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La filosofia di fronte alla Shoah.

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Presentazione sul tema: "La filosofia di fronte alla Shoah."— Transcript della presentazione:

1 La filosofia di fronte alla Shoah.

2 Marc Chagall, La crocifissione bianca.
Responsabilità. Marc Chagall, La crocifissione bianca.

3 Il contesto storico. Il concetto di genocidio.
Il processo di Norimberga. Il processo di Eichmann a Gerusalemme.

4 Il concetto di “genocidio”.
Il giurista americano Raphael Lemkin, fin dal 1944, fu uno dei primi a rendersi conto della novità dei crimini nazisti: a suo parere, essi erano così particolari, da richiedere una parola del tutto nuova. Lemkin, pertanto, coniò l’espressione genocidio, cui diede il seguente significato: «distruzione di una nazione o di un gruppo etnico» nel suo complesso. Il genocidio, proseguiva Lemkin, «è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale».

5 Il processo di Norimberga
E’ il primo è più famoso processo contro i criminali nazisti. Come sede del dibattimento, fu scelta la città di Norimberga per il fatto che, prima della guerra, ogni anno aveva regolarmente ospitato il congresso del partito nazista. Hermann Goering, l’imputato più famoso del processo di Norimberga, fotografato durante l’istruttoria (1945).

6 Gli imputati. Furono ventidue alte personalità. La figura più importante (dopo il suicidio di Hitler, Himmler e Goebbels) era Hermann Göring, comandante supremo dell’aviazione e responsabile dell’economia del Reich; fra gli altri: personaggi di spicco R. Hess (che fino al 1941 fu stretto collaboratore di Hitler e, nel 1924, ne aveva scritto materialmente il Mein Kampf, sotto dettatura del Führer), J. von Ribbentrop (ministro degli Esteri), Hans Frank (governatore della Polonia occupata) e Albert Speer (che aveva diretto la produzione bellica tedesca negli ultimi anni di guerra).

7 Vincitori e vinti. Per tutti, le imputazioni erano quattro: cospirazione per condurre una guerra d’aggressione, crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità. Per l’accusa, il ruolo principale fu assunto dal procuratore americano J.R.H. Jackson, che spesso si trovò in palese difficoltà a collaborare con il suo collega sovietico Ion Nikitcenko: i russi, infatti, a Norimberga, cercarono soprattutto di addossare ai tedeschi il crimine della foresta di Katyn. A giudicare i nazisti vi era una giuria composta da quattro giudici: uno statunitense, uno sovietico, uno inglese e uno francese. Vennero inoltre nominati quattro sostituti dei giudici principali, sempre appartenenti ai medesimi Stati. Alla fine di un processo complessivamente equo, nel quale agli imputati fu concesso di parlare e di difendersi, furono emesse undici condanne a morte, eseguite il 16 ottobre 1946; quattro imputati furono assolti, mentre ai rimanenti (tra cui Hess e Speer) furono inflitte lunghe pene detentive. La sentenza finale, inoltre, dichiarò che la direzione del partito nazista, la Gestapo, le SS e l’SD (il servizio segreto delle SS) erano organizzazioni criminali. Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg) è il titolo italiano di un noto film del 1961 diretto da S. Kramer che tratta del processo di Norimberga.

8 Gli altri processi. “All’inizio la persecuzione dei crimini venne fatta dai vincitori. Non solo contro i criminali maggiori e chi li aveva sostenuti, ma anche con migliaia di processi gestiti autonomamente da americani, britannici, francesi e sovietici. Una prima ondata che costrinse a fare subito i conti con il passato, ma produsse anche un effetto di difesa collettiva, con dichiarazioni e testimonianze favorevoli agli imputati che tendevano ad accreditare una certa versione del passato bellico. La politica giudiziaria della Repubblica federale tedesca è invece più complessa. A partire dalla fine degli anni Cinquanta si perseguirono ampiamente i crimini di carattere antisemita, come nel grande processo di Francoforte contro gli aguzzini di Auschwitz che informò l’opinione pubblica su ciò che era successo. Diverso è invece il caso dei crimini di guerra commessi dalle Forze Armate e, attraverso lo strumento della prescrizione del reato, si arrivò per molti a un’amnistia indiretta … Usando le leve del diritto si poteva infatti passare dall’omicidio doloso a quello colposo, oppure dalla posizione di autore del reato a quella di esecutore di un ordine, come dire un complice non colpevole.”. (Lutz Klinkhammer, storico tedesco)

9 Il processo Eichmann e i “testimoni”.
Nel 1960, fu catturato a Buenos Aires, dagli agenti dei servizi segreti israeliani, Adolf Eichmann, il funzionario della Gestapo responsabile della deportazione degli ebrei ungheresi e di azioni si trasferimento forzato ad Auschwitz. Nel 1962, fu condannato a morte a Gerusalemme, ove si scelse di dare al processo un taglio completamente diverso da quello di Norimberga. Il processo di Gerusalemme presentò la Shoah come un evento specifico e segnò la nascita sociale della figura del testimone, inteso come portatore di una memoria che non poteva essere perduta.

10 Le risposte della filosofia.
Lo scacco: Adorno, Jean Améry. La questione della colpa (Jaspers). La “banalità del male” (Arendt). Il problema di Dio dopo Auschwitz (Jonas).

