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Statistica per le decisioni dell’impresa internazionale – Prima parte Leonello Tronti Anno accademico 2015-2016.

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1 Statistica per le decisioni dell’impresa internazionale – Prima parte Leonello Tronti Anno accademico 2015-2016

2 Programma di massima  L’insegnamento intende fornire concetti, metodi e risultati riferiti all’analisi quantitativa del sistema imprenditoriale, con particolare attenzione alle variabili di performance comparativa macro e microeconomica, ai risultati aziendali e alla valutazione del contributo fornito allo sviluppo del Paese e dell’Eurozona.  Intende inoltre condurre all’apprendimento di strumenti di analisi statistica per la misura delle caratteristiche e dell’attività dell’impresa nelle aree dello sviluppo del capitale umano, della mappatura delle competenze, della qualità del lavoro e dell’innovazione organizzativa, con particolare riferimento a modelli di lavoro “ad alta performance” quali la produzione snella (lean production), l’organizzazione che apprende (learning organization) e il world class manufaturing. 2Leonello G. Tronti

3 Obiettivi  Gli studenti che abbiano superato l’esame saranno in grado di rilevare, elaborare e analizzare con metodi quantitativi i fenomeni della realtà e della performance imprenditoriale, nonché di effettuare analisi comparative e di contesto nazionale e internazionale.  Saranno inoltre in grado di individuare, quantificare e analizzare i fenomeni che attengono alle attività aziendali riferite alla gestione della conoscenza e all’innovazione organizzativa. 3Leonello G. Tronti

4 Partiamo da un’analisi della performance dell’economia in ottica comparata 4Leonello G. Tronti

5 5 La «questione italiana»: prima crescita lenta poi decrescita, prima impoverimento relativo poi assoluto. Leonello G. Tronti

6 Crisi finanziaria e crisi dell’economia reale  Ben prima dell’insorgere della crisi finanziaria internazionale, l’economia reale del nostro Paese è entrata in un sentiero di declino relativo di lungo termine. Nel periodo 1995-2007 (prima della crisi), la crescita media annua del Pil è stata:  dell’1,6% in Italia,  del 2,4% nella media dell’Eurozona.  In altri termini, già prima della crisi l’Italia ha perduto in media, nei confronti dell’Eurozona (di cui è la terza economia) 0,8 punti l’anno, per la bellezza di 13 anni di fila. 6Leonello G. Tronti

7 Da notare  Distinzione tra economia reale ed economia finanziaria 7Leonello G. Tronti

8 8 Pil pro capite in rapporto alla media europea – Differenze 2007-1995 (pil pro capite in ppa; differenze tra numeri indice media Ue15=100) Fonte: Eurostat Leonello G. Tronti

9 Da notare  Pil pro capite  Numeri indice  Parità di potere d’acquisto (PPA) 9Leonello G. Tronti

10 Nel biennio 2008-2009 (crisi finanziaria) la caduta del pil è stata per l’Italia -3,3 per cento l’anno, quella dell’Eurozona -2,0% (differenza = -1,3 p.p. l’anno); Nel biennio 2010-2011 (lieve ripresa) la crescita italiana è stata dell’1,2%, quella dell’Eurozona dell’1,7 (-0,5 p.p. l’anno); Nel 2012-2013 (recessione) la caduta media italiana è stata -2,3%, quella dell’Eurozona -0,6 (-1,7 p.p. l’anno); Nel 2014 (nuova ripresa) l’economia italiana si è ulteriormente contratta dello 0,4%, mentre l’Eurozona cresceva dello 0,9% (-1,3 p.p.). Negli anni della crisi le cose sono peggiorate… 10Leonello G. Tronti

11 Pil reale (a prezzi costanti) (1995-2014) Fonte: Eurostat 11Leonello G. Tronti

12 Da notare Differenze nelle linee di tendenza di lungo periodo 12Leonello G. Tronti

13 Dal declino relativo al declino assoluto. Nel 2015 il declino torna relativo In tutto, tra il 1995 e il 2014, l’Italia ha segnato una perdita di 21,8 punti percentuali di Pil rispetto alla media dell’Eurozona: l’Eurozona è cresciuta del 31,1%, l’Italia del 9,3% - meno di un terzo. La crisi finanziaria ha fatto emergere in modo ancor più evidente il declino dell’economia italiana, tenuto per troppi anni sotto silenzio, declino che dal 2008 da relativo è diventato assoluto. Nel 2015 le previsioni per l’Italia sono finalmente positive (+0,8%); ma quelle della media dell’Eurozona sono nuovamente più favorevoli (+1,6%), con la conseguenza di un’ulteriore perdita relativa, di 0,8 punti percentuali. Abbiamo dunque cumulato un ritardo di crescita rispetto all’Eurozona di quasi 23 punti di Pil. 13Leonello G. Tronti

14 Da notare Come analizzare la differenza di risultato dell’economia italiana? 14Leonello G. Tronti

15 «Conoscere per deliberare» (Luigi Einaudi) La piramide dati, informazione, conoscenza, saggezza 15Leonello G. Tronti

16 La Piramide DIKW (in italiano DICS; N. Henry, 1974) 16Leonello G. Tronti

17 Dato e informazione  Il dato è l’unità di informazione elementare, un segnale, ad es. un numero, un accadimento, un’opinione, un’immagine, un suono; Siamo circondati da segnali, ma un segnale da solo significa poco, quasi nulla.  Ad un grado di complessità maggiore si colloca l’informazione, costituita da uno o, più spesso, molti dati accompagnati da metadati, che aiutano a contestualizzare e interpretare i dati, e quindi ne qualificano il valore informativo. Nell’informazione il segnale (ad esempio, un numero) viene posto in relazione (temporale, spaziale, metodologica) con altri segnali (altri numeri); e le relazioni tra i segnali che l’osservatore è in grado di stabilire gli consentono di coglierne meglio il significato e di disporre, così, di un’informazione. Leonello G. Tronti17

18 Conoscenza e saggezza  Più in alto ancora si colloca la conoscenza, che si può concepire come comprensione di più informazioni e coscienza che esse possono essere connesse tra loro in una teoria (ipotesi sul funzionamento della realtà). La teoria, se verificata, o meglio ‘non falsificata’ (secondo la lezione di Popper) con gli opportuni strumenti statistici, ha un valore molto superiore alle singole informazioni, in quanto consente di intervenire sulla realtà per modificarla.  Al culmine della piramide si colloca la saggezza, o sapienza, ovvero la capacità di utilizzare e combinare le diverse conoscenze per favorire il progresso materiale e morale degli individui, dell’impresa e della società. Tocca alla saggezza indicare gli obiettivi che debbono essere perseguiti attraverso l’uso e lo sviluppo della conoscenza. Leonello G. Tronti18

19 Saggezza, conoscenza ed entropia informativa  È la saggezza che, ad esempio, deve trovare il giusto equilibrio tra obiettivi di breve e di lungo periodo, visione micro e macroeconomica del proprio ruolo, gli interessi dei diversi stakeholder (lavoratori, management, azionisti, ecc.), i diversi partner (fornitori, soci, clienti, centri di ricerca), finanza ed economia reale, i diversi mercati ecc.  La difficile strada che porta alla saggezza è ostacolata da crescenti fenomeni di entropia informativa, causati dalla diffusione di una mole senza precedenti di informazione priva di strumenti di decodifica. Questa informazione non perviene al livello della conoscenza ma la simula, portando l’impresa a valutare positivamente scelte dubbie o sbagliate. Leonello G. Tronti19

20 Il ruolo dell’apprendimento 20Leonello G. Tronti

21 Due processi di apprendimento  In questo schema l’apprendimento occupa due snodi cruciali: anzitutto la trasformazione dell’informazione in conoscenza e, quindi, l’ancor più fondamentale e difficile trasformazione della conoscenza in saggezza.  L’informazione assume valore soltanto in quanto l’apprendimento può trasformarla in conoscenza;  anche la conoscenza non ha valore in sé ma in quanto può fondare, attraverso l’apprendimento, la saggezza, che sola produce sulla realtà effetti desiderabili. Leonello G. Tronti21

22 Cos’è la crescita? 22Leonello G. Tronti

23 Partiamo dalla produttività Leonello G. Tronti23

24 Perché la produttività è importante? 24 La produttività è la variabile fondamentale del progresso economico: è solo grazie all’aumento della produttività (attraverso la divisione e specializzazione del lavoro, il miglioramento dell’organizzazione e il conseguimento di economie di scala, l’innovazione tecnologica ecc.) che l’uomo riesce a contrastare i limiti allo sviluppo imposti dalla scarsità di risorse. La produttività del lavoro - come rapporto tra i risultati del processo produttivo (output) e l’input di lavoro umano necessario a produrlo – non è un indicatore dell’impegno dei lavoratori nel processo produttivo (produttività dei lavoratori) ma un indicatore sintetico dell’efficienza e dell’efficacia dell’intero processo produttivo, come adeguata combinazione di input di lavoro, di capitale umano e di altri tipi di capitale (fisico, finanziario, organizzativo ecc.). La produttività è la variabile fondamentale del progresso economico: è solo grazie all’aumento della produttività (attraverso la divisione e specializzazione del lavoro, il miglioramento dell’organizzazione e il conseguimento di economie di scala, l’innovazione tecnologica ecc.) che l’uomo riesce a contrastare i limiti allo sviluppo imposti dalla scarsità di risorse. La produttività del lavoro - come rapporto tra i risultati del processo produttivo (output) e l’input di lavoro umano necessario a produrlo – non è un indicatore dell’impegno dei lavoratori nel processo produttivo (produttività dei lavoratori) ma un indicatore sintetico dell’efficienza e dell’efficacia dell’intero processo produttivo, come adeguata combinazione di input di lavoro, di capitale umano e di altri tipi di capitale (fisico, finanziario, organizzativo ecc.). Leonello G. Tronti

25 La produttività si misura rapportando una misura dell’output di un processo produttivo alla misura di uno o più input utilizzati. Ad esempio (e in prima approssimazione), la produttività si misura: Rapportando il prodotto fisico o, meglio, il valore aggiunto a prezzi costanti di un processo produttivo (ad esempio l’attività annuale di un’impresa) alla quantità di lavoro in esso impiegate. A sua volta, l quantità di lavoro si può misurare in ‘teste’ (numero di persone occupate) o, meglio, in unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ula) o in ore lavorate. La produttività si misura rapportando una misura dell’output di un processo produttivo alla misura di uno o più input utilizzati. Ad esempio (e in prima approssimazione), la produttività si misura: Rapportando il prodotto fisico o, meglio, il valore aggiunto a prezzi costanti di un processo produttivo (ad esempio l’attività annuale di un’impresa) alla quantità di lavoro in esso impiegate. A sua volta, l quantità di lavoro si può misurare in ‘teste’ (numero di persone occupate) o, meglio, in unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ula) o in ore lavorate. Come si misura la produttività? Leonello G. Tronti25

