La nostra legislazione, in accordo con le direttive dell’UE, prevede:

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Transcript della presentazione:

La nostra legislazione, in accordo con le direttive dell’UE, prevede: (a) valori limite di emissione per molte sostanze e quindi controlli alla fonte sulle emissioni, che vengono presunte in base alla tipologia del processo produttivo coinvolto. (b) un controllo tramite centraline della «qualità dell’aria»: vengono misurate in continuo le concentrazioni di alcuni inquinanti aerodiffusi persistenti (CO, SO2, NOx e ozono, il PM10 su base ponderale) l’inquinamento viene quindi espresso in termini di concentrazioni relative ai singoli inquinanti, in riferimento a valori-soglia arbitrariamente fissati.

Di fatto con questo approccio è impossibile effettuare il controllo stringente degli stessi inquinanti «generalisti» su vaste aree basato su un’alta densità di punti di campionamento. Questo problema può in parte essere ovviato dall’applicazione di tecniche di modellazione, con il problema legato alla validazione dei modelli stessi.

Nell’ambiente vengono immesse centinaia di sostanze xenobiotiche o comunque potenzialmente dannose, del cui destino si sa poco o nulla. Scarseggiano o mancano del tutto dati sul destino di molti contaminanti, immessi nell’ambiente in genere a basse concentrazioni e presumibilmente sotto i limiti di emissione previsti per legge, come ad esempio metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, diossine, furani, nanomateriali di nuova generazione etc. che possono essere nocivi anche a concentrazioni estremamente ridotte.

Queste sostanze, insieme a molte altre, comprese quelle «generaliste», possono esercitare sulla componente biotica e abiotica effetti INDIPENDENTI (“ognuna per sé”); ANTAGONISTI (“si annullano a vicenda”); SINERGICI (“si sommano, quando addirittura non si amplificano”)

Il BIOMONITORAGGIO, che si affianca ed integra al monitoraggio convenzionale su base chimica o chimico-fisica, consiste nella misura degli effetti delle sostanze inquinanti, dati dalle risposte manifestate da particolari componenti viventi degli ecosistemi, che si dimostrano particolarmente sensibili alle variazioni ambientali. «The application of biological monitoring based on organisms provides an essential adjunct to instrumental recording.»

Il termine “biomonitoraggio” è stato introdotto dalla Medicina del lavoro per definire la misura diretta di elementi, composti chimici tossici o loro metaboliti nel corpo umano, ad esempio in fluidi corporei come il sangue, le urine, la saliva, il liquido spermatico, i capelli o il latte. Nella valutazione del rischio sanitario questo approccio permette di conoscere i reali livelli di sostanze cui il singolo soggetto è potenzialmente esposto, migliorando significativamente la ricerca epidemiologica. Ha fatto scuola il Center for Desease Control and Prevention (CDC) degli U.S.A., che pubblica un report bienniale ”on Human Exposure to Environmental Chemicals”, basato su un campione statisticamente rappresentativo della popolazione di quel Paese, in base ad un programma iniziato nel 1976 su piombo e alcuni pesticidi.

Ora il termine biomonitoraggio ha una accezione più ampia Ora il termine biomonitoraggio ha una accezione più ampia. Esso indica l’insieme delle metodologie che utilizzano esseri viventi o comunità di organismi che sono reattivi nei confronti degli inquinanti, per trarre informazioni sullo stato dell’ambiente, in particolare per stimare possibili deviazioni da valori «normali» o di background. Il biomonitoraggio permette di stimare gli effetti biologici dell’inquinamento nel tempo (monitoraggio di tendenza); cioè dà informazioni più generali sullo stato di salute dell’ambiente valutando i danni subiti da organismi- bersaglio presenti nell’area di studio o appositamente introdotti.

Rispetto alle tecniche tradizionali realizzate con centraline mobili o fisse, il biomonitoraggio presenta diversi vantaggi: costi di gestione generalmente limitati (per materiali e allestimento); possibilità di studiare i cambiamenti sia nel tempo che nello spazio; possibilità di avere, con relativa facilità e rapidità, una adeguata copertura del territorio, anche in termini di densità di campionamento statistico; stima degli effetti combinati di più inquinanti sugli esseri viventi.

In questo caso la domanda non è primariamente «qual è la concentrazione della sostanza X?» ma piuttosto «si osservano effetti sulla componente vivente? Quanto sono gravi?», magari in connessione con la componente antropica.