11 La filosofia di fronte ad Auschwitz.
Di fronte al genocidio insensato messo in atto dai nazisti, i filosofi del Novecento hanno reagito in vario modo: negando la possibilità di fornire una spiegazione razionale alla Shoah (Adorno, Jean Améry); ponendo la questione della colpa della nazione tedesca (Jaspers); richiamandosi alla perdita del senso di responsabilità da parte di una società di massa cresciuta all’ombra del totalitarismo (Arendt); fornendo una risposta teologica (Jonas) o un’indicazione morale sul valore dell’Altro (Lévinas).

12 Adorno: no man’s land. Th. W. Adorno scrisse nel 1966: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man's land filosofica” (Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 326)

13 Adorno: “l’inferno reale”.
Secondo il filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno, dopo Auschwitz la trascendenza non offre piú all’immanenza alcun significato. Auschwitz ha lo stesso effetto in campo sociale che il terremoto di Lisbona ha avuto nel campo dei fenomeni naturali. La malvagità umana ha realizzato “l’inferno reale”. ”Il terremoto di Lisbona fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità umana. La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato a pezzi la base dell’unificabilità del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza. Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della quantità in qualità. La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è più alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e più misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva più l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati” – come si dice in gergo militare – finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte” Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg

14 Il fallimento della cultura.
Dopo Auschwitz, Hitler ci costringe ad impegnarci con tutte le nostre forze per fare in modo che ciò che è avvenuto non possa ripetersi. Questo è diventato l’“imperativo categorico” della nostra epoca. Auschwitz dimostra inconfutabilmente il fallimento della cultura e dell’interpretazione illuminista della storia. Ma la negazione della cultura non è una soluzione. Neppure il silenzio.  ”Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano. [...]. Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini... Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna”.  Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg

15 Jaspers e la questione della colpa.
Il filosofo esistenzialista Karl Jaspers ( ) dedica a questi temi un semestre di lezioni nel 1946, poi pubblicato nel saggio La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, in cui stabilisce quattro diversi livelli di colpa: una colpa giuridica,che riguarda la violazione di una legge ed è propria del singolo; una colpa morale, che riguarda la coscienza individuale e dunque implica una responsabilità verso le azioni compiute dall’individuo; una colpa politica, che riguarda la corresponsabilità dei cittadini nelle azioni di stato; una colpa metafisica, intesa come una forma di annichilimento della “solidarietà assoluta” degli uomini tra loro. Per Jaspers questa solidarietà deve intendersi come un impulso incondizionato che precede la razionalità propria della sfera morale: riguarda la sfera del comune sentire che ha permesso a tutti gli esseri umani, almeno una volta nella vita, di sentire nel dolore o nella passione un’unione costitutiva con l’Altro.

16 Arendt e la colpa Influenzata dal maestro Karl Jaspers, Hannah Arendt ( ) distingue nettamente colpa e responsabilità in Responsabilità collettiva, saggio pubblicato postumo: mentre la colpa si riferisce sempre alle azioni compiute da un singolo soggetto agente, la responsabilità è intesa come ‘collettiva’ sulla base del principio di appartenenza di un soggetto ad un gruppo. Arendt specifica che la linea di divisione che separa la colpa dalla responsabilità rimanda alla più profonda distinzione tra morale e politica: colpevole è chi ha violato una legge, sia essa morale o giuridica, mentre la responsabilità collettiva si riferisce alla sfera politica, che riguarda l’intera comunità per gli atti compiuti dai suoi membri. In questo secondo senso, ciascun uomo è, in condivisione con gli altri, “responsabile” per le azioni che sono state compiute dai cittadini della sua nazione, senza esserne moralmente colpevole. In altre parole, per Arendt esiste una responsabilità squisitamente politica di tutti coloro che hanno vissuto passivamente sotto il regime nazista. 

17 Arendt e la “banalità del male”.
Inviata a Gerusalemme come corrispondente del giornale statunitense “The New Yorker”, Hannah Arendt rimase sorpresa dalla figura di Eichmann, un burocrate zelante, che parlava per cliché e frasi fatte. La studiosa coniò l’espressione “banalità del male” per indicare che crimini efferati come quelli compiuti dai nazisti non erano espressione di un “male radicale” ma il risultato di una semplice routine amministrativa che privava gli uomini della facoltà di pensare e agire autonomamente.