26 Misurare la produttività  Output = Q i, Ypc, VApc Il valore aggiunto (abbreviato VA) è la misura dell'incremento di valore che si verifica nella produzione di beni e servizi finali grazie all'intervento dei fattori produttivi (capitale, lavoro, capitale umano) a partire da beni e risorse primarie iniziali.  Input = L, N, Ula, H  π = Q i /L, Ypc/N, VApc/Ula, … 26Leonello G. Tronti

27 27 La più semplice rappresentazione formale (scomposizione) della crescita Leonello G. Tronti

28 28 Da notare Leonello G. Tronti

29 Produttività dell’impresa e probabilità di aumentare l’occupazione, per classi di addetti dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo trimestre 2015) Leonello G. Tronti29 Fonte: Istat, Rapporto competitività 2016. Produttività misurata in termini di valore aggiunto per addetto; Quartili calcolati all’interno di ciascun settore. Livelli di probabilità espressi in termini percentuali

30 Produttività, prodotto e occupazione 30Leonello G. Tronti

31 Produttività oraria in Italia, Germania ed Eurozona (1995-2012) Leonello G. Tronti31 Fonte: Eurostat

32 Nell’insieme, tra il 1995 e il 2014 la produttività oraria (per ora lavorata): è cresciuta del 27% in Germania, del 24% nella media dell’Eurozona, e soltanto del 5,5% in Italia, ovvero meno di un quarto di quanto accadeva nei paesi euro. Ricordiamo che, nello stesso periodo, il Pil italiano è cresciuto del 9% in Italia e del 27% nell’Eurozona. Come si lega la crescita della produttività a quella del prodotto? Nell’insieme, tra il 1995 e il 2014 la produttività oraria (per ora lavorata): è cresciuta del 27% in Germania, del 24% nella media dell’Eurozona, e soltanto del 5,5% in Italia, ovvero meno di un quarto di quanto accadeva nei paesi euro. Ricordiamo che, nello stesso periodo, il Pil italiano è cresciuto del 9% in Italia e del 27% nell’Eurozona. Come si lega la crescita della produttività a quella del prodotto? In Italia la produttività ristagna dal 1995 ed è ferma dal 2000 Leonello G. Tronti32

33 Il contributo della produttività alla crescita 33Leonello G. Tronti

34 34 Crescita del prodotto lordo e contributi della produttività e dell’occupazione nei paesi europei. 1995-2008 (su ogni colonna il valore % del contributo della produttività alla crescita del pil) Fonte: Eurostat Leonello G. Tronti

35 35 Il sistema delle imprese italiane. Evoluzione recente Leonello G. Tronti

36 Imprese per settore di attività economica e classe di addetti - Censimento 2011 - Valori assoluti Leonello G. Tronti36

37 Addetti delle imprese per settore di attività economica e classe di addetti - Censimento 2011 - Valori assoluti Leonello G. Tronti37

38 Nel ventennio tra i censimenti Industria e commercio del 1991 e del 2011 38 Praticamente tutto l’incremento nel numero delle imprese (il 98%) e quasi due terzi dell’incremento occupazionale (il 58%) si realizzano nel segmento delle microimprese. NB: I dati non sono del tutto precisi perché mancano i confronti a parità di campo di osservazione. Leonello G. Tronti

39 Distruzione creatrice: Gli effetti della crisi Leonello G. Tronti39

40 La crisi riduce ulteriormente la dimensione media delle imprese 40 Elaborazioni su dati Istat e Unioncamere; per la dimensione media, medie mobili a 5 termini centrate. Leonello G. Tronti

41 Gli effetti della crisi sull’occupazione dei settori produttivi – 1. I settori (ula: unità di lavoro equivalenti t.p.) 41 Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali  La perdita occupazionale totale è di 1 milione e 880 mila unità (-7,5%).  In termini relativi l’impatto maggiore si ha sulle costruzioni, che perdono quasi un quinto degli occupati.  I termini assoluti è la manifattura a pagare di più (-830 mila unità). Leonello G. Tronti

42 Gli effetti della crisi sull’occupazione dei settori produttivi – 2. In dettaglio 42 Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali Leonello G. Tronti

43 Gli effetti della crisi sull’occupazione dei settori produttivi – 3. I «vincenti» 43 Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali  In termini relativi la crescita occupazionale maggiore si ha nella distribuzione energetica (+3%), ma l’incremento occupazionale assoluto è modesto;  Mentre più consistente è l’aumento di occupazione delle attività professionali, scientifiche e tecniche (+58 mila) e nelle attività artistiche e di intrattenimento (+34 mila). Leonello G. Tronti

44 Variazione tra 2008 e 2013 dell’occupazione per settore e professione (persone) 44 Fonte: Istat, Rapporto Annuale 2014, dati RTFL. Leonello G. Tronti

45 La ‘femminilizzazione’ del mercato del lavoro: una deriva di lungo periodo  Con il ‘nanismo’ delle imprese e la ‘terziarizzazione’ dell’occupazione, la terza tendenza strutturale di lungo periodo del mercato del lavoro è la ‘femminilizzazione’.  Dalla seconda metà degli anni ‘60 si assiste in Italia ad una continua crescita della scolarizzazione, della ricerca di lavoro e dell’occupazione femminile.  In particolare, l’occupazione femminile si mostra più resiliente alle crisi occupazionali: Già nella crisi occupazionale del 1992-1995 la componente occupazionale maschile era stata colpita più duramente di quella femminile. Nella crisi attuale il divario di impatto è ancor più evidente:  I maschi perdono, tra il 2008 e il 213, 973 mila occupati (-6,9%),  Mentre le femmine ne perdono 11 mila (-0,1%) (Istat, RTFL). La proporzione è di 1 posto perduto per le donne contro 88 per i maschi. 45Leonello G. Tronti

46 46 L’impatto della crisi sulle tipologie contrattuali per sesso Fonte: Istat, Rapporto Annuale 2014, dati RTFL. Leonello G. Tronti

47 47 Le cause della differenza di impatto di genere della crisi  Effetti settoriali: alcuni dei settori che hanno perso più occupati (manifattura, costruzioni, agricoltura) sono ad alta incidenza occupazionale femminile, mentre la crescita dei servizi alle famiglie ha assorbito quasi esclusivamente manodopera femminile.  Effetti demografici: le generazioni di donne nate dopo il baby boom rimangono in misura assai maggiore di prima a lavorare fino all’età di pensionamento (tra 2008 e 2013 le ultracinquantenni occupate aumentano di 613 mila unità, pari al 29,9%, mentre per i maschi l’aumento è di 457 mila unità, pari al 12,8%).  Effetti di turnover: se si considerano le persone che nel 2009 non erano occupate, gli ingressi nell’occupazione nei tre anni successivi riguardano le donne in quasi 6 casi su 10.  Effetti contrattuali: le uniche forme contrattuali che segnano un’espansione sono quelle a tempo parziale (sia dipendenti che autonome). Ma l’accettazione da parte femminile di questa modalità lavorativa è molto più ampia. Leonello G. Tronti

48 In definitiva  Allo stato attuale si può dire che l’economia italiana esce dalla crisi profondamente trasformata: 1.È anzitutto più piccola, in termini sia di prodotto che di occupazione, e caratterizzata da imprese sempre più piccole; 2.È assai più terziarizzata, per la differente contrazione dell’occupazione nell’industria e nei servizi; 3.È caratterizzata da una pubblica amministrazione meno numerosa; 4.Ma in compenso da una piccola crescita occupazionale nelle attività professionali, scientifiche, tecniche, artistiche e di intrattenimento. 48Leonello G. Tronti

49 E ancora 5.È un’economia significativamente più femminilizzata, 6.E nella quale le attività professionali, tecniche e scientifiche tendono ad organizzarsi autonomamente invece di trovare spazio nelle imprese di maggiori dimensioni. 7.È un’economia ancora più dualistica, a causa della assai peggiore performance delle imprese meridionali ( aspetto che merita un’analisi approfondita). 49Leonello G. Tronti

50 L’uscita dalla crisi: il Rapporto competitività 2016 dell’Istat Leonello G. Tronti50

51 Le strategie delle imprese Leonello G. Tronti51

52 Le imprese ‘top performer’  L’Istat segnala, nel Rapporto Annuale 2014, che circa un quarto del totale le imprese ha avuto buone performance occupazionali nella crisi, tra il 2011 e il 2013 (su un campione rappresentativo di circa 900 mila imprese con almeno 3 addetti). Queste imprese nel 2011 rappresentavano circa 1/5 del valore aggiunto complessivo; Avevano una dimensione media di circa 12 addetti (molto spostata verso l’alto); Operavano prevalentemente nei servizi (41%) e nel commercio (26%); Erano meno numerose nell’industria (22%) e nelle costruzioni (12%). 52Leonello G. Tronti

53 53 Strategie di performance occupazionale nel 2011-2013  Le strategie di riorganizzazione adottate dalle imprese di successo rilevate dall’Istat sono 11: 1.Raggiungere un più alto livello di efficienza (12,1) 2.Entrare in nuovi mercati (3,4) 3.Intensificare la rete di relazioni interaziendali (3,1) 4.Adottare innovazioni di processo (3,0) 5.Attivare programmi di formazione del personale (2,6) 6.Ampliare la gamma di prodotti/servizi (2,6) 7.Adottare innovazioni organizzative (2,4) 8.Intensificare le esportazioni (2,3) 9.Delocalizzare la produzione (0,8) 10.Difendere le quote di mercato (-2,5) 11.Ridimensionare l’attività (-12,8).  I numeri tra parentesi indicano i contributi, in punti percentuali, alla probabilità di appartenere al gruppo delle imprese ad alta performance occupazionale. Fonte: Istat, Rapporto annuale 2014. Leonello G. Tronti

54 54 Strategie di performance interne e di espansione  Le strategie delle imprese vincenti si possono quindi organizzare in due grandi gruppi: 1.Le strategie di espansione, che comprendono:  Entrare in nuovi mercati; Intensificare la rete di relazioni interaziendali; Intensificare le esportazioni; Delocalizzare la produzione;  e sarebbero associate, se fosse possibile addizionarne gli effetti, ad un incremento complessivo di 9,6 punti percentuali della probabilità di raggiungere una performance occupazionale elevata; 2.Le strategie di riorganizzazione interna, che comprendono:  Raggiungere un più alto livello di efficienza; Adottare innovazioni di processo; Attivare programmi di formazione del personale; Ampliare la gamma di prodotti/servizi; Adottare innovazioni organizzative;  e sarebbero associate, se fosse possibile addizionarne gli effetti, ad un incremento complessivo di 22,7 punti percentuali della probabilità di raggiungere una performance occupazionale elevata. Leonello G. Tronti

55 Quali strategie di espansione?  I dati che abbiamo sinteticamente esposti segnalano che: Le strategie puramente difensive non sono premianti, anzi favoriscono la recessione; Si dimostrano vincenti le strategie di espansione dei mercati di sbocco (esteri, ma non solo) e di rafforzamento delle reti relazionali; Ma più di tutto sembra avere effetto la riorganizzazione interna, mirata a migliorare l’offerta e l’efficienza. 55Leonello G. Tronti

56 Il Rapporto Competitività 2016 dell’Istat. Le fonti statistiche Leonello G. Tronti56 Indicatori trimestrali della domanda di lavoro: Rilevazione mensile sull’occupazione, gli orari di lavoro, le retribuzioni e il costo del lavoro nelle grandi imprese (GI); Rilevazione trimestrale sui posti vacanti e le ore lavorate (Vela); Rilevazione trimestrale su Occupazione Retribuzioni e Oneri Sociali (Oros), in parte basata su dati di fonte amministrativa Inps sulle dichiarazioni contributive (DM2013 virtuale). Indagine qualitativa condotta su campioni rappresentativi delle imprese della manifattura e dei servizi Basi dati micro (struttura, risultati economici delle imprese).