Praticamente ogni organismo è in grado di dare informazioni sull’ambiente in cui vive, soprattutto se viene confrontato con altri (concetto della “nicchia ecologica” o iper-spazio ecologico), ma soprattutto se viene “interrogato” nella giusta maniera. Piante, lieviti, insetti, uccelli, lombrichi, molluschi, …. Sono tutti potenziali “biomonitors”…

Potenzialmente ogni organismo è un indicatore di qualità in quanto, per definizione, il fatto stesso di essere vivo dà delle informazioni sulla presenza di determinate condizioni favorevoli. Fra tutti gli organismi, vi sono molti che hanno una fisiologia ed ecologia ancora sconosciuta e comunque troppo complessa, per i quali è difficile individuare una risposta riconducibile al fenomeno dell’inquinamento piuttosto che ad altre cause. Il biomonitor ideale dovrebbe essere ubiquitariamente presente, facilmente reperibile e facilmente individuabile; stazionario, sempre disponibile; capace di reagire alla variazione ambientale, ma sufficientemente resistente agli stress ambientali, ecc. ecc. Di fatto, si ricorre solitamente a intere categorie di organismi, perché le diverse specie hanno risposte specifiche.

Non deve stupire il fatto che un essere vivente possa essere una fonte di informazioni sull’ambiente. Esso attua un continuo scambio di sostanze con l’ambiente che lo circonda: gas, acqua, minerali vengono trasformati in nuove sostanze che, rimesse in circolo a loro volta, saranno utilizzate da altri organismi. Poiché nella biosfera sono presenti anche sostanze dannose, è evidente che gli organismi si trovano ad assumere assieme ai nutrienti sostanze non previste, che possono “lasciare il segno”.

Da un punto di vista operativo, si parla di biomonitoraggio attivo, quando i “biomonitors” vengono introdotti deliberatamente nel territorio da esaminare (sono quindi «alloctoni»); biomonitoraggio passivo, quando si sfruttano individui o popolamenti già presenti sul territorio (sono quindi «autoctoni»). Nel primo caso si tratta di definire le condizioni standard di esposizione del materiale, quindi procedere con l’esposizione stessa; nel secondo caso in teoria il lavoro in campo può iniziare immediatamente, perché si tratta di raccogliere del materiale che è già disponibile in loco, e che è stato esposto alle condizioni ambientali per un tempo definibile in base al ciclo di vita dell’organismo-target.

In entrambi i casi riveste un ruolo particolarmente importante la scelta dei siti di campionamento/esposizione, che dovrebbe dipendere in primo luogo da precise strategie di campionamento atte a: ottimizzare la copertura del territorio in esame; minimizzare i fattori di disturbo; ottimizzare il più possibile il rapporto costi/informazione.

Si distinguono due tipi diversi di biomonitors: • i BIOINDICATORI hanno elevata sensibilità nei confronti della sostanza (o gruppo di sostanze) inquinante(i), e già in seguito ad esposizioni a basse dosi manifestano sintomi chiari e specifici facilmente quantificabili subendo variazioni evidenti nella fisiologia, nella morfologia o nella distribuzione di frequenza in seguito all’influsso delle sostanze presenti nell’ambiente; • i BIOACCUMULATORI hanno elevata tolleranza e capacità di accumulo, immagazzinando l’inquinante (che deve avere caratteri di persistenza; in alternativa, si devono misurare i suoi derivati stabili), spesso senza evidenziare sintomi; in questo caso, la concentrazione della sostanza misurata nell’organismo dovrebbe riflettere quella ambientale.

Procederemo con ESEMPI Biomonitoraggio attivo e passivo: analisi su campioni di singole specie vegetali (in genere muschi o licheni) e animali (api, molluschi) come bioaccumulatori di metalli o inquinanti organici aerodiffusi persistenti; Biomonitoraggio attivo: Osservazioni su singole specie vegetali (Nicotiana tabacum, Trifolium pratense) come bioindicatori di una specifica tipologia di inquinanti: lo smog fotochimico (Ozono); Biomonitoraggio passivo: determinazione di un Indice di BIODIVERSITA’ di comunità licheniche epifite come indicatori della QUALITA’ dell’aria.

BIOACCUMULO La capacità di assorbire e accumulare sostanze inquinanti può essere sfruttata per il monitoraggio dei contaminanti persistenti presenti in atmosfera in bassissime concentrazioni. Inquinanti come i metalli pesanti, i fluoruri, gli idrocarburi clorurati, quelli policiclici aromatici, i radionuclidi, sono difficilmente rilevabili nell'aria in concentrazioni apprezzabili tramite gli strumenti di analisi e risulta molto difficile studiarne i meccanismi di diffusione nel territorio. Le matrici biologiche consentono di misurare l'abbondanza relativa di questi inquinanti spesso molto pericolosi e di individuare le aree di maggior deposito al suolo.

Bisogna sottolineare come molte sostanze presenti nell’ambiente possono avere – in base alle loro proprietà chimico-fisiche – affinità ben precise per determinate matrici, anche di natura organica. Una sostanza fortemente apolare ad es. difficilmente raggiunge elevate concentrazioni in un tessuto molto ricco di acqua, al contrario viene assorbita da un tessuto adiposo o da strutture ricche in cere.

