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Liberalizzazioni e privatizzazioni

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Presentazione sul tema: "Liberalizzazioni e privatizzazioni"— Transcript della presentazione:

1 Liberalizzazioni e privatizzazioni
Andrea Boitani & Michele Grillo

2 Sommario La privatizzazione di imprese statali:
Diverse fasi ed evoluzione degli obiettivi; Una valutazione ex-post. Quale spazio per la privatizzazione di imprese degli Enti locali: dimensioni e performance del capitalismo municipale; le n riforme dei Servizi pubblici locali.

3 Privatizzazione di imprese statali

4 La ripresa odierna Il governo Letta (gennaio 2014) e poi il Governo Renzi (marzo 2014) hanno riaperto una nuova stagione di privatizzazioni: (i) sul tappeto, fino al 40% di Poste Italiane e al 49% di Enav; in previsione, quote di Grandi Stazioni e di Trenitalia; (ii) in prospettiva (2017): ulteriori quote di Enel ed ENI (il rischio di perdita di controllo - se si scende sotto il 30% - da contrastare con acquisto di azioni proprie e riproposizioni di «golden share»); (iii) cessioni di quote di minoranza di imprese già cedute dallo Stato a Cassa Depositi e Prestiti (Fincantieri, SACE, CDP Reti): non sono privatizzazioni in senso formale (i ricavi non possono andare a riduzione del debito pubblico); ma in senso sostanziale possono apportare i benefici tipici delle privatizzazioni (guadagni di efficienza e stimoli alla crescita). Gli introiti previsti variano da un minimo di 8 MLD (Letta) a 12 MLD (Renzi), relativamente a quanto possa essere fatto a breve; stime fino a 40 MLD nella prospettiva più lontana e migliore.

5 La duplice finalità (1) La riduzione del debito pubblico continua a essere indicata come obiettivo principale, ma gli introiti attesi sono relativamente insignificanti; (2) Un impulso a produttività, competitività e crescita attraverso: modifica degli obiettivi delle imprese; irrobustimento dei mercati finanziari, con apporto diretto di risorse finanziarie al settore produttivo da parte di investitori istituzionali e piccoli risparmiatori.

6 Una prospettiva storica: le tre ondate
La «prima» ondata inizia negli anni Ottanta in Gran Bretagna (in Italia negli anni Novanta). La «seconda» ondata ha luogo all’inizio del 2000, dopo la crisi delle dot.com. La «terza» ondata è avviata nel 2010, con due caratteristiche che la differenziano dalle precedenti: entrano in gioco i Paesi emergenti che approfittano delle buone condizioni di mercato e della forte crescita delle loro economie; i Paesi avanzati fanno fronte alla debolezza della congiuntura e alle condizioni critiche della finanza pubblica. L’Italia entra «tardi» nella terza ondata, dopo una lunga fase di stasi (tra il 2006 e il 2012).

7 La vicenda italiana (1) Fine anni Ottanta-1995: si approntano gli strumenti e si avviano le prime dismissioni in settori «non strategici»; : dismissioni anche in settori «strategici» con cessioni sia di partecipazioni di controllo, sia di quote di minoranza. Il disegno si propone di combinare in modo coerente: l’avvicinamento ai parametri di Maastricht; il rafforzamento della politica europea sugli Aiuti di Stato; le politiche europee per il «mercato unico» delle Public Utilities. Inizio anni 2000: entrati nell’euro, gli intenti di policy (DPEF che pure prevede introiti per 60 MLD euro) sono guidati dall’idea che l’immissione di capitale privato è strumento della «liberalizzazione»: non conta il controllo pubblico (principio europeo di «neutralità»), ma il contesto «di mercato; il passaggio dall’intervento pubblico diretto all’intervento pubblico indiretto in economia non è in contrasto con lo Stato «imprenditore» se quest’ultimo agisce come un operatore privato; incentivi e funzione obiettivo delle imprese a controllo pubblico possono essere modificati da: (i) partecipazione dei privati al capitale; (ii) condizioni di mercato concorrenziali, con libertà di ingresso di nuovi operatori.

