono il posto alle fiamme del rogo funebre.

17 I capelli di Didone Virgilio dice che Didone non moriva per volere del Fato, ma prematuramente, prima che Proserpina avesse spezzato il biondo capello della regina. “Virgilio instaura un rapporto diretto tra il crinis e il fatum della regina: come se la “porzione di vita” assegnata alla persona fosse strettamente legata al momento in cui il “fatale” capello viene reciso. Infatti, appena di seguito al taglio di questo capello, il calore del corpo vola via e la vita si disperde nel vento. Il capello è la vita di Didone. È il luogo in cui la sua vita si condensa, uno di quei life token, sedi privilegiate in cui si colloca la vita o l’anima di una persona (D.Puliga). In questo senso, è possibile dire che Virgilio si rifà al pensiero dell’Orfismo, come già accaduto nelle Georgiche: si tratta di un culto che individuava nell’uomo la presenza dell’anima, un principio fondamentale che la spinge ad agire durante la vita e a sopravvivere dopo la morte in un luogo di beatitudine.

18 Quanto conta l’amore nella vita, e perché molto spesso ci porta a prendere decisioni drastiche?
- L’amore, in tutte le sue forme, che sia rivolto verso altre persone o verso cose o verso il mondo, gioca un ruolo fondamentale nell’esistenza umana perché spesso è un atto creativo, che ci eleva verso un ideale. Spesso si è posseduti dall’amore e il raziocinio viene messo da parte, ignorato e allora possono essere prese delle decisioni drastiche che potrebbero rivelarsi utili, buone a posteriori oppure possono annullarci. Essendo l’amore un fenomeno emotivo esso è fuori dal controllo della ragione, o meglio non si è abituati a controllare e gestire le emozioni perché esse nascono spontaneamente e hanno delle importanti funzioni di sopravvivenza. Quanto i pregiudizi sociali possono influenzare i nostri pensieri, soprattutto nell’amore? Il pregiudizio è un giudizio a priori, appunto, non fondato su dati di realtà. Esso permette, a volte, di orientarsi nell’immensa vastità dell’universo, ma si paga un prezzo se non si è capaci di ridimensionarli o di abbandonarli nel momento in cui il confronto con la realtà non regge più. L’uomo è un essere relazionale, ha bisogno degli altri e si orienta nel proprio esistere anche tenendo conto dei pareri e dei giudizi altrui. Il pregiudizio, allora, va a influenzare l’esistenza se non si è abbastanza forti da respingerlo. In un campo irrazionale come l’amore trova naturalmente terreno fertile, essendo la ragione assopita e assorbita e non capace di valutare con attenzione.

19 Cosa scatta nella mente di chi è abbandonato?
L’abbandono è qualcosa che in tutte le fasi di vita viene temuto e, se possibile, evitato. Essere abbandonati è un’esperienza traumatica e come ogni trauma ha bisogno del suo tempo per essere elaborato e superato e non sempre ci si riesce. All’abbandono si può reagire con disperazione e autocommiserazione (“me lo sono meritato!”, “la mia vita non ha più senso!”), con rabbia verso chi abbandona (“cercherò vendetta!”) o con sollievo (“finalmente sono libero!”). Le reazioni a un abbandono, quindi, possono essere varie e diversificate, tutto dipende dalla propria personalità, dal sesso, dall’età, dallo stile di vita. Quali reazioni nella società odierna avrebbe avuto Didone? - Ricollegandosi a quanto detto sopra, è difficile dire quali reazioni potrebbe manifestare Didone nel mondo attuale… Bisognerebbe prima conoscere a fondo la sua psiche per poter prevedere la sua reazione a un abbandono. Didone essendo una donna passionale probabilmente anche nel mondo attuale avrebbe reagito con rabbia e disperazione. Oppure avrebbe preso il destino nelle proprie mani, si sarebbe iscritta al “Circolo delle Femministe Sedotte e Abbandonate”, avrebbe consolidato la propria personalità e avrebbe iniziato a odiare gli uomini. O magari si sarebbe consolata con un altro, dimenticando in fretta Enea.

20 Il furor di Didone abbandonata
<< Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? Nec te nec noster amor nec te data dextera quondam nec moritura tenet crudeli funere Dido? >> Si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam dulce meum,miserere domus labentis et istam , oro,si quis adhuc precibus locus, exue mentem.

21 Le ultime parole di Didone
Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustra tuque harum interpres curarum et conscia Iuno, nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes, et Dirae ultrices et di morientis Elissae, accipite haec meritumque malis advertite numen et nostras audite preces. Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor, qui face Dardanios ferroque sequare colonos, nunc,olim,quocumque dabunt se tempore vires. Dixerat , atque illam madia inter talia ferro conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore spumantem sparsaque manus.

22 Didone negli Inferi (…) Quam Troius heros
ut primum iuxta stetit agnovitque per umbras obscuram, qualem primo qui surgere mense aut videt aut vidisse putat per nubila lunam, demisit lacrimas dulcique adfatus amore est: << Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo venerat exstinctam, ferroque extrema secutam?>> << Quem fugis? Extremum fato quod te ad loquor hoc est>>.