Nel caso di un biomonitoraggio su Homo sapiens, ad esempio, un composto lipofilico sarà misurabile nel latte o nel sangue, mentre un composto idrofilico sarà misurabile nelle urine. Scegliendo matrici biologiche adatte, si può evidenziare la presenza di una determinata sostanza nell’ambiente, seguendone la cinetica di dispersione, oppure al contrario sostanziarne una presunta assenza. Solo una persona avveduta può in questo caso capire se la scelta della matrice analizzata è stata oculata o meno.

Average concentrations (ppm) in tissues and organs of slugs and snails hepatopancreas gonads gut foot 500 Deroceras reticulatum (from a Pb/Zn mine) Cu 400 300 200 Helix aspersa (from a foundry) 100 Helix aspersa (from a pristine area) Element concentration (ppm) 50 100 150 200 Average concentrations (ppm) in tissues and organs of slugs and snails Pb 362±86 490±96 332±86 From: Trace Elements in Terrestrial Plant, R. Bargagli

Ancora più interessante è il fenomeno della biomagnificazione o bioamplificazione, che è il processo di bioaccumulo di sostanze (anche tossiche e nocive) negli esseri viventi con un aumento di concentrazione dal basso verso l'alto della rete trofica alimentare. La biomoagnificazione consiste quindi nell'amplificazione di un contaminante/inquinante andando verso i livelli più alti di una catena trofica, per l’incapacità di eliminare la sostanza in oggetto, che non viene degradata dal normale metabolismo cellulare né può essere escreta. .

In presenza di fenomeni di biomagnificazione analizzando gli animali (in particolare determinati tessuti scelti ad hoc) al vertice della rete trofica, si possono evidenziare sostanze presenti nell’ambiente a concentrazioni bassissime, ben al di sotto dei limiti di analisi strumentale, e si può quindi ottenere un quadro molto meno ottimistico della reale compromissione ambientale. L’obiezione di rito (da rigettare) è che si analizzano matrici che «notoriamente» hanno alte concentrazioni di quella determinata sostanza, e quindi la presenza nell’ambiente sarebbe sovrastimata.

I casi più famosi di biomagnificazione, molto ben documentati, sono quelli del DDT e del metil-mercurio (CH3Hg+). Il DDT è un prodotto di sintesi, un composto organico clorurato usato come insetticida, mentre il metil-mercurio, un catione organometallico, è legato all’azione di microorganismi anaerobici che vivono in ecosistemi acquatici e che modificano il mercurio inorganico rilasciato da processi industriali o fonti naturali (es. vulcani). Ad ogni passaggio della catena alimentare la concentrazione del metilmercurio nell'organismo cresce, e la sua concentrazione nei predatori acquatici in cima alla catena alimentare può essere un milione di volte maggiore rispetto alla concentrazione nell'acqua. Si deve citare almeno un altro esempio clamoroso, quello del BMAA (-metilamino-L-alanina), un aminoacido non-proteico ritenuto responsabile di una malattia neurogenerativa molto particolare, il lytico-bodig.

E’ stata descritta una malattia neurogenerativa molto particolare, il lytico bodig, che colpiva quasi esclusivamente i maschi adulti. GUAM

La frequenza della malattia è diminuita progressivamente negli anni, fino a scomparire in tempi molto recenti.

Il neurologo Oliver Sacks l’ha descrittta in uno dei suoi libri più famosi, L’isola dei senza colori.

I° ipotesi di Sacks: una sostanza tossica presente in tutti i semi, cancerogena a basse concentrazioni, epatotossica ad elevate concentrazioni. NON SOSTENIBILE II° ipotesi di Sacks: un’altra sostanza, un aminoacido non essenziale, il β-methylamino-L-alanine (BMAA), neurotossico, effettivamente presente anche dopo i lavaggi e alla base degli avvelenamenti da cicerchie («latirismo»), documentati anche in Italia.

A produrre l’aminoacido BMAA sono la comunità di cianobatteri che vive nelle radici nodulari alla base delle Cycas. La pianta concentra c. 100 volte questo aminoacido nel tessuto di riserva del grosso seme.

Il colpo di genio viene però a un botanico, Paul Alan Cox, che ipotizza un fenomeno di biomagnificazione per opera di species endemiche di pippistrelli della frutta. Questi si nutrono dei semi di Cycas concentrando il β-methylamino-L-alanine (BMAA) nel loro tessuto adiposo. Beccato il pippistrello, il più era fatto…bastava misurare la concentrazione del BMAA (che risulterà una bomba…) e collegare un consumo di pippistrelli da parte della popolazione….

MA PERCHE’ MANGIARE PIPPISTRELLI? E perché uomini diverse dalle donne? Decline in consumption of the bats (and the extinction of one of the two species due to overhunting…) has been linked to a decline in the incidence of the disease.