18 La responsabilità del pensare.
In concreto, il mio interesse per le attività spirituali ha origine in due esperienze abbastanza diverse. Lo stimolo immediato mi venne assistendo al processo Eichmann a Gerusalemme. Nel resoconto che ho lasciato parlavo della “banalità del male”. Tale espressione non implicava allora nessuna tesi o dottrina, anche se mi rendevo conto, confusamente, che essa andava in direzione opposta a quanto asserito dalla nostra tradizione di pensiero – letteraria, teologica o filosofica – intorno al fenomeno del male. [...] Nondimeno, ciò che avevo sotto gli occhi a Gerusalemme, qualcosa di totalmente diverso, era pure innegabilmente un fatto. Restai colpita dalla superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile superficialità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o di specifiche motivazioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento passato, come quello tenuto durante il processo e lungo tutto l’interrogatorio della polizia prima del processo, era qualcosa di interamente negativo: non stupidità, ma mancanza di pensiero. Sulla scena del tribunale israeliano e delle procedure carcerarie egli si comportava come avrebbe fatto nel regime nazista, ma di fronte a situazioni in cui tali procedure di routine non esistevano, eccolo improvvisamente smarrito, mentre il suo linguaggio dominato dai clichés produceva in tribunale, come certo doveva essere avvenuto altre volte nella sua vita ufficiale, una sorta di macabra commedia. Clichés, frasi fatte, l’adesione a codici d’espressione e di condotta convenzionali e standardizzati adempiono la funzione socialmente riconosciuta di proteggerci dalla realtà, cioè dalla pretesa che tutti gli eventi e tutti i fatti, in virtù della loro esistenza, avanzano all’attenzione del nostro pensiero. Saremmo rapidamente esausti se fossimo ogni volta sensibili a tale pretesa: la sola differenza fra Eichmann e il resto dell’umanità è che, manifestatamente, egli la ignorava del tutto. Fu proprio questa assenza di pensiero – così consueta nella vita di tutti i giorni, quando si ha appena il tempo, o anche solo la voglia, di fermarci a pensare – che destò il mio interesse. È possibile fare il male (le colpe di omissione sono alla stessa stregua di quelle commesse) in mancanza non solo di “moventi abietti” (come li chiama la legge), ma di moventi tout court, di uno stimolo particolare dell’interesse o della volizione? Si può credere che la malvagità, comunque la si definisca, questa “determinazione a dimostrarsi scellerati”, non sia una condizione necessaria per compiere il male? Il problema del bene e del male, la nostra facoltà di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato sarebbe forse connesso con la nostra facoltà di pensiero? […] Potrebbe questa attività (il pensare) rientrare nelle condizioni che inducono gli uomini ad astenersi dal fare il male, o perfino li “dispongono”contro di esso? (H. Arendt, La vita della mente)

19 Stanley Milgram: un esperimento sulla “banalità del male”.
Nel luglio 1961, sono passati solo tre mesi dal processo di Eichmann e le dichiarazioni del nazista hanno stupito lo psicoloco sociale Stanley Milgram a tal punto da indurlo a progettare un esperimento che esplori le dinamiche psicologiche dell’obbedienza. Un soggetto viene reclutato, dietro compenso, da un importante e riconosciuto Istituto di ricerca, e viene invitato a porre domande ad un uomo. Se le risposte risultano sbagliate, il soggetto deve tirare un piccola leva che genera una lieve scossa elettrica (punizione) all’ uomo sottoposto all’ esperimento. Le scosse elettriche aumento di intensità ad ogni risposta errata, e per questo motivo arriva un momento in cui l’ uomo dell’ esperimento chiede al soggetto di smettere ma gli scienziati invitano il soggetto a continuare l’ esperimento ed a infliggere scosse ancora più pesanti in caso di errore da parte dell’ uomo dell’ esperimento. In realtà, l’ uomo dell’ esperimento è un attore che collabora con gli scienziati, e la scossa elettrica non esiste perchè è tutta finzione, ma il soggetto reclutato per l’ esperimento non lo sa ed è pienamente convinto che sia tutto vero. L’ esperimento termina quando l’ uomo dell’ esperimento, che subisce le scosse elettriche, fingendo, perde i sensi non fornendo più nessun segno di vita. Risultati: - nel 1961, il 62,5% dei soggetti arriva alla fine dell'esperimento obbedendo alle autorità scientifiche, commettendo in prima persona delle azioni oggettivamente criminose, e rimettendo alle autorità qualsiasi responsabilità.

20 Jonas: la Shoah, una sfida teologica.
Hans Jonas ( ) studiò teologia e filosofia in Germania con Husserl, Heidegger e Bultmann. Emigrò nel 1933 e quindi riuscì a evitare la Shoah, che invece travolse sua madre. Noto per i suoi studi sullo gnosticismo e per i suoi trattati di etica (Il principio responsabilità), Jonas tenne la conferenza Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica a Tubinga, nel In quella circostanza, Jonas avanzò provocatoriamente la proposta di cancellare l’onnipotenza dagli attributi di Dio, pena la rinuncia alla Sua bontà e alla comprensibilità del Suo agire nel mondo e nella storia.

21 Il concetto di Dio dopo Auschwitz.
“L’onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. [...] Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). [...] Di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, [...] intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. [...] Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo. [...] La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta – una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso – un atto infine dell’autoalienazione divina”. H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1989, pp , trad. it C. ANGELIN

22 Una risposta a Giobbe. Jonas si rifà alla dottrina ebraica dello tzimtzum (rielaborata soprattutto nel ‘500 dal cabalista Luria), che vede un perpetuo atto di contrazione di Dio e contemporaneamente di emanazione della sua luce sull'universo. Dio si sarebbe ritirato, producendo uno spazio in cui la creazione potesse cominciare; dopo aver creato dei vasi nello spazio vuoto, avrebbe iniziato a riversare la Sua luce nei vasi, ma questi ultimi non avrebbero sostenuto la potenza della luce divina, frantumandosi. Il popolo ebraico deve quindi raccogliere insieme le scintille di Luce Divina che sono state portate giù con i frantumi dei vasi spezzati. Giobbe è un patriarca biblico, che rappresenta l'immagine dell’uomo giusto la cui fede è messa alla prova da parte di Dio attraverso una serie di sventure e sofferenze. Dio gli appare spiegando che l’onnipotenza divina non può essere sottoposta alla logica umana e lo ricompenserà con nuovi e maggiori averi. La risposta di Jonas al problema del male è rovesciata: egli si richiama all’impotenza divina, dovuta a una decisione volontaria del Creatore di contrarsi per fare spazio al mondo e all’uomo. “Rinunciando alla propria invulnerabilità il principio eterno ha permesso al mondo di essere. A questa autonegazione ogni creatura deve la propria esistenza e ha ricevuto ciò che vi è da ricevere dall’Aldilà. Dopo essersi dato completamente nel mondo in divenire, Dio non ha più niente da dare: ora sta all’uomo dargli qualcosa. Anche ogni risposta alla domanda di Giobbe non può che essere tale. La mia è contrapposta a quella del libro di Giobbe: quella invoca la pienezza della potenza del Dio creatore; la mia la sua rinuncia alla potenza. E tuttavia, strano a dirsi, sono entrambe a sua lode: è grazie alla rinuncia che noi siamo potuti essere. Anche questa, mi pare, è una risposta a Giobbe: che anche Dio soffre. Se questa sia vera non lo possiamo sapere da alcuna risposta”. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz.