57 Ciclo economico e dinamica occupazionale in Europa  In Italia occupazione in ripresa nei servizi, difficoltà persistenti per l’industria manifatturiera  Per l’industria manifatturiera, l’Italia ha, lungo tutto il periodo considerato, fino ai trimestri più recenti, evidenziato un andamento più negativo rispetto all’area dell’euro nel suo insieme.  Rispetto alla media dei paesi dell’Eurozona, in Italia recupero ritardato di un anno nei servizi; la crescita degli addetti si è riallineata nel corso del 2015.  Nel terzo trimestre l’occupazione dei servizi è cresciuta in Italia in misura maggiore che in Germania, Francia e Spagna.  Analoghe le tendenze per il commercio: ripresa ancora più ritardata, ma superiore a quella media dell’Eurozona nel 2015. Leonello G. Tronti57

58 Addetti alle imprese industriali e dei servizi nell’Area euro e in Italia per macrosettore - Anni 2008-2015 (dati trimestrali, variazioni tendenziali) Fonte: Elaborazioni su dati Istat ed Eurostat - Short-Term Business Statistics

59 La domanda di lavoro: dinamiche delle posizioni lavorative e profili delle imprese in crescita  In Italia, la ripresa dell’occupazione ha anticipato il recupero produttivo, in un contesto di debolezza degli investimenti.  L’inversione ciclica dell’output settoriale nel 2015. Crescita congiunturale del valore aggiunto in volume dal primo trimestre 2015 per l’industria, dal secondo per i servizi. Progressivo rallentamento della crescita macroeconomica in corso d’anno.  Le dinamiche settoriali del volume di fatturato nel 2013- 15 Manifattura: buone performance per autoveicoli, farmaceutica, altri mezzi di trasporto, altre industrie, gomma, abbigliamento. Problemi di diffusione e stabilizzazione delle spinte alla crescita: a novembre 2015 in espansione poco più della metà dei settori. Servizi: buone performance di fatturato per ricerca, selezione e fornitura del personale, commercio all’ingrosso, trasporti. Leonello G. Tronti59

60 Indice di diffusione della crescita congiunturale del fatturato (in volume) dei settori industriali (incidenza percentuale dei settori in espansione). Gennaio 2011-novembre 2015 Fonte: Istat, Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, gennaio 2016

61 Fatturato per divisione di attività economica, imprese manifatturiere – Anni 2013-2015 (gennaio-settembre; variazioni percentuali, dati grezzi) Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Indagine mensile sul fatturato delle imprese industriali Verde: fatturato totale in aumento (2013-2015); Rosso: fatturato totale in diminuzione (2013-2015)

62 62 Fatturato per divisione di attività economica, imprese dei servizi - Anni 2013-2015 (gennaio-settembre; variazioni percentuali, dati grezzi) Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Indagine trimestrali sul fatturato delle imprese dei servizi Verde: fatturato totale in aumento (2013-2015); Rosso: fatturato totale in diminuzione (2013-2015) Leonello G. Tronti

63 La domanda di lavoro nelle imprese italiane (2)  La crescita delle posizioni lavorative dipendenti nelle imprese Terzo trimestre 2015: posizioni lavorative dipendenti nelle imprese in aumento dell'1,3% su base annua, tasso molto vicino a quello stimato dall’indagine campionaria sulle forze di lavoro per gli occupati dipendenti (+1,4%), su un campo di osservazione più ampio e su una definizione diversa di occupazione.  L’input di lavoro: ore lavorate, CIG, posizioni lavorative Fino al primo trimestre 2015, aumento complessivo del monte ore, trainato dall'incremento delle ore lavorate per dipendente, con i posti di lavoro in diminuzione. Dal secondo trimestre sono tornate ad aumentare le posizioni lavorative. Notevoli differenze settoriali: industria manifatturiera e soprattutto costruzioni ancora in flessione, servizi di mercato in forte recupero, servizi alla persona in continua espansione. Leonello G. Tronti63

64 La domanda di lavoro nelle imprese italiane (3)  Estensione e intensità dei processi di creazione/distruzione di posti di lavoro dipendente Analisi dei dati individuali delle imprese con dipendenti attive nei tre anni compresi tra il 2013 e il 2015 (panel chiuso di circa 1 milione di unità, con poco meno di 10 milioni di dipendenti).  2013-2015 (terzo trimestre di ciascun anno): il 32% delle imprese ha aumentato i posti di lavoro dipendente, il 29,2% li ha diminuiti, il restante 38,8% non ha modificato i propri livelli occupazionali.  1,1 milioni posizioni lavorative dipendenti create, 845mila distrutte, saldo positivo di 255mila posti di lavoro nel biennio.  Il tasso di variazione dell’occupazione delle imprese in espansione è +16,5% nel 2014 e +17,1% nel 2015; quello delle imprese in flessione è -10,1% e -11,1% rispettivamente. Leonello G. Tronti64

65 La domanda di lavoro nelle imprese italiane (4)  Nel 2015 (terzo trimestre, sullo stesso periodo del 2014): aumento dei casi di espansione occupazionale (coinvolgono il 27,4% delle imprese nel 2014 ed il 28,2% nel 2015); ridimensionamento delle contrazioni (dal 25,9% al 25,7%).  Le imprese di media dimensione (50-249 addetti) evidenziano la maggiore diffusione di comportamenti espansivi (oltre il 50% di unità in crescita sia nel 2013- 14 sia nel 2014-15).  Nel 2015 le piccole imprese mostrano un aumento della propensione alla crescita occupazionale, le medie e le grandi imprese un ridimensionamento, rispetto a quanto rilevato nel 2014. Leonello G. Tronti65

66 La domanda di lavoro nelle imprese italiane (5)  Creazione di nuovi posti di lavoro nel 2015: le eterogeneità dell’industria e la spinta delle imprese dei servizi. Nella manifattura, nonostante la debolezza della dinamica occupazionale generale, numerosi settori hanno visto aumentare le posizioni lavorative in ciascuno dei due ultimi anni (9 su 23). In 7 casi, invece, si è registrato un decremento di posizioni lavorative in entrambi gli anni. Forti e diffuse le spinte alla crescita occupazionale nei servizi di mercato. I comparti dei servizi alla persona evidenziano una performance ancora migliore della dinamica occupazionale, sia in termini di diffusione sia di intensità. Leonello G. Tronti66

67 67 Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Oros) Verde: Posti di lavoro in aumento (2013-2015); Rosso: posti di lavoro in diminuzione (2013-2015); Grigio: posti di lavoro sostanzialmente stabili (2013-2015) Dinamica delle posizioni lavorative per divisione di attività economica, Manifattura – Anni 2013-2014 e 2014-2015 (terzo trimestre, variazioni tendenziali) Leonello G. Tronti

68 68 Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Oros) Verde: Posti di lavoro in aumento (2013-2015); Rosso: posti di lavoro in diminuzione (2013-2015); Grigio: posti di lavoro sostanzialmente stabili (2013-2015) Dinamica delle posizioni lavorative per divisione di attività economica, servizi di mercato - Anni 2013-2014 e 2014-2015 (terzo trimestre, variazioni tendenziali) Leonello G. Tronti

69 69 Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Oros). Verde: Posti di lavoro in aumento (2013- 2015) Dinamica delle posizioni lavorative per divisione di attività economica, servizi alla persona – Anni 2013- 2014 e 2014-2015 (terzo trimestre, variazioni tendenziali) Leonello G. Tronti

70 La domanda di lavoro nelle imprese italiane (6)  I profili delle imprese che creano occupazione. Per le imprese a più alta produttività del lavoro la probabilità di crescere è tra i 7 e i 15 punti superiore a quella delle unità della stessa classe dimensionale/settore a produttività inferiore. Per le imprese esportatrici il “premio” è significativamente più elevato per le imprese medie e per le microimprese. L’età dell’impresa conta soprattutto tra le microimprese, dove la probabilità di aumentare l’occupazione è, per le imprese di più recente costituzione, tra i 13 e i 22 punti percentuali più alta. Nelle microimprese: maggiore propensione alla crescita dei dipendenti per le imprese condotte da un imprenditore giovane e per quelle gestite da un imprenditore di nazionalità straniera. Leonello G. Tronti70

71 71 Produttività dell’impresa e probabilità di aumentare il numero delle posizioni lavorative dipendenti, per classi di addetti dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo trimestre 2015)(a) Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Asia, Oros, Vela-GI, Frame-SBS) (a) Produttività del lavoro misurata in termini di valore aggiunto per addetto; Quartili calcolati all’interno di ciascun settore. Per comodità espositiva, i livelli di probabilità sono espressi in termini percentuali Leonello G. Tronti

72 72 Attività di esportazione nelle imprese manifatturiere e probabilità di aumentare il numero delle posizioni lavorative dipendenti, per classi di addetti dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo trimestre 2015)(a) Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Asia, Oros, Vela-GI, Frame-SBS) (a) Per comodità espositiva, i livelli di probabilità sono espressi in termini percentuali Leonello G. Tronti

73 73 Età dell’impresa e probabilità di aumentare il numero delle posizioni lavorative dipendenti, per classi di addetti dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo trimestre 2015) (a) Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Asia, Oros, Vela-GI, Frame-SBS) (a) Per comodità espositiva, i livelli di probabilità sono espressi in termini percentuali Leonello G. Tronti

74 Misurare l’attività economica: Il quadro settoriale nelle informazioni dell’Istat Leonello G. Tronti74

75 Misurare l’attività economica  L’attività dei settori economici viene misurata lungo quattro dimensioni: 1.Caratteristiche strutturali, 2.Risultati economici, 3.Strategie, 4.Internazionalizzazione.  Si elencano qui di seguito i 28 indicatori principali afferenti alle 4 dimensioni;  Ma il sito Istat, alla pagina Rapporto Competitività, presenta fogli Excel per ogni settore che riportano complessivamente circa 70 indicatori con dettaglio nazionale e regionale e serie storiche. Ai singoli indicatori si aggiunge poi un Indice sintetico di competitività, che sintetizza i 4 indicatori fondamentali. Leonello G. Tronti75

76 Caratteristiche strutturali 1.Numero di imprese 2.Numero di addetti 3.Valore aggiunto (% sul totale manifattura) 4.Valore aggiunto delle grandi imprese (in % del totale del settore) 5.Numero di imprese nate 6.Numero di imprese cessate 7.Rapporto di concentrazione (CR5: fatturato delle prime 5 imprese/fatturato del settore) (%) 8.Integrazione verticale (valore aggiunto/fatturato) (%) 9.Intensità energetica (Tj/valore della produzione in milioni) Leonello G. Tronti76

