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Gli atteggiamenti della famiglia La malattia di un congiunto ha profonde ripercussioni sulla famiglia: anch'essa è malata, anch'essa richiede un aiuto,

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Presentazione sul tema: "Gli atteggiamenti della famiglia La malattia di un congiunto ha profonde ripercussioni sulla famiglia: anch'essa è malata, anch'essa richiede un aiuto,"— Transcript della presentazione:

1 Gli atteggiamenti della famiglia La malattia di un congiunto ha profonde ripercussioni sulla famiglia: anch'essa è malata, anch'essa richiede un aiuto, anch'essa può esprimere la sua reazione alla malattia con molteplici atteggiamenti, che evidentemente dipendono da chi è il membro familiare sofferente, dalla gravità della malattia, dalla lunghezza stessa della malattia, dal grado di sofferenza fisica che essa comporta, ecc.

2 In linea di massima possiamo così avere i seguenti atteggiamenti: - la famiglia cerca di vivere in modo positivo la malattia e collabora con gli operatori sanitari, con il volontario, nella cura del congiunto; - la famiglia è stanca dello stress psicofisico dell'assistenza: il protrarsi dei tempi della degenza ospedaliera o dell'assistenza a casa possono determinare una stanchezza psicofisica dei congiunti, quella stanchezza che agli occhi di un osservatore esterno può apparire come l'inizio di un sentimento di indifferenza; - la famiglia è latitante: in particolare nella degenza di una persona con una malattia a probabile esito infausto, non è raro il constatare come le visite dei congiunti si diradino nel tempo e l'impegno del lavoro e dei figli può diventare la motivazione dell'impossibilità da parte dei congiunti di dedicare loro del tempo;

3 - la famiglia non riesce ad accettare la malattia: un atteggiamento di immaturità che può danneggiare addirittura l'attività terapeutica e assistenziale rivolta al congiunto; - la famiglia delega all'operatore sanitario o al volontario il peso dell'assistenza, fino a costituirlo il solo interlocutore del congiunto malato, oppure cerca di coinvolgerlo nelle dinamiche familiari, richiedendo di «parteggiare» per qualcuno della famiglia; - la famiglia non è in grado di assistere il malato, per cause obiettive di tempo e disponibilità dei congiunti, per l'anzianità dell' altro coniuge, ecc.

4 Anche nei confronti dell'istituzione di cura, il rapporto malattia-famiglia è un rapporto con molteplici aspetti. Così può anche accadere che certe volte sia proprio l'ospedalizzazione, cioè la sottrazione del paziente alla sua famiglia, il fattore di correzione di una situazione di disadattamento. Altre volte la famiglia diventa quasi un «nemico» contro il quale gli operatori sanitari sembrano dover lottare nell'interesse del malato. Pensiamo a richieste di dimissioni procrastinate, ricoveri di anziani, ecc.: tutte situazioni che molte volte non hanno motivazioni obiettive.

5 Altre volte ancora, non è la malattia ma la guarigione che mette in crisi la famiglia: pensiamo alle guarigioni che comportano comunque una grave disabilità e alla conseguente perdita di ruolo che questa comporta: quel padre o quella madre che prima sostenevano, mantenevano ed assistevano, ora devono essere sostenuti, assistiti, mantenuti. Ne deriva così che un corretto obiettivo assistenziale e terapeutico deve comprendere anche il nucleo familiare.

6 Gli atteggiamenti dell’operatore sanitario, del volontario e dell’operatore pastorale Di fronte alla sofferenza di una persona si pone un'altra persona, con la motivazione fondamentale di essere espressione di solidarietà. Una solidarietà, iscritta nella vita e nel destino degli esseri umani, che può anche divenire più evidente ed assumere un maggior spessore in una visione di fede. «Alla luce della rivelazione, infatti, emerge evidente il compito dei cristiani di farsi carico dei fratelli, ritrascrivendo la parabola del Buon Samaritano nella comunicazione ai sofferenti dell’amore di guarigione e di consolazione di Gesù Cristo».

7 Questa solidarietà, che si esprime nella gratuità, nella disponibilità, nello spirito di servizio, contribuisce a far sì che l'operatore sanitario sia «un esperto in umanità». Ma per porsi realmente in atteggiamento di aiuto occorre che tale solidarietà non nasca primariamente da desideri di gratificazione, dalla ricerca di un ruolo, dalla ricerca di una soluzione a problemi personali, dal voler fuggire dalla propria realtà di vita, da un attivismo generoso e incontrollato.

8 «Occorre appressarsi a chi soffre con la riverenza, ed ancor più, con cui si avvicinavano un tempo gli anziani, quando da essi ci si attendeva la saggezza».

9 E’ necessaria quindi, a livello personale, una riflessione sui motivi che spingono a voler donare un servizio a favore di altri, poiché comprendere se stessi e la propria spiritualità significa anche poter comprendere più facilmente il mondo spirituale dell' «altro».