23 Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo.
Nel saggio sull’hitlerismo, uscito nel 1934 sulla rivista “Esprit”, Lévinas si misura con il fenomeno nazista “pressappoco all’indomani dell’arrivo di Hitler al potere”. Egli si sofferma con lucidità sul “risveglio di sentimenti elementari” che lo caratterizza, come senso di una comunità di suolo e di sangue, che radica l’uomo in un corpo e in una terra. “Perché i sentimenti elementari racchiudono una filosofia; esprimono la prima attitudine di un animo di fronte all’insieme del reale e al suo destino. Predeterminano o prefigurano il senso della sua avventura nel mondo.”  Levinas ( ) insiste sulla contiguità di tale filosofia con le postazioni più avanzate del pensiero contemporaneo, da cui proprio in quegli anni – in virtù di una visione radicalmente nuova della natura umana – giungeva uno scacco irrevocabile all’universalismo cristiano e al liberalismo idealista, cioè alle due strategie elaborate dall’uomo europeo per sentirsi libero rispetto alla sua contingenza storica e corporea. È possibile che le acquisizioni filosofiche dell’epoca, per un verso così feconde da alimentare il cammino del pensiero fino a oggi, covino in seno costitutivamente il seme di fenomeni così aberranti e catastrofici? E in che senso oggi dovremmo sentircene ormai al riparo? Il suo scritto “procede dalla convinzione che l’origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialismo non sia in una qualche anomalia della ragione umana, né in un qualche malinteso ideologico accidentale”, ma che “tale origine attenga ad una possibilità essenziale del Male elementale cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata.

24 Appendice. Arendt. Jonas. Lévinas

25 Arendt

26 Hannah Arendt Hannah Arendt ( ), nata da famiglia ebrea a Hannover, dopo gli studi universitari (tra i suoi maestri ricordiamo Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale, Husserl e Jaspers) abbandona la Germania per motivi politici;, rifugiandosi in Francia (1933) e stabilendosi negli Stati Uniti (1941). Muore mentre si accinge a scrivere la terza e ultima parte della Vita della mente, il suo ultimo capolavoro pubblicato postumo nel 1978. Opere. L'opera che la renderà famosa in tutto il mondo è il monumentale saggio del 1951 (di circa 700 pagine), intitolato Le origini del totalitarismo. Nel seguirà La condizione umana, titolo voluto dall'editore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di Vita activa, conservato nella traduzione italiana del libro realizzata nel Di particolare rilevanza è inoltre il libro del 1963 intitolato La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, scritto in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che aveva mandato a morte centinaia di migliaia di ebrei. La Arendt, che aveva preso parte al processo tenutosi a Gerusalemme come inviata speciale del «New Yorker», si convince che le ragioni profonde dei crimini nazisti risiedono non tanto nella cattiveria o nella mostruosità di alcuni carnefici, ma nell'assenza di pensiero in uomini del tutto normali («banali») nella vita familiare, che, però, se inseriti in una macchina infernale quale l'organizzazione nazista, diventano capaci delle più disumane atrocità.

27 Le origini del totalitarismo
Le origini del totalitarismo, apparso all'indomani della seconda guerra mondiale e in piena guerra fredda, è una delle più importanti opere storico- politiche del Novecento. Essa si propone di analizzare le cause e il funzionamento dei regimi totalitari, considerati come una conseguenza tragica della società di massa, in cui gli uomini sono resi atomi, sradicati da ogni relazione interumana e privati dello stesso spazio pubblico in cui hanno senso l'azione e il discorso. Il manoscritto, già ultimato nell'autunno del 1949, uscì in prima edizione nel 1951. Il suo contributo è particolarmente rilevante sotto due aspetti: a) quello storico-politico, in quanto analizza i tratti di fondo della storia europea moderna e contemporanea e, in particolare, il periodo che va dagli ultimi venti anni dell'Ottocento fino alla seconda guerra mondiale; b) quello filosofico-politico, in quanto elabora uno schema generale del regime totalitario, con esclusivo riferimento al nazismo e allo stalinismo, visti come due fenomeni riconducibili alla medesima idea di totalitarismo, essendo del tutto marginale l'interesse per altre forme di dittatura come, ad esempio, il fascismo.