77 Risultati economici 1.Valore aggiunto per addetto (mgl euro) (A) 2.Costo del lavoro per dipendente (mgl euro) (B) 3.Competitività di costo (rapporto % tra A/B) 4.Redditività lorda (margine operativo lordo/valore aggiunto) (%) Leonello G. Tronti77

78 Strategie 1.Investimenti per addetto (mgl di euro) 2.Imprese innovatrici (imprese con almeno 10 addetti) (%) 3.Imprese che effettuano acquisti on-line (imprese con almeno 10 addetti) (%) 4.Imprese che effettuano vendite on-line (imprese con almeno 10 addetti) (%) 5.Indice dei prezzi alla produzione sul mercato interno (2010=100) 6.Investimenti per la tutela ambientale (incidenza % sugli investimenti fissi lordi) Leonello G. Tronti78

79 Internazionalizzazione 1.Imprese esportatrici (in % delle imprese del settore) 2.Esportazioni su fatturato (%) 3.Intensità delle importazioni (importazioni di beni e servizi/consumi intermedi) (%) 4.Esportazioni delle imprese del settore (variazioni annue) (%) 5.Esportazioni delle grandi imprese (in % del totale del settore) 6.Indice dei prezzi alla produzione sul mercato estero (2010=100) 7.Fatturato prodotto all'estero (in % del fatturato interno) 8.Valore aggiunto delle imprese a controllo estero (in % del totale del settore) Leonello G. Tronti79

80 Indice sintetico di competitività (Isco)  L’indicatore si basa sulla sintesi (media geometrica) di 4 indicatori fondamentali, rappresentativi di tre delle quattro dimensioni considerate dal Rapporto Competitività: 1.il rapporto tra produttività apparente del lavoro (valore aggiunto per addetto) e il costo unitario del lavoro (Risultati economici), 2.la redditività lorda (Risultati economici), 3.la quota di fatturato esportato (Internazionalizzazione) 4.la propensione all’innovazione (Strategie). Leonello G. Tronti80

81 L’Isco statico Leonello G. Tronti81

82 L’Isco dinamico Leonello G. Tronti82

83 Ma gli indicatori del database Istat sulla competitività sono circa 70  http://www.istat.it/it/competitivita http://www.istat.it/it/competitivita  E sono disponibili sia come fact-sheet sintetici, relativi a ciascun settore, sia come database Excel, in serie storica e con dettaglio nazionale e regionale. Leonello G. Tronti83

84 Dal macro al micro: Il checkup dell’impresa  Sulla base degli indicatori del db Competitività Istat, possiamo provare a costruire un modello di analisi statistica per il checkup dell’impresa.  Ripercorrere tutti gli indicatori che abbiamo esaminati ed eventualmente modificarli per adattarli alle esigenze dell’impresa è un buon esercizio per un gruppo di studio. Leonello G. Tronti84

85 Altri indicatori di produttività, qualità del lavoro ed efficienza dell’impresa  Il Decreto Poletti di incentivazione della contrattazione aziendale, in corso di approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, prevede 20 indicatori di produttività, qualità ed efficienza Da utilizzare per fissare target quantitativi definiti dai contratti aziendali Il cui conseguimento consente l’accesso a sgravi contributivi dei premi, sia per l’azienda che per i dipendenti. I benefici aumentano se la costruzione dei target avviene attraverso un processo di partecipazione dei dipendenti. Leonello G. Tronti85

86 I 20 indicatori di produttività del Decreto Poletti - 1 1.Volume della produzione rispetto ai dipendenti 2. Fatturato per dipendente 3. Margine operativo lordo 4. Indici di soddisfazione del cliente 5. Diminuzione di riparazioni e rilavorazioni 6. Riduzione degli scarti di lavorazione 7. Percentuale di rispetto dei tempi di consegna 8. Rispetto delle previsioni di avanzamento lavori 9. Modifiche dell’organizzazione del lavoro 10. Lavoro agile Leonello G. Tronti86

87 I 20 indicatori di produttività del Decreto Poletti - 2 11. Modifiche dei regimi di orario 12. Rapporto tra costi effettivi e costi previsti 13. Riduzione dell’assenteismo 14. Brevetti depositati 15. Riduzione dei tempi di sviluppo di nuovi prodotti 16. Riduzione dei consumi energetici 17. Riduzione degli infortuni 18. Riduzione dei tempi di lavorazione 19. Riduzione dei tempi di commessa. 20. E’ lasciata una voce per l’individuazione di altri parametri a discrezione di sindacati e impresa. Leonello G. Tronti87

88 Il checkup dell’impresa - 2  Anche gli indicatori del decreto Poletti possono servire a costruire un modello di analisi statistica per il checkup dell’impresa E in particolare per monitorare il miglioramento di produttività, qualità ed efficienza.  Ripercorrere tutti gli indicatori del decreto, precisandone formule e modalità di calcolo, è un buon esercizio per un secondo gruppo di studio. Leonello G. Tronti88

89 Economia della conoscenza e statistica per le imprese Leonello G. Tronti89

90 Economia della conoscenza e capitale umano  Rilevanza sempre maggiore dell’Economia della conoscenza come nuovo paradigma di organizzazione e sviluppo del lavoro, dell’organizzazione e delle economie avanzate nel loro insieme:  Centralità della persona, dell’apprendimento e dell’applicazione dell’intelligenza: al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita; al miglioramento di prodotti, servizi e processi produttivi; alla qualità dell’organizzazione.  Nei paesi avanzati la conoscenza e il capitale umano (come accumulazione di saperi, esperienze e competenze da parte di lavoratori e organizzazioni) sono ritenuti i fattori chiave: dell’innovatività, solidità e sostenibilità delle imprese, della qualità della pubblica amministrazione, e, quindi, della sostenibilità degli stessi livelli di benessere e di protezione sociale. Leonello G. Tronti90

91 Capitale umano: una metafora economicista  Un concetto ancora controverso: il capitale umano rappresenta la mercificazione dell’uomo e del suo lavoro?  Sgombriamo il terreno dagli equivoci: certamente l’uomo non è (soltanto) un grave, non è (soltanto) un animale, non è (soltanto) un produttore; Ma non per questo non ha una massa, una vita biologica, un’attività economica e creativa che possono, e anzi debbono essere studiate con cura.  La metafora economicista del capitale umano si fonda sul riconoscimento che i risultati economici del lavoro umano di regola eccedono i costi della sua preparazione; e che il progresso socioeconomico, tanto delle nazioni quanto delle imprese e degli individui, è consentito da questa eccedenza; Al punto che quanto maggiore è la cura nella preparazione del lavoro, tanto migliori saranno i suoi risultati. Leonello G. Tronti91

92 Lo sviluppo dell’Economia della conoscenza Principali concettualizzazioni della teoria economica e dell’impresa  Teoria macroeconomica del capitale umano (Knight 1944, Abramovitz 1956), lo stato sociale.  Teoria microeconomica del capitale umano (Becker 1964, Mincer 1974), gli investimenti personali e familiari in istruzione.  La crescita endogena (Romer 1990, Lucas 1988 ), Investimenti in R&D e gestione della conoscenza nell’organizzazione.  L’impresa evolutiva (Marshall 1890, Penrose 1973, Nelson e Winter 1982), il benchmarking come strumento di apprendimento organizzativo.  Learning organization (Senge 1990), Apprendere per realizzare il futuro che si desidera. Dalle qualifiche alle competenze.  Learning economy (Lundvall 1992), I sistemi nazionali di innovazione e il ruolo della coesione sociale.  Civicness (Putnam 1993), Beni relazionali (FGB 1997), Economia della conoscenza (Foray 2006, Rooney et al. 2005), L’apprendimento come fenomeno sociale e base di un nuovo modello di crescita.  La conoscenza come bene comune (Hess e Ostrom 2009) Le comunità di conoscenza. Leonello G. Tronti92

93 Ma la conoscenza non è una cosa semplice. E un’impresa che consuma e produce conoscenza deve cambiare profondamente la sua organizzazione Leonello G. Tronti93

94 94 Postulati fondamentali dell’Economia della conoscenza - 1 La conoscenza non è un bene come tutti gli altri. Ha molte caratteristiche del tutto particolari: 1.Anzitutto ha una natura duplice: È un bene di consumo superiore (arte, cultura, intrattenimento, ecc.), Ed è un bene di investimento/fattore produttivo (capitale umano, R&D). 2.Poi è un bene solitamente caratterizzato da non-rivalità nel consumo e debole escludibilità: la cessione di conoscenza non priva il proprietario del bene ceduto (B. Franklin, 1743). Ma c’è spesso rivalità nel potere che la conoscenza consente di ottenere. 3.È un bene il cui valore è molto difficile da valutare ex ante: «chi non sa cosa non sa non può apprezzarne il valore» (Arrow, 1971). Leonello G. Tronti

95 95 Postulati fondamentali dell’Economia della conoscenza - 2 4.È un bene che produce esternalità in modo complesso e con effetti cumulativi: la cessione di conoscenza spesso esercita effetti economici su agenti terzi rispetto alla transazione con cui è stata trasmessa, anche a notevole distanza di tempo dallo scambio. 5.La sua diffusione genera entropia informativa: il consumo di quantità crescenti di conoscenza richiede la produzione di quantità crescenti di “metaconoscenza”. 6.In genere, per i motivi precedenti, ha costi di transazione elevati: chi detiene la conoscenza è disposto a condividerla solo in condizioni particolari, e l’apprendimento non è una processo banale: richiede a chi apprende un costo psichico non indifferente, ma - come il linguaggio - la conoscenza è un bene immediatamente sociale (serve se è condiviso). Leonello G. Tronti

96 E anche gestire la conoscenza non è cosa semplice  La conoscenza è dunque contrassegnata da caratteristiche del tutto particolari, e soprattutto da molti elementi di incertezza: dei risultati degli investimenti (esternalità alla transazione-apprendimento e cumulatività) e conseguente difficoltà di valutazione ex-ante (Arrow), dei diritti di proprietà (infinita divisibilità, non rivalità nel consumo e facile riproducibilità), della qualità, per la continua produzione di entropia informativa, (e altri ancora).  Per questi motivi, la trasmissione di conoscenza (apprendimento) è tipicamente gravata da costi di transazione elevati, e ne risulta ostacolata.  La diffusione della conoscenza trova poi ostacoli anche nell’atteggiamento personale di chi è cosciente di questi costi (escludibilità): chi detiene la conoscenza può essere disposto a condividerla solo a condizioni particolari, non sempre di carattere monetario (v., ad es., il Tao Te Ching: “coloro che sanno non parlano, coloro che parlano non sanno”). Leonello G. Tronti96

97 La conoscenza è potere: l’obiettivo fondamentale della gestione della conoscenza è lo sviluppo della competenza Ai fini della qualità e della produttività della prestazione lavorativa (che coinvolge processi, prodotti/servizi, organizzazione) non basta che i lavoratori detengano la conoscenza indispensabile, ma è necessario che agiscano con la necessaria competenza.  La competenza si basa sulla conoscenza, ma la supera in quanto la completa e la rende operativa.  Oltre alla conoscenza, i principali elementi costitutivi della competenza sono solitamente ritenuti (ad es. Dosi e Marengo, 1994): le abilità produttive (skills), l’esperienza le abilità relazionali (networking abilities). Leonello G. Tronti97