8 La vicenda italiana (2) In questo quadro, il DPEF si pone quattro obiettivi: (i) vendita (in tempi brevi) delle partecipazioni «non strategiche»; (ii) cessioni di minoranza delle partecipazioni «strategiche»; (iii) ristrutturazione delle imprese in mano pubblica per prepararle alla vendita nel medio periodo; (iv) promozione e tutela della concorrenza, specie nelle Public Utilities. La crisi del 2007 interrompe il processo: : (i) vendite di diritti di opzione nell’ambito di operazioni di aumento di capitale (Finmeccanica, Enel, Seat); (ii) scambi di azioni tra Ministero e CDP; (iii) cessioni del gruppo Fintecna (controllata da CDP). Il tutto vale meno di 1 MLD euro. : nel 2011 fallisce la privatizzazione di Tirrenia e il referendum blocca l’apertura al mercato dei SPL; non succede nulla negli ultimi anni. Complessivamente, tra il 1992 e il 2008, il controvalore corrente degli asset privatizzati è ammontato a ca. 150 MLD (valore attuale ca. 180 MLD).

9 I numeri delle privatizzazioni:
valori

10 I numeri delle privatizzazioni:
operazioni

11 Un’interpretazione Delle 141 operazioni, per un controvalore corrente di 150 MLD, 115 operazioni, per un controvalore corrente di 138 MLD, hanno coinvolto Ministero del Tesoro, IRI, ENI ed Enel. Possibile distinguere tre periodi, con differenze rilevanti: : poche operazioni, quasi sempre con cessione di controllo di imprese non strategiche (incidono i nuovi obblighi di Maastricht sugli aiuti pubblici alle imprese); : oltre 40% del controvalore totale e del controvalore delle operazioni con cessione di controllo (incide l’obiettivo di ingresso nell’euro); : 27% del controvalore totale, ma meno del 10% del controvalore di quelle con cessione di controllo (il patto di stabilità sposta l’attenzione dal debito al deficit). In tutti i tre periodi, più dei benefici attesi dalla gestione affidata ai privati, hanno prevalso esigenze contingenti di finanza pubblica. Non c’è evidenza del «modello Perotti»: il ritiro dello Stato imprenditore come obiettivo di lungo periodo, perseguito con «gradualità», per: (i) tenere conto della liquidità dei mercati azionari; (ii) partecipare all’incremento del valore azionario.

12 Negli anni 2000 cambia il «disegno»
La spinta alle privatizzazioni si affievolisce, ben prima della crisi del 2007. Il patto di stabilità (e la connessa attenzione al deficit) induce a guardare ai dividendi delle partecipazioni come fonte di entrate: tra il 1995 e il 2008, gli introiti da dividendi di ENI ed Enel allo Stato (che sono concentrati nel secondo periodo) superano il totale degli introiti da dismissioni di ENI ed Enel (che sono concentrate nel primo periodo). Il conflitto di interesse tra Stato imprenditore e Stato regolatore si accentua.

13 L’intreccio tra privatizzazioni e liberalizzazioni: quattro vicende notevoli (1)
(1) Enel: il decreto Bersani (1999) scorpora centrali di Enel e, tramite la vendita, costituisce concorrenti privati; la rete è progressivamente separata (da «nuda proprietà» versus «gestione» alla costituzione di TERNA); tuttavia: il piano delle dismissioni è affidato a Enel che cede impianti marginali; le infrastrutture di rete si rivelano inadeguate al nuovo assetto del mercato che, a sua volta, non incentiva gli investimenti in infrastrutture. (2) ENI: il decreto Letta (2000) non modifica il monopolio dell’approvvigionamento. La SNAM, «privatizzata» per prima (con cessione di quote di minoranza), dà un chiaro segnale di cambiamento del disegno. Il «fallimento» del mercato unico europeo delle Utilities energetiche (IC della Commissione Europea, 2009): i mercati restano segmentati e i prezzi dell’energia elevati (pressoché ovunque ma, in particolare, in Italia) perché le liberalizzazioni «nazionali» non sono in grado di superare i vincoli degli assetti di rete. Barone e Cingano (EJ, 2011): assieme ai «servizi professionali», l’elevato costo dell’input energetico è quello che più incide negativamente sulla competitività dell’industria manifatturiera esportatrice nei diversi Paesi europei.