28 Le parti del libro Il libro si divide in tre parti.
La prima è dedicata allo studio del fenomeno dell'antisemitismo, ritenuto come una delle premesse del totalitarismo, con un'attenzione particolare alla condizione ebraica nella storia moderna e un'approfondita analisi dell'affare Dreyfus.* La seconda affronta il tema dell'imperialismo, nel periodo che va dalla fine dell'Ottocento allo scoppio della prima guerra mondiale, con il nuovo protagonismo della borghesia che ora, per la prima volta, aspira al «dominio politico» oltre che a quello economico. Le conseguenze dell'antisemitismo, coniugate con la crisi dell'imperialismo suc­essiva alla prima guerra mondiale, sono, secondo Hannah Arendt, le cause da cui è sca­turito il totalitarismo nella Germania nazista e nell'Unione Sovietica stalinista, cui deve aggiungersi il fenomeno inedito dell'avvento della società di massa e «senza classi», in cui gli individui sono alla mercé di ristretti gruppi di potere (le élites). La terza parte del libro analizza i caratteri del totalitarismo nella società di massa, secondo il binomio ideologia-terrore. *Scandalo politico che scosse fortemente la Francia di fine '800. Prese il nome da Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo in servizio presso lo stato maggiore, che venne arrestato per spionaggio in seguito al rinvenimento di una lettera anonima diretta all'addetto militare tedesco a Parigi, nella quale si preannunciava l'invio di dati tecnici sull'artiglieria francese. Fu condannato per alto tradimento alla degradazione e alla deportazione a vita nell'isola del Diavolo, ma, dati i dubbi sulla sua colpevolezza, il caso fu riaperto e Dreyfus si vide commutare la pena a 10 anni di detenzione, ottenendo poi la grazia e venendo definitivamente assolto e reintegrato nell'esercito nel 1906.

29 La novità del totalitarismo
L’essenza del totalitarismo consiste nel binomio «terrore e ideologia». Il terrore è esercitato sia attraverso la polizia segreta che, con il suo continuo spionaggio, pervade la società, sia attraverso i campi di concentramento, che hanno la funzione di annientare gli oppositori politici trasformati in «nemici»: «L'inferno nel senso più letterale della era costituito da quei tipi di campi perfezionati dai nazisti, in cui l'intera vita era sistematicamente organizzata per infliggere il massimo tormento possibile. […] Le masse umane segregate in essi sono trattate come se non esistessero più, come se la sorte loro toccata non interessasse più nessuno.., in un mondo privo di quella struttura di conseguenze e responsabilità senza la quale la realtà rimane per noi una massa di dati incomprensibili». Il totalitarismo è una vera novità del Novecento, diversa dalle forme di dispotismo antico in quanto pervade la società in maniera totalizzante, uccide l'uomo nello spirito, rendendolo un essere superfluo e senza nome, attraverso l'ideologia. Il totalitarismo è un fenomeno «essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide, la dittatura. Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito alla polizia e per­seguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo».

30 La distruzione della vita privata.
Dal punto di vista organizzativo, l'ideologia e il terrore si esplicano attraverso gli strumenti del partito unico e della polizia segreta, che sono controllati completamente dal capo supremo, a cui rendono personalmente conto. La volontà del capo è l'unica legge del partito, che tutti i burocrati devono rispettare e far rispettare. Il potere viene a distribuirsi in maniera gerarchica, secondo il grado di maggiore (o minore) prossimità al capo: quanto più si è vicini al leader, tanto più si ha potere. La condizione degli individui è quella dell'isolamento totale nella sfera politica e dell'estraniazione in quella dei rapporti sociali. Il regime totalitario, alla pari di ogni altra forma di tirannide, deve la sua esistenza alla distruzione della vita politica democratica, ottenuta diffondendo paura e sospetto tra gli individui (non più cittadini) isolati. Ma esso, aggiunge H. Arendt, distrugge anche la vita privata delle persone, estraniandole dal mondo, tagliando ogni radice sociale e rendendole tra loro nemiche: e ciò rappresenta una più atroce novità del moderno totalitarismo rispetto al vecchio dispotismo.

31 Il conformismo. Il tratto che distigue l'indagine arendtiana sul totalitarismo — ad esempio, rispetto al modello di Friedrich e Brzezinski — risiede nell'enfasi posta sulla condizione di isolamento degli uomini nella società di massa, ove il conformismo sociale è una minaccia costante alla libertà politica. Da questo punto di vista, il totalitarismo può essere concepito come «una potenzialità» e «un costante pericolo», anche dopo la scomparsa delle sue forme storiche del Novecento, il nazismo e lo stalinismo: esso «ci resterà probabilmente alle costole per l'avvenire». «Le preoccupazioni della Arendt — scrive Alberto Martinelli, nella Introduzione all'edizione italiana di Le origini del totalitarismo — sono senza dubbio dettate dal trauma profondo suscitato dalle tragedie degli anni Trenta e della seconda guerra mondiale, ancora così vicine al momento della stesura del libro, e possono apparire eccessive se riferite alle società occidentali in generale e in particolare ai sistemi di più antica democrazia di tipo anglosassone, che hanno sviluppato più efficaci anticorpi contro le trasformazioni in senso totalitario.”

32 Il totalitarismo controlla in modo totale la società e la vita del singolo.

33 Vita activa. Vita activa: la condizione umana, pubblicato nel 1958 negli Stati Uniti, si fonda sulla tesi che, a partire dalla fine della polis greco-romana, l'agire, inteso come civiltà dell'azione e del discorso, è stato sostituito prima dal «fare» e poi dal «lavorare», teso unicamente ad assicurare la pura sopravvivenza. Il libro si occupa, quindi, non della dimensione contemplativa ma della vita attiva dell’uomo.