98 98 Competenza e volontà di miglioramento Nei nuovi modelli organizzativi, la competenza va definita, sul piano operativo, come capacità di svolgere i compiti lavorativi assegnati:  anzitutto in modo desiderabile (o professionale),  ma anche in accordo con il principio del miglioramento continuo. Diventa perciò chiaro che la competenza emerge soltanto in presenza della volontà di usarla.  Boyatzis (2008) definisce le competenze come «insiemi di comportamenti correlati ma diversi, organizzati attorno ad un sottostante costrutto intenzionale». Per questo, per diventare learning organizations, le organizzazioni debbono creare un ambiente di lavoro (valori, condizioni e relazioni di lavoro, sistemi premiali ecc.) tale da:  incoraggiare e sostenere la volontà dei lavoratori di migliorare continuamente processi e prodotti/servizi. Leonello G. Tronti

99 99 Sviluppo delle competenze e apprendimento quotidiano In sintesi,  Per sviluppare le competenze dei lavoratori è necessario che l’organizzazione diventi: un ambiente di lavoro favorevole all’apprendimento, all’innovazione e al miglioramento continuo,  perché soltanto su questa base le competenze dei lavoratori possono accumularsi, diffondersi e svilupparsi.  Un aspetto molto importante di questo processo (che conferma i risultati dell’andragogia: Knowles et al. 2008) è che lo sviluppo e la diffusione delle competenze, proprio perché vanno oltre la semplice acquisizione di conoscenza, avvengono soprattutto: durante il lavoro quotidiano (everyday learning), e assai meno nei corsi di formazione tradizionali (Frankenberg, 2007). Leonello G. Tronti

100 100 L’iceberg dell’apprendimento Leonello G. Tronti Fonte: Frankenberg (Statistics Sweden), 2007.

101 Conoscenza e flessibilità. Cos’è un’organizzazione flessibile, innovativa, learning? Leonello G. Tronti101

102 Flessibilità, ma quale? A) Organizzazione rigida e flessibilità dei rapporti di lavoro Un primo tipo di flessibilità (nel rapporto impresa-mercato del lavoro) tende a ricercare un miglioramento della competitività di prezzo nei mercati, interni o internazionali, mediante il contenimento del salario e dei costi accessori derivanti dai sistemi di protezione sociale. Si tratta di una strategia a carattere difensivo, con la quale l’impresa mira ad aumentare i profitti o a rispondere in modo immediato (spesso senza un disegno di lungo periodo) alla concorrenza dei paesi emergenti, rimanendo nei segmenti di produzione tradizionali. Una tale strategia si inserisce non di rado in politiche nazionali e di settore focalizzate sul ‘social dumping’. In questo ambito prevale una flessibilità del fattore lavoro di tipo numerico ed esterna all’impresa, caratterizzata essenzialmente sul piano della libertà di assunzione e licenziamento e del ricorso esteso a forme di impiego flessibili, quali i contratti temporanei e le collaborazioni. Leonello G. Tronti102

103 B) Organizzazione flessibile - 1 Un secondo tipo di flessibilità è più conforme a strategie innovative che perseguono un disegno di maggior respiro, che tendono ad accrescere: non soltanto la competitività di prezzo (riduzione difensiva dei costi), ma anche la competitività non di prezzo (qualità del prodotto e servizi connessi), attraverso la collocazione delle imprese in segmenti della produzione di qualità più avanzata e a più alto valore aggiunto, caratterizzati da traiettorie industriali innovative e, quindi, dall’impegno in innovazione, ricerca e sviluppo. Leonello G. Tronti103

104 B) Organizzazione flessibile - 2 Simili strategie devono essere assistite da sistemi di innovazione basati su infrastrutture scientifiche, di formazione e di accrescimento del capitale umano e sulla diffusione di sistemi di coesione sociale. Esse richiedono una flessibilità di tipo funzionale e interna all’impresa, caratterizzata dall’utilizzo di lavoro qualificato, da rapporti di lavoro di lungo periodo, elevata mobilità interna tra compiti e funzioni differenziate e progressione di carriera indotta dalle competenze acquisite. Il processo decisionale segue un ‘approccio consensuale’, in cui i rapporti fiduciari e la responsabilità individuale o di gruppo vengono realizzati mediante il coinvolgimento delle risorse umane nell’organizzazione dell’impresa. Leonello G. Tronti104

105 105 Servono i rapporti di lavoro temporanei? Instabilità occupazionale e bassa crescita Molti sono ormai gli studi econometrici che dimostrano l’esistenza di un legame forte e statisticamente robusto, a livello di impresa, tra lavoro flessibile e bassa produttività (Sciulli, 2006; Colombo, Delmastro e Rabbiosi, 2007; Lucidi e Kleinknecht, 2009; Damiani e Pompei, 2009; Ricci, 2011): – Le imprese che impiegano più lavoro flessibile della media sono anche imprese a bassa produttività e meno sostenibili. Non si tratta solo di un effetto di selezione, per cui le imprese meno produttive hanno meno margini e possono attingere soltanto al serbatoio del lavoro flessibile: – Si tratta di una scelta strategica sbagliata, che punta più a comprimere i costi che a migliorare i risultati del lavoro, – e scambia un vantaggio di costo immediato contro un guadagno più elevato nel futuro e una maggiore solidità dell’impresa stessa. Leonello G. Tronti

106 106 Instabilità occupazionale e conoscenza insufficiente Del resto, con riferimento all’economia della conoscenza, l’instabilità occupazionale: non agevola la partecipazione cognitiva, né la costruzione di comunità di conoscenza, e tanto meno la possibilità di riconoscere la conoscenza come un patrimonio comune dei lavoratori e dell’impresa. Proprio per questo, l’instabilità occupazionale frena l’innovazione organizzativa e la capacità di innovazione di processi e prodotti, rendendo l’impresa più fragile e l’occupazione meno sostenibile. Leonello G. Tronti

107 107 L’impresa moderna: innovativa, flessibile, sostenibile Il modo più semplice e tradizionale di risolvere il problema della creazione di comunità di conoscenza sufficientemente ampie e avanzate è all’interno delle imprese di maggiori dimensioni e/o dei gruppi di imprese. Questa modalità si basa sul riconoscimento del fatto che la competitività dell’impresa deriva da una chiara identità dei suoi prodotti, – e questa, a sua volta, è il risultato di una comunità di conoscenza stabile e coesa, che consente: un capitale umano più specifico all’impresa, la diffusione della partecipazione cognitiva fondata su relazioni di lavoro stabili e di lungo periodo (gli “intangible assets” di Edith Penrose, 1959), un’impresa più competitiva e, perciò stesso, più tutelata dalla concorrenza e sostenibile. Leonello G. Tronti

108 I paradigmi dell’organizzazione flessibile e capace di apprendere Leonello G. Tronti108

109 Lo sviluppo della teoria dell’impresa flessibile  L’impresa evolutiva (Marshall 1890, Penrose 1973, Nelson e Winter 1982), il benchmarking come strumento di apprendimento organizzativo.  Learning organization (Senge 1990), Apprendere per realizzare il futuro che si desidera. Dalle qualifiche alle competenze.  Learning economy (Lundvall 1992), I sistemi nazionali di innovazione e il ruolo della coesione sociale.  Civicness (Putnam 1993), Beni relazionali (FGB 1997), Economia della conoscenza (Foray 2006, Rooney et al. 2005), L’apprendimento come fenomeno sociale (relazionalità) e base di un nuovo modello di crescita.  La conoscenza come bene comune (Hess e Ostrom 2009) Le comunità di conoscenza. Leonello G. Tronti109

110 Qualità dei luoghi di lavoro e sviluppo delle competenze Poiché i lavoratori sviluppano le loro competenze soprattutto nei luoghi di lavoro, le moderne teorie dell’organizzazione cercano sempre più di collocare l’apprendimento, la creazione e diffusione della conoscenza e lo sviluppo delle competenze direttamente nella struttura organizzativa, che va riprogettata a questo fine. Sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro, il paradigma principale per organizzazioni di dimensioni medio-grandi è quello della produzione snella (Womack, Jones e Roos, 1991), di cui il World Class Manufacturing può essere considerato una variante. Mentre, sotto il profilo della psicologia di gruppo, la guida fondamentale allo sviluppo delle competenze nei termini della capacità di creare forme di ‘apprendimento organizzativo’, è offerta dall’approccio della learning organization (Senge, 1990, 2006). Leonello G. Tronti110

111 Paradigmi organizzativi dell’organizzazione flessibile e capace di apprendere Il paradigma fondamentale per l’organizzazione di dimensioni medio-grandi: la produzione snella (lean production, Womack, Jones e Roos, 1991). Leonello G. Tronti111

112 112 La logica della produzione snella (Marsden, 1996): il lavoro HT-HP Leonello G. Tronti

113 Lo scambio tra il lavoratore e l’impresa «snella»  Lo scambio tra impresa e lavoratore che avviene nelle organizzazioni flessibili è essenzialmente quello tra: identificazione del lavoratore con l’impresa, (commitment) alla base della partecipazione cognitiva, contro garanzia del posto di lavoro (impiego a lungo termine, impresa sostenibile) e partecipazione (gestionale, organizzativa e finanziaria). Leonello G. Tronti113

114 114 Decentramento decisionale e controllo dei processi Una delle caratteristiche fondamentali del modello organizzativo della produzione snella è quella della riduzione dei livelli gerarchici,  con un conseguente decentramento delle responsabilità e aumento della discrezionalità ai livelli medio-bassi della struttura organizzativa. Tale caratteristica si combina opportunamente con i moderni sistemi informatici di gestione integrata dell’organizzazione (applicativi gestionali),  che sono in grado di offrire ai manager l’esercizio delle funzioni di monitoraggio, controllo e coordinamento dei processi a costi più contenuti che in una situazione caratterizzata da un’accentuata gerarchizzazione. La governance dell’organizzazione e dei processi è pertanto assicurata dalla complementarità tra: a) tecnologie Ict; b) disegni organizzativi decentralizzanti; c) e pratiche innovative di gestione delle risorse umane (high trust-high performance). Leonello G. Tronti

115 Altri paradigmi di innovazione organizzativa La qualità totale (TQM), La certificazione di qualità (ISO ecc.). La learning organization Il World Class Manufacturing (WCM). «Servire qualità» (Parasuraman) L’impresa responsabile (EFQM, bilanci sociali ecc.). Leonello G. Tronti115

116 Learning organization e miglioramento continuo L’apprendimento organizzativo (la capacità cognitiva dell’impresa) consente di diffondere la logica del miglioramento continuo, che sostiene: l’identità/innovazione (in termini di qualità/specificità) degli stessi processi organizzativi/produttivi e dei prodotti/servizi, e quindi la competitività/sostenibilità dell’impresa e dell’occupazione. Leonello G. Tronti116

117 Leonello G. Tronti117 La logica della Learning organization (Senge, 1990) L’aspetto che definisce un’organizzazione che apprende è che essa “espande continuamente la capacità di creare il proprio futuro – un futuro che realizza i risultati che le persone desiderano”.