14 L’intreccio tra privatizzazioni e liberalizzazioni: quattro vicende notevoli (2)
(3) Telecom: la liberalizzazione è un successo (anche se la caduta dei prezzi è effetto di progresso tecnologico assente in altri settori), ma non è un successo la privatizzazione (completa, in Italia), né in termini di introiti per lo Stato, né in termini di sviluppo del settore: seppure in modo diverso, anche in questo caso si è posto un problema di rete: il disegno degli anni Novanta guidato dall’idea che la rete non fosse un monopolio naturale e fosse pertanto possibile una «concorrenza tra reti»; ma il modello non ha retto all’esplosione della banda larga. (4) Autostrade: privatizzazione di un monopolio, per un verso fonte di elevati introiti, ma anche di un fallimento delle regolazione. Giorgio Ragazzi, I Signori delle Autostrade, 2008: «Già da prima lo Stato riscuoteva una rilevante componente di imposta sui pedaggi, sotto forma di extraprofitti conseguiti dall’Iri. Con la privatizzazione, lo Stato ha dapprima esteso per vent’anni quest’imposta occulta sul traffico autostradale e poi ha venduto il flusso futuro di questi ricavi per di più promettendone un continuo e sostanzioso incremento nel tempo».

15 Una valutazione di sintesi: (i) privatizzazioni ed efficienza
Le privatizzazioni si sono accompagnate ad aumento dell’efficienza gestionale, del fatturato, della redditività e dei dividendi … le imprese finanziarie (almeno fino alla crisi) e le società di cui lo Stato ha ceduto il controllo hanno recuperato redditività. … ma non sono state fattore di sviluppo: non c’è evidenza di mutamento nella struttura patrimoniale, negli investimenti, nell’occupazione: soprattutto nelle imprese che operano in settori protetti e/o su cui lo Stato ha mantenuto il controllo il recupero di redditività si è risolto in ampia misura in aumento dei dividendi.

16 Una valutazione di sintesi: (ii) privatizzazioni e mercati finanziari
Il peso delle imprese privatizzate supera il 60% della capitalizzazione di Borsa. Nelle società privatizzate la dispersione degli azionisti è più ampia di quella della maggiori società quotate … … ma nessuna società privatizzata è diventata una public company: il controllo è dello Stato o di un azionista privato (spesso con quote di minoranza).

17 Una valutazione di sintesi: (iii) privatizzazioni e finanza pubblica
E’ stata sempre presente l’esigenza di «fare cassa»: le società privatizzate sono state vendute a prezzi alti, scontando le attese di rendite di monopolio. I proventi complessivi delle privatizzazioni hanno contribuito alla estinzione di ca. il 9% del debito pubblico. Nel secondo periodo, i dividendi allo Stato hanno rappresentato fonte rilevante di entrate correnti.

18 Una valutazione di sintesi: (iv) privatizzazioni e concorrenza
Le privatizzazioni non sono state strumento di liberalizzazione e di allargamento dei mercati concorrenziali: (i) non sono emersi nuovi attori e alcuni operatori industriali hanno riposizionato il business in attività di rent-seeking; la combinazione tra recupero della redditività e «settori protetti» ha di fatto dato luogo a un trasferimento di rendite dallo Stato ai privati; gli elevati dividendi delle società a controllo pubblico (ENI e Enel) evidenziano un conflitto di interesse tra Stato azionista e Stato regolatore; la coincidenza di interessi tra pubblico e privato ha depotenziato il ruolo della regolazione, preservando alti livelli di profittabilità delle imprese; la regolazione è stata in alcuni casi limitata o distorta dalle modalità con cui la privatizzazione è stata realizzata, ovvero dai contratti impliciti stipulati al momento della privatizzazione (vedi Autostrade).

19 Quale «obiettivo» oggi?
Se l’obiettivo è la riduzione del debito pubblico, si ripropone il «fare cassa», prevalso nell’esperienza del precedente ventennio; ma con un parziale mutamento di prospettiva. Ciò che conta è vendere imprese potenzialmente lucrose, che possono essere tali per due ragioni: perché (i) (almeno potenzialmente) efficienti; oppure perché (ii) dotate di potere di mercato. Nel secondo caso si ripropone un modello già noto, con il rischio che lo stimolo all’efficienza, anche dopo la privatizzazione, resti debole. Difficile dire qual è il beneficio collettivo di trasferire un monopolio pubblico a un monopolio privato, non sottoposto ad adeguata regolazione. Se si fa leva sull’efficienza potenziale dell’impresa da privatizzare, si va incontro a un piccolo «Comma 22»: occorre cambiare la gestione prima della vendita, cercando l’«efficienza» dell’impresa pubblica con modifiche nell’indirizzo di policy e adeguata selezione degli amministratori (il governo Renzi sembra essersi confrontato con questo punto). Ma privatizzare non è necessario per l’efficienza della gestione, perché farlo? Se l’aumento del flusso atteso dei benefici è indipendente dal controllo, privatizzare ha un senso solo se il tasso di sconto del soggetto pubblico è più alto di quello dei privati (ipotesi difficile da giustificare). Anche in chiave di schemi di partnership pubblico-privata, la letteratura teorica fa leva sulla premessa che il vantaggio del pubblico risiede nella circostanza che il costo delle risorse finanziarie è, per lo Stato, minore che per l’operatore privato. Resta la prospettiva più pessimista: vendere i «gioielli di famiglia» per far fronte, alla fine, a spese correnti.