34 La condizione umana Arendt, diversamente dai filosofi classici, parla di «condizione» e non di «natura» umana. Riguardo alla «natura» degli uomini, osserva Arendt, possiamo dire solo che essi sono esseri condizionati (donde «condizione umana»). Le condizioni dell'esistenza umana sono rappresentate da «vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra». L'uomo però non si riduce alle sue sole condizioni, che non lo determinano in modo assoluto: «Oggi possiamo quasi dire di aver dimostrato anche scientificamente che, sebbene noi ora viviamo, e probabilmente vivremo sempre, soggetti alle condizioni della terra, non siamo meramente creature legate-alla-terra».

35 Tre forme di vita activa
La «vita activa, cioè l'agire umano, si articola in tre forme fondamentali: l'attività lavorativa (o animal laborans); l'operare (o homo faber); c) l'agire (o zoon politikón).

36 L’attività lavorativa (labor).
L'attività lavorativa «corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest'ultima è la vita stessa». Nell’Antichità gli schiavi esercitavano tale attività, che è l'energia che si sprigiona e «si consuma» per provvedere alle esigenze fondamentali della vita (cibo, riproduzione) senza produrre oggetti durevoli. «Il fardello della vita biologica che opprime e consuma lo spazio vitale specificamente umano tra la nascita e la morte, può essere eliminato dall'uso dei servi, e la funzione principale degli schiavi antichi era portare il fardello del consumo nella comunità domestica più che produrre per la società in senso lato».

37 L’operare (work) e l’agire.
L'operare è, invece, «l'attività che corrisponde alla dimensione non- naturale dell'esistenza umana, che non è assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve, non è compensata da esso. Il frutto dell'operare è un mondo "artificiale" di cose, nettamente distinto dall'ambiente naturale». L'operare è proprio dell'homo faber, attivo a partire dall'età moderna: è l'uomo tecnologico che tende a produrre oggetti duraturi (opere), tanto da trasformare lo stesso aspetto della Terra. «L'opera delle nostre mani distinta dal lavoro del nostro corpo — l'homo faber che fa e letteralmente "opera", distinto dall'animal laborans che lavora e "si mescola con" —fabbrica l'infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale dell'uomo». L'azione è propria dell’uomo come animale politico (zoon politikón): «L'azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l'Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”.

38 La polis. Il sorgere della città-stato significò per l'uomo ricevere accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, quella politica, in diretto contrasto con l'associazione naturale della famiglia, che aveva il suo centro nella casa (oikìa). Tra tutte le attività praticate nelle comunità umane, Aristotele riteneva che solo l'azione (praxis) e il discorso (lexis) appartenessero veramente all'agire politico. Essere politici, cioè vivere nella polis, per i Greci significava abbandonare la violenza e riporre ogni fiducia nella forza persuasiva del discorso. Al contrario, la sfera della costrizione e della necessità era considerata pre-politica, tipica della famiglia, in cui il capofamiglia esercitava un potere dispotico sugli schiavi, sui figli e sulla moglie (anche se a livelli diversi), o degli imperi barbarici dell'Asia. Al contrario, la polis era la sfera della libertà. «Ciò che tutti i filosofi greci, anche se contrari alla polis, tenevano per certo è che la libertà risiede esclusivamente nella sfera politica, mentre la necessità è soprattutto un fenomeno prepolitico, caratteristico dell'organizzazione domestica privata, e che la forza e la violenza sono giustificate in questa sfera perché sono i soli mezzi per aver ragione della necessità — per esempio, mediante il dominio sugli schiavi — e diventare liberi. Poiché tutti gli esseri umani sono soggetti alla necessità, essi sono disposti alla violenza verso gli altri; e questa non è altro che l'atto pre- politico di liberarsi dalla necessità della vita in nome della libertà del mondo. Questa libertà è la condizione essenziale di quella che i Greci chiamavano felicità, eudaimonìa, che era una condizione oggettiva legata prima di tutto alla ricchezza e alla salute. Essere poveri o essere ammalati significava essere soggetti alla necessità fisica, ed essere schiavi significava essere soggetti, in aggiunta, alla violenza umana. Questa duplice e raddoppiata "infelicità" della schiavitù era del tutto indipendente dal reale benessere soggettivo dello schiavo».

39 Jonas

40 Hans Jonas Tra i filosofi contemporanei che hanno tentato di elaborare una nuova etica globale della civiltà tecnologica il filosofo tedesco Hans Jonas ( ). Formatosi alla scuola di Husserl e Heidegger, ha avuto come compagna di studio Hannah Arendt. Ebreo di nascita, dopo l'avvento del nazismo è emigrato prima in Inghilterra e poi in Palestina. Dopo aver combattuto come volontario nell'esercito inglese, nel dopoguerra è stato docente in varie Università canadesi e statunitensi. Opere: Il principio responsabilità. Ricerca di un'etica per la civiltà tecnologica (1979) e la conferenza Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica (1984).