118 «Servire qualità». Il modello di Parasuraman Leonello G. Tronti118

119 Il benchmarking: strumento di apprendimento organizzativo  L’organizzazione che apprende fa largo uso delle tecniche di benchmarking, interno ed esterno.  Best performer/follower  Misurazione del performance gap  «Doppio rischio» di Nelson e Winter: sperimentazione e apprendimento organizzativo.  Legame forte tra data analyst e decisore (tra «conoscenza» e «sapienza»). Leonello G. Tronti119

120 Il benchmarking: dei risultati, dei processi e degli standard Leonello G. Tronti120 Fonte: Tronti, 1998

121 Gli otto passi del benchmarking - I  Fase I. Misurazione del gap di performance 1.Scelta della performance (o dell’area) da analizzare. 2.Ricerca e individuazione del best performer. 3.Misurazione (anche cardinale) del performance gap. Leonello G. Tronti121

122 Gli otto passi del benchmarking - II  Fase II. Individuazione delle buone pratiche 4.Valutazione del performance gap, in modo da poter identificare quali buone pratiche e routine ottimali consentono all’impresa benchmark di ottenere la performance di eccellenza. 5.Dalla valutazione alla strategia: individuazione delle raccomandazioni da rivolgere all’impresa follower e della loro successione. Leonello G. Tronti122

123 Gli otto passi del benchmarking - III  Fase III. Adozione e sperimentazione delle buone pratiche 6.Monitoraggio dell’effettiva applicazione delle raccomandazioni formulate nel passo precedente, e della loro sperimentazione. 7.Nuova misurazione del performance gap per controllare che si sia effettivamente ridotto. 8.Se dopo più iterazioni dell’intera procedura dal passo 2) al passo 7) il performance gap è ancora ingente, può essere utile tornare al passo 1), e cambiare il benchmark o il best performer (N&W). Leonello G. Tronti123

124 Leonello G. Tronti124 Il modello EFQM (European Foundation for Quality Management)

125 Il rating come misura del performance gap e presupposto tecnico del benchmarking Leonello G. Tronti125

126 Il modello di Parasuraman Leonello G. Tronti126

127 Il modello di Parasuraman rileva qualità e importanza  A differenza del modello di qualità dell’impresa a pesi fissi dell’EFQM, il modello di valutazione e apprendimento organizzativo Servire Qualità è a pesi variabili.  Attraverso un metodo improntato alla customer satisfaction, il modello SQ rileva tramite questionari rivolti a più soggetti (i dirigenti, il personale e i clienti) la coerenza percepita tra i risultati (qualità percepita) e le aspettative (qualità attesa) per i tre attori fondamentali del processo di produzione e consumo.  I questionari, che consentono di valutare la qualità dell’intero processo, sono costruiti per identificare le cause dello scarto tra qualità attesa e qualità percepita per ognuno dei cinque possibili scostamenti, e vengono rivolti a tutti e due i lati della comunicazione (decisore e dirigenti, dirigenti e produzione, produzione e comunicazione, comunicazione e clienti, decisore e clienti).  Oltre a richiedere una valutazione numerica della qualità dei diversi indicatori relativi allo specifico scostamento analizzato (ad esempio su una scala da 0 a 10), i questionari includono una seconda colonna, in cui l’intervistato deve indicare l’importanza per la qualità della comunicazione che egli attribuisce all’aspetto valutato attraverso l’indicatore (sempre su una scala, ad esempio da 0 a 10). Leonello G. Tronti127

128 Definizione del peso da attribuire al singolo indicatore  Le medie aritmetiche semplici di questi valori forniti dagli intervistati, ovvero le “valutazioni di importanza”, vengono assunte come pesi da attribuire ai diversi elementi (indicatori) che definiscono le cause degli scostamenti tra qualità percepita e qualità attesa.  In questo modo è possibile operare una ponderazione delle valutazioni elementari (qualità dei singoli aspetti della comunicazione, ad es. completezza, tempestività, affidabilità) che consente di pervenire a una valutazione sintetica della “gravità” relativa di ciascuno dei cinque scostamenti cognitivi analizzati, e quindi del grado di necessità di interventi correttivi. Dunque non solo il livello di qualità dei singoli aspetti della comunicazione, ma anche i pesi degli indicatori di qualità nel modello SQ di Parasuraman (che denotano l’importanza relativa) non sono fissi: a differenza di quanto accade nei modelli a pesi fissi (ad esempio del caso EFQM), essi possono variare nei diversi contesti spazio-temporali, sulla base delle opinioni dei clienti, dei dipendenti e dei dirigenti, riscontrate attraverso le indagini. Leonello G. Tronti128

129 Esempio numerico di applicazione della metodologia a pesi variabili al rating di qualità di strutture di orientamento al lavoro Leonello G. Tronti129

130 Processo di aggregazione degli indicatori di qualità del servizio i-esimo sulla base della loro importanza in tutte le strutture (esempio numerico) Leonello G. Tronti130

131 Punteggi sintetici di qualità dei diversi servizi offerti dalla struttura C Leonello G. Tronti131  Ripetendo questa procedura per tutti i servizi offerti da una struttura di orientamento, sarà quindi possibile ottenere per tutti un punteggio di qualità nella scala 0-10.  Il risultato è illustrato dalla tabella sopra, che riporta un esempio numerico costruito sull’ipotesi che la struttura C in esame offra tutti i servizi previsti dal modello di valutazione.  A questo punto, ripetendo questa procedura per tutte le strutture in esame, sarà possibile produrre, per ognuna di esse, un analogo insieme di punteggi sintetici di qualità dei servizi offerti

132 Punteggi di qualità dei servizi offerti in tutte le strutture esaminate (esempio numerico) Leonello G. Tronti132

133 Valore dei risultati ottenuti  I dati raccolti consentono di ottenere un ordinamento dei servizi offerti dalle diverse strutture, e di identificare così i servizi migliori e quelli più bisognosi di miglioramento (ad esempio, tutti i servizi con un punteggio inferiore a 5), indipendentemente dalla struttura di appartenenza;  è inoltre possibile avere una valutazione dei servizi mediamente migliori o peggiori, sulla base dei punteggi medi. Leonello G. Tronti133

134 Costruzione delle scale di rating dei servizi e passaggio al rating delle strutture  Pur potendosi apprezzare il risultato illustrato nella slide precedente, va tuttavia rimarcato che si tratta di un risultato parziale.  Esso illustra la procedura per giungere alla costruzione (in ambito nazionale o locale) di scale di rating per tutti i singoli servizi offerti da ogni struttura.  Tuttavia mostra anche che non è ancora possibile pervenire ad un rating sintetico della qualità delle diverse strutture, in quanto esse sono anzitutto caratterizzate da notevoli disparità nel numero, oltre che nella qualità dei servizi offerti: non tutte le strutture offrono infatti tutti i servizi e, anzi, alcune ne offrono certuni ed altre altri, e poche offrono tutti i servizi. Leonello G. Tronti134

135 Graduatorie di qualità dei servizi offerti dalle strutture A-L (esempio numerico) Leonello G. Tronti135

136 Risultati ottenuti  Tali informazioni esprimono solo molto parzialmente una valutazione della qualità complessiva delle strutture sotto esame. La struttura I si presenta come una delle migliori, in quanto si classifica prima nel servizio di accoglienza/informazione e seconda in quello di consulenza orientativa. Ma un analogo risultato presenta la struttura D, che è seconda nell’accoglienza/informazione e prima nella consulenza orientativa. Inoltre, entrambe le strutture offrono soltanto i primi due servizi. Solo tre strutture su dieci offrono tutti e quattro i servizi, e di queste non è in alcun modo chiaro quale possa ritenersi la migliore. Leonello G. Tronti136

137 Dominanza e distanza  La realizzazione di una procedura di misurazione del performance gap tra diverse strutture richiede la capacità di ottenere il loro ordinamento lungo una scala di qualità: sia ordinale (in grado cioè di indicare la dominanza di un elemento su di un altro), sia cardinale (in grado cioè di indicare anche la distanza di un elemento della graduatoria dagli altri).  In generale, se anche tutte le strutture offrissero tutti i tipi di servizio, la dominanza o eccellenza di una struttura rispetto ad un’altra è chiara solo nel caso in cui il suo punteggio sia superiore almeno per un servizio e uguale per gli altri.  In tutti gli altri casi non è possibile ottenere rapporti di dominanza, e pertanto non è possibile nemmeno costruire scale di rating delle strutture.  A maggior ragione non è possibile costruire scale di qualità tra strutture che offrono differenti mix di servizi. Leonello G. Tronti137

138 Un nuovo vettore di pesi  Per risolvere quest’impasse è necessario individuare un’ulteriore insieme di pesi di importanza, costruzione che può essere effettuata sulla base di procedimenti analoghi a quelli che consentono l’aggregazione dei valori degli indicatori elementari.  Ad esempio, attraverso una nuova interrogazione a questionario di testimoni privilegiati (in questo caso, i responsabili di ciascuna struttura esaminata), si rileva l’importanza relativa dei quattro diversi servizi, in modo da stabilire un nuovo vettore di pesi da attribuire alle valutazioni di qualità dei diversi servizi offerti dalle strutture.  In questo modo, e dopo aver normalizzato alla scala 0-10 i pesi ottenuti, si può giungere alla ponderazione delle valutazioni grezze riferite ai servizi e quindi ad una valutazione finale aggregata delle strutture in base alla media ponderata delle valutazioni dei servizi da esse offerti (qualità della struttura = qualità e importanza dei servizi offerti). Leonello G. Tronti138

139 Applicazione del sistema di ponderazione e punteggi sintetici di qualità delle strutture (esempio numerico) Leonello G. Tronti139

140 Graduatoria di qualità delle strutture A-L Leonello G. Tronti140  Infine, sulla base di questi risultati, è possibile giungere finalmente alla costruzione di un’unica graduatoria di qualità delle strutture sottoposte a valutazione.  La graduatoria tiene conto sia del numero sia della qualità dei servizi offerti, sulla base dell’importanza relativa attribuita ai servizi stessi da parte degli operatori.