20 Privatizzazione di imprese degli Enti locali

21 Il capitalismo municipale 1
Fonte: IRPA, Il capitalismo municipale, Rapporto 1, 2012

22 Il capitalismo municipale 2
2010 7723 Comuni azionisti 3662 imprese partecipate Comunali; 2009 4108 imprese partecipate da regioni 852 imprese partecipate da province Fonte: IRPA, Il capitalismo municipale, Rapporto 1, 2012

23 Il capitalismo municipale 3
Nel 2007 la spesa alimentata dalle società a controllo comunale era pari a 17.1 mld, contro i 9.1 di quella delle strutture amministrative municipali. 13.5 mld di fatturato da aziende del comparto energetico (valore stimato 3.5 mld), che fruttano 257 milioni di dividendi su 300 totali. La maggior parte delle partecipate sono di comuni <5000 abitanti.

24 Il capitalismo municipale 4
Non solo utilities, anzi: solo il 37,6% Fonte: IRPA, Il capitalismo municipale, Rapporto 1, 2012

25 Local utilities: oltre 186.000 occupati
98,913 Fonte: IRPA, Il capitalismo municipale, Rapporto 1, 2012

26 Performance economica differenziata
Indici di performance (2005) N. imprese MOL/ricavi Utile per Costo lavoro/ % addetto ricavi (%) (media) (migliaia euro) Utility 403,00 13,07 13,26 22,76 Elettricità e gas 67,00 17,41 31,96 9,90 Servizi idrici 111,00 13,13 5,40 22,94 Servizi ambientali 126,00 9,88 14,03 31,22 Multiutility 99,00 14,09 8,42 20,54 Trasporti 150,00 13,06 8,20 44,98 Strade e autostrade 14,00 39,15 46,51 22,15 Ferrovie 7,00 5,72 0,62 TPL 100,00 6,66 -0,57 53,97 Porti e aeroporti 29,00 24,29 21,74 24,64 Altri settori 158,00 9,25 9,04 26,11 Costruzioni 10,00 15,13 143,05 15,51 Manifatturiero 9,00 8,79 22,22 18,15 Servizi 102,00 9,68 -3,35 31,12 Telecom 3,00 16,89 0,86 23,21 Farmacie 34,00 5,73 2,94 17,12 Media 55,00 12,22 11,25 28,22 Elaborazioni su dati Amadeus Database Fonte: C. Scarpa, P. Bianchi, B. Bortolotti, L. Pellizzola, Comuni S.p.A., Il Mulino, 2009

27 Apertura del capitale ai privati e redditività (margine operativo lordo/ricavi)
Utility TPL Altri Trasporti Altri settori Società di capitale interamente pubblico (A) N. osservazioni 293 79 6 61 Media 0,115 0,051 0,079 0,022 Mediana 0,11 0,067 0,047 0,058 Società miste (B) 109 21 44 98 0,173 0,125 0,283 0,111 0,144 0,286 0,094 Società miste (escluse le quotate) (C) 100 40 97 0,171 0,282 0,131 0,093 Differenza mediane (B)-(A) 0,034*** 0,048** 0,239*** 0,037*** Differenza mediane (C)-(A) 0,021** 0,035*** * significatività 10% ** significatività 5% *** significatività 1% Fonte: C. Scarpa, P. Bianchi, B. Bortolotti, L. Pellizzola, Comuni S.p.A., Il Mulino, 2009

28 Proprietà e affidamento (TPL) cross-country Europa (stima della TFP)
Fonte: A.Boitani, M. Nicolini, C. Scarpa, Applied Economics, 2013

29 Affidamenti e proprietà
Lo sviluppo delle partecipate locali è legato alla diffusione degli affidamenti diretti, in loro favore, dei spl. Alla limitazione della concorrenza «nel mercato» per estensione dei regimi di esclusiva si aggiunge la limitazione della concorrenza «per il mercato». Sembra esistere una differenza statisticamente significativa di «performance» tra imprese locali a proprietà interamente pubblica e a proprietà mista. Sembra esistere una differenza statisticamente significativa di «performance» tra imprese locali con affidamento diretto e imprese locali che abbiano vinto una gara. Direzione di causalità incerta. Più utili e/o più alta TFP non significano necessariamente maggior benessere dei consumatori. I risultati dipendono dalla regolazione.