41 Il principio responsabilità.
Di fronte al “Prometeo scatenato” dell’odierna civiltà tecnologica non possiamo più richiamarci alle consuete etiche della coscienza o dell'intenzione, ignorando le conseguenze dei nostri atti. Non basta più essere a posto con la propria coscienza o accontentarsi di regole formali di tipo evangelico o kantiano; occorre saper prevedere gli influssi che le nostre azioni potranno avere sulle sorti future dell'umanità e del pianeta, ad esempio ponendoci la domanda: «Se continuiamo a consumare energia e a inquinare il pianeta con gli attuali ritmi, che destino riserveremo ai nostri figli e nipoti?». Al vecchio imperativo categorico kantiano, Jonas contrappone quindi il nuovo imperativo dell'età tecnologica: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra». Oppure, tradotto in negativo, «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita». Oppure, semplicemente: «Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità sulla terra». O ancora, tradotto nuo­vamente in positivo: «Includi nella tua scelta attuale l'integrità futura dell'uomo come oggetto della tua volontà»

42 L’imperativo ecologico di Jonas.

43 L’archetipo genitoriale.
La manifestazione concreta dell'imperativo categorico — e quindi della disponibilità a favorire, mediante l'azione, il sì alla vita — è il senso di responsabilità. Responsabilità che trova il suo archetipo originario nelle cure dei genitori verso i figli. Infatti, è proprio il neonato, nella sua nuda e indifesa esistenza, che funge da attestazione evidente e da inconfutabile «paradigma montico» della coincidenza ontologica fra essere e dover essere, fra la vita e l'appello a far sì che la vita continui: «Mostrateci un unico caso [...] in cui abbia luogo tale coincidenza», «si potrà indicare la cosa più familiare a tutti: il neonato, il cui solo respiro rivolge inconfutabilmente un "devi" all'ambiente circostante affinché si prenda cura di lui. Guarda e saprai!» . La responsabilità parentale trova la sua generalizzazione nelle cure dell'uomo di Stato verso la cosa pubblica.

44 L’euristica della paura
“Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo [...] perorarne ancora la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici»; .«Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura che dissuade dall'azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l'oggetto della responsabilità”. Questa valorizzazione della paura porta Jonas a parlare di una «euristica della paura», cioè di una ricerca stimolata da tale stato d'animo, a cui il filosofo affida la scoperta dei nuovi (e ancora sconosciuti) principi etici che devono ispirare i nuovi doveri concreti dell'individuo tecnologico, al fine di tutelare l'uomo e il mondo da scelte irresponsabili.

45 Il concetto di Dio dopo Auschwitz.
Jonas ritiene che di fronte al male nel mondo — esemplificato da Auschwitz — non si possa più sostenere la simultanea bontà, comprensibilità e onnipotenza di Dio. Infatti, se posta in rapporto con il male, una divinità onnipotente «o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile». Ma un Dio privo di bontà cessa di essere Dio, mentre un Dio totalmente incomprensibile è qualcosa di cui non possiamo neppure discorrere. Non resta quindi che abbandonare il problematico concetto di onnipotenza (per quanto «scandalosa» possa apparire questa scelta e ammettere che Egli non è intervenuto ad impedire Auschwitz «non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo». Infatti, concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza.

46 Il concetto di Dio dopo Auschwitz.
“L’onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. [...] Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). [...] Di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, [...] intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. [...] Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo. [...] La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta – una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso – un atto infine dell’autoalienazione divina”. H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1989, pp , trad. it C. ANGELIN

47 Una risposta a Giobbe. Jonas si rifà alla dottrina ebraica dello tzimtzum (rielaborata soprattutto nel ‘500 dal cabalista Luria), che vede un perpetuo atto di contrazione di Dio e contemporaneamente di emanazione della sua luce sull'universo. Dio si sarebbe ritirato, producendo uno spazio in cui la creazione potesse cominciare; dopo aver creato dei vasi nello spazio vuoto, avrebbe iniziato a riversare la Sua luce nei vasi, ma questi ultimi non avrebbero sostenuto la potenza della luce divina, frantumandosi. Il popolo ebraico deve quindi raccogliere insieme le scintille di Luce Divina che sono state portate giù con i frantumi dei vasi spezzati. Giobbe è un patriarca biblico, che rappresenta l'immagine dell’uomo giusto la cui fede è messa alla prova da parte di Dio attraverso una serie di sventure e sofferenze. Dio gli appare spiegando che l’onnipotenza divina non può essere sottoposta alla logica umana e lo ricompenserà con nuovi e maggiori averi. La risposta di Jonas al problema del male è rovesciata: egli si richiama all’impotenza divina, dovuta a una decisione volontaria del Creatore di contrarsi per fare spazio al mondo e all’uomo. “Rinunciando alla propria invulnerabilità il principio eterno ha permesso al mondo di essere. A questa autonegazione ogni creatura deve la propria esistenza e ha ricevuto ciò che vi è da ricevere dall’Aldilà. Dopo essersi dato completamente nel mondo in divenire, Dio non ha più niente da dare: ora sta all’uomo dargli qualcosa. Anche ogni risposta alla domanda di Giobbe non può che essere tale. La mia è contrapposta a quella del libro di Giobbe: quella invoca la pienezza della potenza del Dio creatore; la mia la sua rinuncia alla potenza. E tuttavia, strano a dirsi, sono entrambe a sua lode: è grazie alla rinuncia che noi siamo potuti essere. Anche questa, mi pare, è una risposta a Giobbe: che anche Dio soffre. Se questa sia vera non lo possiamo sapere da alcuna risposta”. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz.