141 Misura del performance gap  La graduatoria consente di valutare sia nel complesso, sia analiticamente (con riferimento ai singoli servizi), non solo la dominanza ma anche la distanza tra il best performer e i follower. Leonello G. Tronti141

142 Perché cresce la produttività? 142Leonello G. Tronti

143 La visione mainstream (neoclassica) Leonello G. Tronti143

144 La funzione di produzione Cobb-Douglas Leonello G. Tronti144

145 Punti notevoli  I fattori di produzione (L, K) hanno rendimenti costanti (non ci sono economie di scala) e complessivamente unitari (a+b=1).  La produttività è: multifattoriale (deriva dall’interazione tra i diversi fattori… se ne possono aggiungere altri); residuale (è l’unica grandezza ignota nell’equazione).  Le elasticità del prodotto ai fattori (a, b) sono ipotizzate uguali alla rispettiva quota distributiva nel valore aggiunto, nell’assunto che il mercato concorrenziale paghi ai fattori la loro produttività media (non marginale). Leonello G. Tronti145

146 Dunque la produttività multifattoriale Leonello G. Tronti146 Produttività parziale del lavoroProduttività parziale del capitale

147 Punti notevoli  Il calcolo richiede molte, forse troppe assunzioni «eroiche» sui pesi (a, b, w L, w K ),  per ottenere un risultato che in fin dei conti ha una capacità euristica modesta: Mettiamo che la misura sia corretta.  A che serve? Come può utilizzarla un’impresa? O anche un governo?  È possibile varare misure che aumentino la produttività del lavoro senza avere effetti su quella del capitale, o viceversa? Leonello G. Tronti147

148 Il funzionamento teorico delle «riforme strutturali» per la crescita 148 Elaborazione basata su Blanchard, Giavazzi, 2003 Leonello G. Tronti

149 Da dove viene la crescita?  In questo modello l’impresa è spinta ad innovare dalla concorrenza, L’innovazione, a sua volta, consente di accrescere la produttività,  L’aumento di produttività consente di contenere i prezzi, e dunque di aumentare la competitività di beni e servizi, La crescita deriva dalla maggior penetrazione sui mercati internazionali E dall’aumento del potere d’acquisto e dei consumi sul mercato interno. Leonello G. Tronti149

150 Il cuore del modello  Nel modello Blanchard-Giavazzi i motori della crescita sono due: La concorrenza E il rapporto tra la dinamica dei salari e quella dei prezzi al consumo:  La crescita salariale dev’essere moderata, per evitare spinte inflazionistiche,  Ma l’impresa (o meglio le imprese) deve (debbono) «spendere» in parte almeno i guadagni di produttività per contenere la dinamica dei prezzi al consumo al disotto di quella salariale, e assicurare così la crescita della domanda interna. Leonello G. Tronti150

151 Cose da misurare  Il livello di concorrenza del mercato (interno, internazionale) in cui opera l’impresa  L’innovatività dell’impresa  La dinamica della produttività  La dinamica dei salari o meglio del costo del lavoro  La dinamica dei prezzi praticati dall’impresa Leonello G. Tronti151

152 Ma è davvero la concorrenza a spingere la produttività? Un approccio differente Leonello G. Tronti152

153 153 Il modello di Sylos Labini (1984…2005) (m, n e t sono ritardi, con m<n,t) Leonello G. Tronti

154 Verifiche econometriche del modello realizzate da PSL 154 Fonte: Corsi e Guarini, 2007, p. 21. Leonello G. Tronti

155 155 1. L’“effetto Smith”  Adam Smith: L’aumento delle capacità produttive del lavoro dipende dalla divisione del lavoro, che a sua volta dipende dall’estensione del mercato.  L’intuizione di Adam Smith precorre di secoli le analisi sul ruolo della domanda nella determinazione della crescita; L’estensione del mercato interno, ad esempio, dipende anzitutto dalla dinamica dei salari e quindi da quella degli investimenti, della spesa pubblica e delle esportazioni nette. Dunque, in quest’ottica, è la crescita del pil o quella dei mercati esteri a determinare la dinamica della produttività, e non viceversa. Leonello G. Tronti

156 156 L’“effetto Smith” e le invenzioni  Per Paolo Sylos Labini (2004), nella valutazione del funzionamento dell’ «effetto Smith» nei confronti del progresso tecnico è necessario distinguere Le “Grandi invenzioni” (degli scienziati) dalle “piccole invenzioni” (di lavoratori e imprenditori).  Sono le piccole invenzioni ad essere endogene e più facilmente attivate dall’ «effetto Smith»,  e quindi in generale più importanti ai fini della crescita economica. Leonello G. Tronti

157 La legge di Verdoorn (a)  L’«effetto Smith» combina il ruolo della domanda con quello del progresso tecnico in termini di divisione e specializzazione del lavoro.  Le analisi successive sull’influenza della crescita sulla produttività si sono soffermate anche sui rendimenti di scala crescenti, legati alla dimensione delle imprese e alle economie di scala, in termini sia fisici (la c.d. cube rule di Thirlwall), sia organizzativi.  La «legge di Verdoorn» (dall’economista olandese Petrus Johannes Verdoorn), evidenzia, per l’appunto, che un’accelerazione della produzione aumenta la produttività a causa di rendimenti crescenti. «Nel lungo periodo una variazione del volume della produzione, diciamo di circa il 10 per cento, tende ad essere associata con un aumento medio della produttività del lavoro del 4,5 per cento» (Verdoorn, 1949, p. 59). 157Leonello G. Tronti

158 La legge di Verdoorn (b)  La legge di Verdoorn si differenzia dall’ "ipotesi usuale... che la crescita della produttività sia principalmente spiegata dal progresso delle conoscenze in campo scientifico e tecnologico" (Kaldor, 1966, p. 290), come tipicamente ipotizzato nei modelli di crescita neoclassici (ad esempio, il modello di Solow), Ed è invece solitamente associata con i modelli di causazione cumulativa della crescita, in cui è la domanda piuttosto che l'offerta a determinare il ritmo dell’accumulazione.  Un ‘coefficiente di Verdoorn’ vicino a 0,5 si trova anche nelle successive stime della legge. Nicholas Kaldor (1966, p. 289) riporta un coefficiente pari a 0,484, E Sylos Labini, come abbiamo visto, riporta nelle sue stime dell’«effetto Smith» su diversi paesi, periodi e settori, coefficienti con un valore medio di 0,43 (in Italia il coefficiente medio è più alto: 0,55). 158Leonello G. Tronti

159 Kaldor e Thirlwall: il ruolo della domanda estera  Nicholas Kaldor (1966) e Anthony Thirlwall (1979) hanno sviluppato modelli di crescita export-led basati sulla legge di Verdoorn: Per un dato paese un'espansione del settore delle esportazioni può causare una specializzazione nella produzione di prodotti destinati all'esportazione. La specializzazione aumenta il livello di produttività e il livello delle competenze nel settore esportatore (divisione e specializzazione del lavoro). Ciò può quindi portare ad una riallocazione di risorse dal settore non esportatore, meno efficiente, al settore esportatore, più produttivo; La riallocazione conduce a prezzi più bassi per i beni esportati e a una maggiore competitività delle esportazioni. L’aumento di produttività può quindi portare all’espansione dell’export e alla crescita della produzione.  A volte la legge di Verdoorn viene chiamata legge o effetto di Kaldor-Verdoorn. 159Leonello G. Tronti

160 Cosa misurare  La dinamica del mercato su cui opera l’impresa, ovvero: La crescita attuale e prevista del mercato interno, La crescita attuale e prevista dei mercati internazionali, Le possibili economie di scala, La capacità dell’impresa di coprire l’espansione del mercato e i costi da sostenere. Leonello G. Tronti160

161 161 2. L’“effetto Ricardo”  Per Ricardo la produttività cresce come effetto di un risparmio diretto del coefficiente di lavoro a parità di produzione, Il risparmio diventa necessario quando si verifica un aumento del costo relativo del lavoro,  Ossia un aumento del costo del lavoro rispetto al prezzo delle macchine. La sostituzione può provocare nel breve periodo, in presenza di una domanda stagnante o rigida rispetto al prezzo, la c.d. «disoccupazione tecnologica».  Punti di contatto con Marx: «Le macchine corrono là dove c’è lo sciopero».  Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente del costo relativo del lavoro, con un ritardo medio tra 2 e 3 anni, è pari a 0,43. Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,41. Leonello G. Tronti

162 Cosa misurare  L’andamento del costo del lavoro  L’andamento dei prezzi dei macchinari che potrebbero sostituire il lavoro  Il costo del processo di sostituzione Leonello G. Tronti162

163 Un’analogia con l’effetto Ricardo per le imprese internazionali  Nel caso di imprese che operano a livello internazionale, a parità di mercato di sbocco, la redditività aziendale può crescere attraverso un processo di sostituzione di lavoro nazionale più costoso con lavoro localizzato in paesi esteri, di qualità comparabile ma meno costoso.  Un processo di questo tipo aumenta la redditività modificando la distribuzione del valore aggiunto tra salari e profitti, Ma non modifica la produttività dell’impresa. Leonello G. Tronti163

164 Cosa misurare  L’andamento nei diversi paesi del costo del lavoro per lavoratori di pari professionalità,  Il costo del processo di sostituzione di lavoro nazionale con lavoro estero. Leonello G. Tronti164

165 3. Il costo assoluto del lavoro  Il movimento del costo assoluto del lavoro è dato dalla differenza tra la variazione del clup e quella dei prezzi del prodotto. Il costo del lavoro per unità di prodotto in termini nominali (clup; «unit labour cost», ulc, in inglese) è dato dal rapporto tra il costo del lavoro per unità di lavoro e la produttività del lavoro ( clup=cl/π ). Il clup è comunemente considerato uno dei principali indicatori di competitività del sistema economico così come dell’impresa. Si noti, però, che il clup è il rapporto tra una grandezza nominale (il costo del lavoro per unità di lavoro) e una grandezza reale (la produttività del lavoro).  Il costo assoluto del lavoro misura pertanto l’andamento del costo del lavoro non in termini nominali, ma in relazione ai prezzi di beni e servizi. 165Leonello G. Tronti

166 Effetti del rapporto tra variazione del clup e inflazione  Se il clup cresce meno dei prezzi, il costo assoluto del lavoro si riduce e le imprese aumentano i loro margini di guadagno,  Se, invece, il clup cresce più dei prezzi, il costo assoluto del lavoro aumenta, E gli imprenditori tentano di salvaguardare i propri guadagni riducendo l’occupazione o riorganizzando la produzione per rendere i lavoratori più produttivi. In genere l’effetto dell’aumento del costo assoluto del lavoro sulla dinamica della produttività è piuttosto rapido (qualche trimestre- un anno)  Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente del costo assoluto del lavoro, con un ritardo di 1 anno, è pari a 0,18. Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,15. 166Leonello G. Tronti

167 Cosa misurare  La variazione del costo del lavoro per unità di prodotto (rapporto tra costo del lavoro per unità di lavoro dipendente e valore aggiunto a prezzi costanti per unità di lavoro),  La variazione dei prezzi al consumo e di quelli praticati dall’impresa,  La quota del lavoro nel valore aggiunto, possibilmente corretta per gli indipendenti. Leonello G. Tronti167

168 4. Gli investimenti pregressi  Si tratta degli investimenti realizzati negli anni precedenti (t=2 anni); gli investimenti correnti, infatti, sono troppo recenti per causare effetti produttivi di rilevo, e pertanto svolgono un ruolo economico soltanto dal lato della domanda, in termini di ampliamento del mercato dei beni capitali (effetto Smith). Mentre soltanto gli investimenti realizzati in precedenza influenzano sia la capacità produttiva, sia la crescita della produttività nel periodo corrente. In generale, infatti, i nuovi beni capitali impiegano 2 anni a integrarsi nei processi produttivi al punto da accrescerne la produttività.  Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente degli investimenti pregressi, con un ritardo di 2 anni, è pari a 0,08. Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,06. 168Leonello G. Tronti