30 Le n riforme (e contro-riforme) dei servizi pubblici locali 1
DdL governativo AS 4014/1999. DdL AC 7042/2000: obbligo di applicare regole competitive per l’affidamento del servizio (sia pure per la sola erogazione). Art. 35 L. 448/2001 (Buttiglione): Compare l’in house. Residuale ma subito qualcuno ne fa uso. Art. 14 d.l. 269/ art. 4 L. 350/2003: si ritorna all’ impostazione dell’art. 113 del TUEL, con possibilità di attivare uno dei tre modelli: affidamento a un gestore terzo scelto con gara; affidamento a società mista con socio privato scelto con gara; affidamento a società interamente pubblica. Art. 23 bis L. 133/2008 : regola (gara)/ deroga (in house) per tutti i spl; le norme di settore vanno adeguate; sulle deroghe parere Agcm. Art. 30, comma 26, L. 99/2009: gas naturale esentato da disciplina generale Art. 15 L. 135/2009: ferrovie regionali ed energia elettrica esentate dall’obbligo di gara.

31 Le n riforme (e contro-riforme) dei servizi pubblici locali 2
Il referendum (12-13 giugno 2011) abroga il 23 bis e successive modificazioni. Art. 4 DL 138/2011 (L. 148/2011): tentativo di ripristinare il 23 bis, escludendo la «gestione dell’acqua». Sentenza Corte Costituzionale 199/2012: La disciplina introdotta con l’art. 4 del DL 138/2011 è «contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa  comunitaria» che «consente, anche se non impone, (…) la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale». Si applicano l’art. 106 del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea) e i regolamenti europei settoriali.

32 Le n riforme (e contro-riforme) dei servizi pubblici locali 3
Pacchetto europeo sugli aiuti di stato (2012): le  amministrazioni devono seguire un percorso che prevede:  valutazione della necessità di imporre un obbligo di servizio;  una  chiara definizione degli obblighi di servizio;  la previa definizione dei parametri per il calcolo della  compensazione;  l’adozione  di  criteri  per  evitare  la  sovra-compensazione (procedura di gara o, in assenza, riferimento a benchmark). Venuto meno l’art. 4 del DL 138/2011, il pacchetto europeo fissa la serie di domande cui le amm. locali devono rispondere per giustificare le scelte organizzative, ma solo per i settori in cui vi sono potenziali aiuti di stato.

33 Tesi (in pillole) La gestione pubblica è una soluzione dei fallimenti del mercato basata sul command and control. Nell’impresa pubblica, tipicamente multi-principal, il potere degli incentivi è basso ed è ulteriormente ridotto a causa del soft budget constraint e della non applicazione della no-bailout condition. La regolazione è una soluzione che fa uso dei meccanismi di incentivo, compreso l’hard budget constraint e la no bail-out condition. I «contratti» di regolazione sono tipicamente incompleti e, quindi la regolazione è un ongoing process, anche quando si avvale di meccanismi competitivi per gli affidamenti (le gare non sostituiscono la regolazione). La scelta tra regolazione e gestione pubblica è essenzialmente legata al fatto (empirico) se sia più importante e non precisabile ex ante e/o monitorabile ex post la «qualità» del servizio (istruzione, sanità, assistenza sociale) o il suo costo (energia, rifiuti, servizio idrico, trasporti). E al fatto se abbia elevato peso l’investimento a redditività molto differita non contrattabile (reti vs servizi). Se si sceglie la regolazione, il mantenimento della proprietà pubblica è contro-producente perché (a) l’arbitro è anche un giocatore; (b) si indebolisce il potere degli incentivi perché un giocatore ha soft budget constraint e gode di bail-out; (c) si indebolisce il potere degli incentivi perché una impresa (quella pubblica) ha una molteplicità di principali (politici, sindacali, ecc. che influenzano l’azionista contrastando il regolatore) e il «cappello» dell’azionista tende a prevalere su quello del regolatore.


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