48 lévinas

49 Emmanuel Lévinas Il filosofo ebreo lituano Emmanuel Lévinas ( ) studia a Strasburgo e a Friburgo, dove ha modo di ascoltare le lezioni di Husserl e di Heidegger, che farà conoscere in Francia. Chiamato alle armi nel 1939, viene fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento. Nel dopoguerra insegna in alcune università francesi e alla Sorbona. Opere: Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934), Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell'essenza (1974). Il pensiero di Lévinas risulta caratterizzato da una programmatica apertura nei confronti dei problemi dell'alterità e del prossimo; il suo pensiero ha un’impronta etica. La tragedia dei campi di concentramento nazisti, secondo lui, trova le sue radici in quel rifiuto dell'«Altro» che è proprio di gran parte della cultura dell'Occidente.

50 L’imperialismo del Medesimo.
Lévinas accusa la filosofia occidentale di «imperialismo del Medesimo» e di «violenza ontologica», ossia di aver racchiuso il molteplice e il diverso nell'ambito di una totalità che ha soffocato ogni forma di alterità e trascendenza: «la filosofia occidentale è stata per lo più un'ontologia, una riduzione dell'Altro al Medesimo» (Totalità e infinito). Si tratta di uscire di contestare alle radici la «filosofia della potenza» e «l'ontologia della guerra», a livello non teorico o conoscitivo, bensì etico e pratico, ossia tramite l'incontro con l'Altro, incarnato dal prossimo.

51 L’etica del volto. Il modo in cui si presenta l'Altro è il volto. In quanto si impone di per sé, indipendentemente dal contesto fisico e sociale, il volto appare come l'assolutamente trascendente. Ma la trascendenza, per il fatto stesso di essere tale, cioè per il suo porsi al di là di ogni totalità immanente, richiama l'infinito, o meglio, è la modalità con cui l'infinito si manifesta all'uomo: «l'infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l'infinito è l'assolutamente altro». Pertanto, se la totalità corrisponde all'essere immanente e inglobante della tradizione ontologica, l'infinito coincide con quella realtà trascendente che è l'Altro (da ciò il titolo del capolavoro di Lévinas). Il volto ha un'esplicita valenza etica, poiché manifestandosi biblicamente, nel povero e nello straniero, nella vedova e nell'orfano, porta scritto, in se medesimo, il comandamento «non uccidere». Per queste sue caratteristiche, il volto mi coinvolge e mi mette in discussione, rendendomi responsabile nei suoi riguardi: «Il volto mi chiede e mi ordina». «Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere spirito umano significa questo».

52 Altrimenti che essere. L'importanza attribuita alla relazione etica con l'Altro, che supera la dimensione del puro essere, cioè dell'egoismo, per procedere al di là dell'essere, cioè verso l'altruismo (come suggerisce il titolo della seconda opera basilare del filosofo: Altrimenti che essere o al di là dell'essenza), spiega l'innovativa tesi di Lévinas, secondo cui «la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima», cioè la metafisica stessa. Da ciò l'identità metafisica = etica. Identità che si inscrive a sua volta nella più ampia equazione metafisica = etica = religione. Infatti, secondo Lévinas, l'etica implica non solo un riferimento al prossimo, ma anche a quell'Altro per antonomasia che è Dio, cui rinvia il volto altrui. Dato che Dio, biblicamente parlando, è l'invisibile per eccellenza (nell'Esodo Dio dice a Mosè: «Tu non potrai vedere il mio volto, poiché nessuno può vedermi e restare vivo»), l'unico modo per incontrarlo è il prossimo: «Non può esserci alcuna "conoscenza" di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini. La fede monoteistica in un Dio trascendente implica, secondo Lévinas, l'esperienza del «disincantamento del mondo», ovvero quella separazione fra uomo e Dio che, sola, risulta capace di salvaguardare l'infinita distanza del Creatore e la libertà della creatura. Da ciò la valorizzazione dell'ateismo, inteso come momento di passaggio per una fede autentica (che per Lévinas non può mai ridursi alle fedi confessionali).

53 Glossario Ontologia. Termine usato da Lévinas per designare la metafisica tradizionale, che ha tentato di racchiudere il molteplice e il diverso nell'ambito di una totalità soffocatrice di ogni forma di alterità e trascendenza. Totalità. L'essere immanente e inglobante della tradizione ontologica. Si oppone all’infinito. Infinito. È la realtà trascendente dell'Altro. «L'infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l'infinito è l'assolutamente altro». Altro. Allude sia alla trascendente alterità dell'altro uomo («l'Altro in quanto altro è Altri») sia a Dio o all'Assoluto (cui rimanda il prossimo) sia all'alterità in generale. In ogni caso, l'Altro non è un «dato» che viene afferrato, ma una realtà trascendente che si impone con la sua irriducibile alterità. Il concetto di Altro risulta strettamente connesso a quello di volto. Volto. Espressione usata da Lévinas per indicare «il modo in cui si presenta l'Altro». Il volto, che vive biblicamente «nel povero, nello straniero, nella vedova e nell'orfano», possiede un'esplicita valenza etica. Ponendosi al di là di ogni totalità immanente, il volto richiama l'infinito, o meglio rappresenta la maniera con cui l'infinità dell'infinito ci viene incontro e si rivela come tale.

54 Manuali e siti consultati.
Abbagnano, Fornero, Nuovo Protagonisti e testi della filosofia, Paravia. crosio.net/MODULI/perc_mappa.htm


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