169 Cosa misurare  La dinamica degli investimenti (mezzi di trasporto, macchinari, attrezzature, altro), In valore assoluto e a prezzi costanti, Ma anche per unità di lavoro (ad es. per persona, per equivalente a tempo pieno, per ora lavorata).  Il tempo che i diversi tipi di investimento impiegano ad essere pienamente operativi. Leonello G. Tronti169

170 Misurare il costo e la remunerazione del lavoro Leonello G. Tronti170

171 Costo del lavoro, Cuneo fiscale e retribuzione netta  Costo del lavoro = retribuzione netta + cuneo fiscale e contributivo.  Cuneo fiscale e contributivo = imposta personale sul reddito da lavoro dipendente (Irpef) + contributi sociali a carico del lavoratore + contributi a carico del datore di lavoro.  Il Cuneo fiscale e contributivo, è pari, in media, al 46,1% del costo del lavoro. Ovvero, la retribuzione netta è pari al 53,9% del costo del lavoro E il Cuneo è pari all’85,5% della retribuzione netta Leonello G. Tronti171

172 Dati rilevati dall’Istat: il reddito da lavoro dipendente  Reddito da lavoro dipendente = costo sostenuto dai datori di lavoro a titolo di remunerazione dell’attività prestata alle proprie dipendenze dai lavoratori sia manuali che intellettuali.  Redditi da lavoro dipendente = retribuzioni lorde + oneri sociali a carico dell’impresa. Leonello G. Tronti172

173 Struttura del costo del lavoro (2015) Leonello G. Tronti173  La tavola, basata sui Conti nazionali Istat, presenta un dato medio per l’intera economia nel 2015,  La struttura è calcolata come numeri indice che prendono a base il costo del lavoro (reddito da lavoro dipendente) (A) o la retribuzione netta (B).

174 Evoluzione recente del costo del lavoro e delle retribuzioni lorde  Nel quinquennio, le retribuzioni lorde per ora lavorata sono la voce retributiva che aumenta di più (5,1%), mentre le retribuzioni lorde per ula aumentano del 4,04% e il reddito da lavoro dipendente del 3,36%. Perché?  Si noti che si tratta di valori correnti o nominali, ovvero al lordo dell’inflazione. Leonello G. Tronti174

175 Valori deflazionati con l’indice dei prezzi al consumo (Ipca)  Il quadro cambia notevolmente. Tutte le variabili hanno un segno negativo, particolarmente evidente per le retribuzioni lorde per occupato (perché?) E per il reddito lordo per abitante (perché?) Leonello G. Tronti175

176 Valori deflazionati con i prezzi del prodotto (deflatore del pil)  Il quadro cambia ancora. Tutte le variabili hanno ancora un segno negativo, ma di entità minore (perché?). Quali sono le differenze tra i due indicatori di prezzo? Leonello G. Tronti176

177 Elementi retributivi e modi di misurare la retribuzione Leonello G. Tronti177

178 I minimi contrattuali  Si tratta generalmente di importi mensili fissi, commisurati a un impegno ad orario pieno.  Ma poiché il contratto definisce anche l’entità dell’orario, implicitamente stabilisce anche la minima retribuzione oraria. Di regola il contratto nazionale definisce anche la retribuzione per il lavoro straordinario e altre voci retributive legate al tipo di lavoro svolto (indennità di posizione e di rischio), che dunque concorrono a definire la retribuzione contrattuale.  I minimi contrattuali mantengono nel tempo il loro potere d’acquisto attraverso un meccanismo di adeguamento sincronico rispetto all’aumento dei prezzi al consumo: I contratti nazionali di categoria prevedono infatti nell’arco di vigenza aumenti pari all’inflazione prevista (dall’Istat), misurata in base all’indice Ipca depurato dei beni energetici importati.  L’Istat calcola inoltre mensilmente un indice delle retribuzioni contrattuali, in termini sia mensili che orari, che tiene conto di questi elementi per i principali contratti nazionali di categoria. Leonello G. Tronti178

179 Minimi contrattuali  I minimi contrattuali, sono definiti dai contratti nazionali di categoria per i lavoratori coperti da ciascun contratto e per ognuna delle qualifiche previste dal contratto (inquadramento per livelli e fasce).  Sotto il profilo giuridico, costituiscono un’applicazione del principio costituzionale di un’uguale remunerazione per un uguale lavoro (retribuzione «commisurata alla qualità e quantità di lavoro», art. 36).  Le imprese che aderiscono al contratto sono tenute ad applicare i minimi contrattuali, e la giurisprudenza li considera comunque legali e sufficienti «ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (ivi). Leonello G. Tronti179

180 Tensione contrattuale  Sulla base delle scadenze dei contratti e delle date di rinnovo l’Istat calcola anche alcuni Indicatori di tensione contrattuale, che si basano su due grandezze: 1.La durata del ritardo di rinnovo del contratto, 2.E il numero dei dipendenti in attesa del rinnovo.  Gli indicatori di tensione contrattuale sono: La quota dei lavoratori in attesa di rinnovo (per settore e in totale), E la durata (in mesi) dell’attesa del rinnovo contrattuale, come indicatore:  Generico: durata dell’attesa del rinnovo del contratto per dipendente (a livello di comparto o complessivo),  O specifico: durata dell’attesa del rinnovo del contratto per dipendente in attesa di rinnovo Leonello G. Tronti180

181 Erogazioni unilaterali  Le erogazioni unilaterali (che possono essere presenti o meno) comprendono: I superminimi, ovvero importi fissi oltre i minimi contrattuali che l’azienda eroga ai dipendenti di propria iniziativa, stabilendo così un livello aziendale di retribuzione base, maggiore rispetto a quanto stabilito dai CCNL, I premi di produzione, ovvero importi periodici (tipicamente erogati una o due volte l’anno), che l’azienda eroga unilateralmente in relazione all’andamento economico.  Possono essere uguali per tutti o differenziati per livello di inquadramento o anche per reparto, struttura o stabilimento, I bonus individuali, ovvero importi ad personam che l’azienda conferisce al dipendente (in particolare ai dirigenti), in relazione ai risultati della struttura o del progetto in cui è impegnato (che dirige).  Sono solitamente differenziati per livello di inquadramento (o complessità della struttura diretta) e per entità dei risultati ottenuti. Leonello G. Tronti181

182 Retribuzione di risultato  La rdr (spesso definita anche «retribuzione di produttività») è un emolumento aggiuntivo rispetto ai minimi di categoria definito dalla contrattazione decentrata o «di secondo livello» (aziendale o territoriale).  Secondo il disegno del modello contrattuale italiano, è questa la voce destinata all’incremento (non inflazionistico) del potere d’acquisto delle retribuzioni. In coerenza con questo principio, la rdr viene erogata in seguito all’effettivo conseguimento di obiettivi, contrattati con i sindacati, a livello aziendale o territoriale, in termini di incrementi di: Produttività, qualità delle produzioni o redditività dell’impresa.  È la contrattazione decentrata a fissare sia l’importo sia la distribuzione della rdr (quanto e a chi).  La rdr è assai poco diffusa (solitamente solo nelle imprese medio grandi, prevalentemente industriali e del Centronord): Con una diffusione non superiore al 30% del totale dei dipendenti. Leonello G. Tronti182

183 Retribuzione reale Leonello G. Tronti183

184 Esercitazioni Leonello G. Tronti184

185 Misurare la retribuzione Leonello G. Tronti185

186 Misurare la disuguaglianza retributiva - 1 Leonello G. Tronti186

187 Disuguaglianza retributiva - 2 Leonello G. Tronti187

188 Disuguaglianza retributiva - 3 Leonello G. Tronti188

189 Disugaglianza retributiva - 4  L’indice di Gini varia tra 0 (uguaglianza) e 1 (massima diseguaglianza). Leonello G. Tronti189  In termini geometrici, l’indice G misura il rapporto tra l’area A, compresa tra la retta a 45° di equidistribuzione e la curva di Lorenz, e l’intera area sottesa alla retta di equidistribuzione (A+B), pari a 0,5. Di conseguenza, l’indice G è anche definito dalla differenza 1−2B, dove B misura l’area sottesa alla curva di Lorenz.  Impiegando quest’ultima formulazione, si ricava che quando l’ammontare complessivo del carattere è equamente distribuito tra le n unità (B=1/2), il valore dell’indice è pari a 0; mentre, quando è posseduto da una sola unità (B=0), l’indice assume valore pari a 1.

190 Formula dell’indice di Gini  Il rapporto di concentrazione di Gini si calcola con la formula:  Dove: P i sono le percentuali cumulate di T in caso di equidistribuzione: e Q i sono le percentuali cumulate di T (reddito): Leonello G. Tronti190

191 Misurare la produttività - 1 Leonello G. Tronti191

192 Misurare la produttività - 2  Misurare l’output: produzione  Fisica o in valore?  a prezzi correnti o a prezzi costanti?  con uno o più output (problema dei pesi)? valore aggiunto  Perché utilizzare il valore aggiunto come misura dell’output?  Come si calcola il valore aggiunto?  Nella misurazione della produttività il valore aggiunto come misura dell’output va considerato a prezzi correnti o a prezzi costanti? Leonello G. Tronti192

193 Misurare la produttività - 3  Misurare l’input di lavoro in termini fisici. Quattro possibili misure: Persone (teste); Posizioni lavorative (posti di lavoro/contratti); Ula (unità di lavoro equivalenti a tempo pieno); Ore lavorate.  Quali vantaggi e quali limiti di ogni misura? Leonello G. Tronti193

194 Misurare la redditività - 1 Leonello G. Tronti194

195 Misurare la redditività - 2 Leonello G. Tronti195

196 Misurare la competitività di costo - 1 Leonello G. Tronti196

197 Misurare la competitività di costo - 2 Leonello G. Tronti197

198 Relazioni tra indicatori  Ci sono molteplici relazioni analitiche tra redditività, distribuzione del reddito e competitività di costo.  In particolare, relazioni forti sussistono tra: Il clup reale, Il markup, L’indicatore Istat di competitività di costo, Il costo assoluto del lavoro, La quota del lavoro totale (corretta per gli indipendenti) nel reddito. Leonello G. Tronti198

199 Clup reale, quota del lavoro dipendente e competitività di costo Leonello G. Tronti199

200 Markup, quote del lavoro (totale e dipendente) e clup reale Leonello G. Tronti200

201 Costo assoluto del lavoro e distribuzione del reddito - 1 Leonello G. Tronti201

202 Costo assoluto del lavoro e distribuzione del reddito - 2  In termini di tassi di variazione abbiamo:  Poiché il moltiplicatore sul lato destro dell’equazione è molto prossimo all’unità, possiamo anzitutto notare che la variazione della quota del lavoro totale approssima la variazione del costo assoluto del lavoro.  Inoltre, dall’equazione possiamo ricavare la condizione di stabilità:  Che indica che la quota sarà stabile se la variazione del clup sarà pari a quella dei prezzi. E inoltre:  ovvero la quota crescerà/diminuirà se e solo se la variazione del clup sarà superiore/inferiore a quella dei prezzi. Leonello G. Tronti202


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