23 Didone nella letteratura italiana

24 Canto V Dante e Virgilio lasciano il primo cerchio dell’inferno per entrare nel secondo, quello dei lussuriosi. Alla sua guardia sta Minosse che, con aspetto minaccioso, ha il compito di assegnare alle anime che passano il luogo della pena eterna. Il giudice infernale, vedendo che Dante è ancora vivo e non è in peccato, lo avverte di non fidarsi della strada che percorrerà e neppure di Virgilio come guida. Quest’ultimo però riesce a calmarlo, grazie ad una frase già usata con Caronte. I due poeti entrano nel luogo dove sono puniti i lussuriosi, anime che in vita sono state legate solamente ai piaceri carnali, sono ora travolti dalla bufera che castiga l’insana passione. Una schiera di anime incuriosisce Dante che chiede notizie al maestro. Virgilio prontamente risponde, ed elenca alcuni di questi lussuriosi, morti in modo cruento. Indica donne e uomini, protagonisti del passato mitologico e storico: Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano. V. 62 L’altra è colei che s’ancise amorosa, L’altra è colei che si suicidò per amore, 63 e ruppe fede al cener di Sicheo; e non tenne fede alla memoria del marito Sicheo Nel canto Dante non cita per nome Didone, ma la descrive mediante una perifrasi che ne indica i peccati e il nome del marito. Didone, infatti, legandosi ad Enea si rese colpevole del tradimento della memoria del marito morto.

25 La Didone “ermetica” di Ungaretti
Il topos letterario della donna abbandonata, di cui Didone fa parte, ha viaggiato nella letteratura fino ad Ungaretti in età moderna. Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto da genitori lucchesi; trascorre in Africa il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza. Nel 1912 si trasferisce a Parigi, ove prende contatto con alcuni importanti scrittori italiani. Tornato in Italia nel ‘14, parte per la guerra: un'esperienza, destinata a riverberarsi con forza nei suoi componimenti. Nel 1917 esce la sua prima raccolta poetica, "Il porto sepolto”; segue, nel 1919, "Allegria di naufragi“, nel 1933 pubblica "Sentimento del tempo", forse l'opera sua più conosciuta. Nel 1936 si stabilisce in Brasile, rivestendo per alcuni anni il ruolo di docente universitario, e nel 1939, a nove anni di età, gli muore il figlio Antonietto: da questa dolorosa esperienza, nasceranno le liriche de "Il dolore". In seguito alla sua scomparsa, avvenuta a Milano nel 1970, viene data alle stampe la raccolta postuma "Saggi e interventi”. La storia di Didone ispirò Giuseppe Ungaretti, che compose diciannove brevi Cori descrittivi di stati d'animo di Didone, compresi nell'opera incompiuta La Terra promessa.

26 idone. Ora il vento si è fatto silenzioso e silenzioso il mare; Tutto tace; ma grido. Il grido,sola, del mio cuore. Grido d’amore, grido di vergogna. Del mio cuore che brucia da quando ti mirai e m’hai guardata. E più non sono che un oggetto debole. Grido e brucia il mio cuore senza Pace. Da quando più non sono. Se non cosa in rovina e abbandonata. G. Ungaretti

27 Pietro Metastasio “Didone abbandonata”
Pietro Metastasio, pseudonimo di Pietro Trapassi, è stato un poeta, librettista, drammaturgo e sacerdote italiano. È considerato il riformatore del melodramma italiano; nacque a Roma nel 1698 da una modesta famiglia borghese. Il suo precoce talento poetico fu notato dal Gravina che lo istruì nelle materie classiche, successivamente cominciò a studiare legge e prese gli ordini minori, abbandonando la poesia. Nel 1718 fu a Napoli per praticare la professione di avvocato; qui riprese a scrivere versi e melodrammi. Nel 1730 fu chiamato a Vienna come successore di Apostolo Zeno sotto la protezione dell’imperatrice Maria Teresa d'Austria, la cui morte, avvenuta nel 1780, gettò nel completo sconforto l'anziano poeta. I suoi ultimi anni furono molto malinconici: nonostante gli entusiasti tributi di cui era continuo oggetto, Metastasio si lamentava di avere ormai perso la sua vena poetica. Si spense a Vienna nel 1782. Metastasio fu il miglior poeta dell'Arcadia e uno dei maggiori riformatori del melodramma. La Didone abbandonata, il primo melodramma scritto da Pietro Metastasio, andata in scena a Napoli nel 1724, ebbe grande successo e fu musicata decine di volte da compositori diversi, tra cui alcuni dei maggiori dell'epoca.

28 Didone abbandonata Enea: Gianmarco Midulla Didone: Luana Di Rosa
ENEA: Vuole il destino (mi sento morir)  ch'io t'abbandoni. DIDONE: M'abbandoni! Perché? ENEA: Il dover, l'onor, la fama alle sponde d'Italia oggi mi chiama. La mia lunga dimora pur troppo degli dèi mosse lo sdegno. DIDONE: E così fin ad ora, perfido mi celasti il tuo disegno? ENEA: Fu pietà. Fin ch'io viva, o Didone, dolce memoria al mio pensier sarai. Né partirei giammai, se per voler de' numi io non dovessi consacrare il mio affanno all'impero latino. DIDONE: Veramente non hanno altra cura gli dèi che il tuo destino. ENEA: Io resterò, se vuoi che si renda spergiuro un infelice. DIDONE: No, sarei debitrice dell'impero del mondo a' figli tuoi. Va' pur, segui il tuo fato, cerca d'Italia il regno; all'onde, ai venti confida pur la speme tua. Ma senti: farà quell'onde istesse delle vendette mie ministre il cielo. E tardi allor pentito d'aver creduto all'elemento insano richiamerai la tua Didone in vano. ENEA: Se mi vedessi il core. DIDONE: Lasciami traditore. ENEA: Almen dal labbro mio con volto meno irato prendi l'ultimo addio. DIDONE: Lasciami ingrato. ENEA: E pur a tanto sdegno non hai ragion di condannarmi. DIDONE: Indegno.

29 “Tibi gratias ago pro cura” Grazie per l’attenzione
Maria Amato Luana Di Rosa Giuseppe Landolina Gianmarco Midulla Martina Tiralongo


Scaricare ppt "tornando indietro nel tempo"

Presentazioni simili


Annunci Google