10 Ancora, per essere «esperti in umanità» occorre una valida formazione a livello di «sapere» e «saper fare». Ma è anche necessario «saper superare» le inevitabili difficoltà e quindi riuscire a: - evitare un eccessivo coinvolgimento emotivo, che ostacola la capacità di aiuto; - superare un'eventuale ripugnanza per situazioni umane, che, se pur non direttamente coinvolgenti, presentano aspetti spiacevoli (gravi mutilazioni, odori sgradevoli, incontinenza, ecc.); questo vale particolarmente per il volontario e l'operatore pastorale; - superare il peso e la difficoltà di un impegno oneroso nel tempo; - superare una eccessiva emotività nell'affrontare situazioni drammatiche.

11 Vediamo ora alcune qualità che dovrebbero contraddistinguere lo spirito, l'azione e il servizio degli operatori. In particolare parleremo così di: - attenzione alla persona del malato, alla sua famiglia, alle «piccole cose» che fanno parte del suo mondo interiore (ad es., quelle che molte volte ornano anche il suo mobiletto in ospedale). È da questa attenzione che possono scaturire spunti per un colloquio; - comprensione della situazione umana e degli atteggiamenti del malato, invitando anche ad una ragionevole comprensione la stessa famiglia. Comprensione è mettersi al fianco del malato e pronunciarsi partendo dal suo punto di vista; - educazione alla sofferenza e al dolore: l'operatore deve farsi carico, nel mondo dei «sani», di ricordare la ne­ cessità dell'attenzione all'uomo che soffre;

12 - discrezione su quanto dice il malato, sulla sua situazione, nei confronti degli stessi familiari; - umiltà: essere consapevoli di non poter sempre risolvere i problemi, ma di poter offrire solidarietà in un momento di sofferenza; una solidarietà che è però anche attestazione di amore e di speranza; - interiorità: preoccupazione per il mondo interiore del malato, ma anche attenzione alle proprie motivazioni spirituali. L'assistenza al malato comporta nel tempo uno stress, di qui il bisogno di riconfermare e rinsaldare le proprie motivazioni; - rispetto: per il dolore e la sofferenza umana, per come è vissuto dal malato, per come è vissuto dalla sua famiglia, nella convinzione che ogni persona vive il dolore in maniera diversa e solo lei sa quanto sia oneroso;

13 - perseveranza: non sempre il malato apprezzerà quanto si fa per lui; non sempre si riuscirà a stabilire un colloquio; non sempre si potrà portare aiuto; non sempre si potrà fare tutto quanto si vorrebbe; - testimonianza: è necessario «saper fare» ma anche «essere». É dalla testimonianza che il malato può comprendere la solidarietà, è dalla testimonianza che può nascere un discorso di fede. Le esemplificazioni fin qui presentate hanno lo scopo di evidenziare come l'incontro con il malato e la sua sofferenza pongano ulteriori problematiche anche a chi vuol portare un aiuto. Tanto che una comprensione non corretta della limitatezza dei mezzi umani a disposizione e del proprio ruolo può determinare addirittura una patologia del comportamento, anche se, almeno apparentemente, tale comportamento appare encomiabile.

14 È questo il caso in cui chi vuole aiutare diventa prigioniero di due concezioni estreme e contrastanti: si avverte il peso della responsabilità verso gli altri, diventando in questo modo la persona più importante, e ci si convince che le necessità altrui hanno la precedenza sulle proprie. Si configura così quella che si può definire la figura del «Salvatore», una tendenza sempre presente anche negli operatori professionali. Vediamo ora quali possono essere le caratteristiche tipi che di questo atteggiamento da «Salvatore»: - l'attenzione si sposta dalla ricerca di un senso interiore del proprio valore alla ricerca di un successo esteriore; - poiché si dipende dalle reazioni altrui per il raggiungimento del proprio benessere, è frequente che gli altri determinino le nostre azioni;

15 - per potersi sentire accettati dal prossimo, si diventa schiavi del tentativo di dimostrarsi indispensabili agli altri; - ci si sente investiti da un ruolo superiore e si riconosce alla persona aiutata un ruolo subordinato; - si è destinati ad un circolo vizioso di solitudine: un ruolo superiore non permette di far parte di un gruppo alimentando nel contempo la convinzione di essere speciali; - si diventa così abituati ad aiutare, che eventuali periodi di inattività possono causare sensazioni non gratificanti (sensi di colpa, depressione, ansia); - si rimane coinvolti in una disperata rincorsa di un inafferrabile senso di benessere finché non si cade stremati.

16 In conclusione, al di là della naturale limitatezza di ogni esemplificazione degli atteggiamenti umani, è opportuno però tenere presenti questi elementi che, anche singolarmente considerati e con valenza diversa, possono in qualche modo influenzare una relazione di aiuto. In questo ambito determinante dovrebbe essere la consapevolezza che la persona si può «guarire» solo con le sue forze e che ogni relazione di aiuto può quindi avere solo lo scopo di svegliare o risvegliare nell'altro questa autonoma capacità di guarigione. Fine della 3 parte


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