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AVO Regione Puglia Bitonto, 28 Gennaio 2012 LA “GRAMMATICA” DEL VOLONTARIATO NELLE CURE PALLIATIVE sac. Francesco Savino Presidente Fondazione “Opera Santi.

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1 AVO Regione Puglia Bitonto, 28 Gennaio 2012 LA “GRAMMATICA” DEL VOLONTARIATO NELLE CURE PALLIATIVE sac. Francesco Savino Presidente Fondazione “Opera Santi Medici Cosma e Damiano - Bitonto - ONLUS”

2 PREMESSA Dalla manomissione delle parole alla manutenzione delle parole Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. Nei nostri seminari chiamiamo "manomissione" questa operazione di rottura e ricostruzione. La parola manomissione ha due significati, in apparenza molto diversi. Nel primo significato essa è sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento. Nel secondo, che discende direttamente dall'antico diritto romano (manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato) essa è sinonimo di liberazione, riscatto, emancipazione. La manomissione delle parole include entrambi questi significati. Noi facciamo a pezzi le parole (le manomettiamo, nel senso di alterarle, violarle) e poi le rimontiamo (le manomettiamo nel senso di liberarle dai vincoli delle convenzioni verbali e dei non significati). Solo dopo la manomissione, possiamo usare le nostre parole per raccontare storie. (La manomissione delle parole; sottotitolo: Appunti per un seminario sulla scrittura)

3 DUE DEFINIZIONI DI VOLONTARIATO «Volontario è il cittadino che, adempiuti i suoi doveri di stato (famiglia, professione…) e quelli civili (vita amministrativa, vita politica, sindacato, ecc…), pone se stesso a gratuita disposizione della comunità. Egli impegna prioritariamente sul suo territorio le sue capacità, i mezzi che possiede, il suo tempo, in risposta creativa ai bisogni della gente. Ciò attraverso un impegno continuativo di servizi, coscientizzazione della comunità, di intervento politico, attuato preferibilmente a livello di gruppo. Per il cristiano il servizio di volontariato costituisce una risposta di coerenza con la propria fede che lo stimola a realizzare una testimonianza di condivisione con tutti i fratelli sull’esempio di Cristo. Il cristiano si batte per far sì che la Carità di oggi – rimosse le cause dei bisogni – diventi la giustizia di domani» (Giuseppe Pasini). «…Tempo donato, tempo dell’incontro con il limite e con la sofferenza, il tempo della pazienza e del mutuo aiuto, lo spazio in cui ci si confronta col volto del fratello e della sorella più deboli senza difendersi dietro a ruoli già previsti…» (Carlo Maria Card. Martini).

4 I TRE CARDINI DELLA FORMAZIONE Sapere Saper essere Saper fare

5 GLI ATTEGGIAMENTI DEL VOLONTARIO Solo alcune indicazioni… Saper superare le inevitabili difficoltà e quindi riuscire a : evitare un eccessivo coinvolgimento emotivo, che ostacola la capacità di aiuto; superare un'eventuale ripugnanza per situazioni umane, che, se pur non direttamente coinvolgenti, presentano aspetti spiacevoli (gravi mutilazioni, odori sgradevoli, incontinenza, ecc.); questo vale particolarmente per il volontario e l'operatore pastorale; superare il peso e la difficoltà di un impegno oneroso nel tempo; superare una eccessiva emotività nell'affrontare situazioni drammatiche.

6 attenzione alla persona del malato, alla sua famiglia, alle «piccole cose» che fanno parte del suo mondo interiore (ad es., quelle che molte volte ornano anche il suo mobiletto in ospedale). È da questa attenzione che possono scaturire spunti per un colloquio; comprensione della situazione umana e degli atteggiamenti del malato, invitando anche ad una ragionevole comprensione la stessa famiglia. Comprensione è mettersi al fianco del malato e pronunciarsi partendo dal suo punto di vista; educazione alla sofferenza e al dolore: l'operatore deve farsi carico, nel mondo dei «sani», di ricordare la necessità dell'attenzione all'uomo che soffre; discrezione su quanto dice il malato, sulla sua situazione, nei confronti degli stessi familiari; umiltà: essere consapevoli di non poter sempre risolvere i problemi, ma di poter offrire solidarietà in un momento di sofferenza; una solidarietà che è però anche attestazione di amore e di speranza; Alcune qualità che dovrebbero contraddistinguere lo spirito, l'azione e il servizio dei volontari. In particolare parleremo così di:

7 interiorità: preoccupazione per il mondo interiore del malato, ma anche attenzione alle proprie motivazioni spirituali. L'assistenza al malato comporta nel tempo uno stress, di qui il bisogno di riconfermare e rinsaldare le proprie motivazioni; rispetto: per il dolore e la sofferenza umana, per come è vissuto dal malato, per come è vissuto dalla sua famiglia, nella convinzione che ogni persona vive il dolore in maniera diversa e solo lei sa quanto sia oneroso; perseveranza: non sempre il malato apprezzerà quanto si fa per lui; non sempre si riuscirà a stabilire un colloquio; non sempre si potrà portare aiuto; non sempre si potrà fare tutto quanto si vorrebbe; testimonianza: è necessario «saper fare» ma anche «essere». È dalla testimonianza che il malato può comprendere la solidarietà, è dalla testimonianza che può nascere un discorso di fede.

8 Le esemplificazioni fin qui presentate hanno lo scopo di evidenziare come l'incontro con il malato e la sua sofferenza pongano ulteriori problematiche anche a chi vuol portare un aiuto. Tanto che una comprensione non corretta della limitatezza dei mezzi umani a disposizione e del proprio ruolo può determinare addirittura una patologia del comportamento, anche se, almeno apparentemente, tale comportamento appare encomiabile. È questo il caso in cui chi vuole aiutare diventa prigioniero di due concezioni estreme e contrastanti: si avverte il peso della responsabilità verso gli altri, diventando in questo modo la persona più importante, e ci si convince che le necessità altrui hanno la precedenza sulle proprie. Si configura così quella che sí può definire la figura del «Salvatore», una tendenza sempre presente anche negli operatori professionali.

9 l'attenzione si sposta dalla ricerca di un senso interiore del proprio valore alla ricerca di un successo esteriore; poiché si dipende dalle reazioni altrui per il raggiungimento del proprio benessere, è frequente che gli altri determinino le nostre azioni; per potersi sentire accettati dal prossimo, si diventa schiavi del tentativo di dimostrarsi indispensabili agli altri; ci si sente investiti da un ruolo superiore e si riconosce alla persona aiutata un ruolo subordinato; si è destinati ad un circolo vizioso di solitudine: un ruolo superiore non permette di far parte di un gruppo alimentando nel contempo la convinzione di essere speciali; si diventa così abituati ad aiutare, che eventuali periodi di inattività possono causare sensazioni non gratificanti (sensi di colpa, depressione, ansia): si rimane coinvolti in una disperata rincorsa di un inafferrabile senso di benessere finché non si cade stremati. Vediamo ora quali possono essere le caratteristiche tipiche di questo atteggiamento da «Salvatore»:

10 In conclusione, al di là della naturale limitatezza di ogni esemplificazione degli atteggiamenti umani, è opportuno però tenere presenti questi elementi che, anche singolarmente considerati e con valenza diversa, possono in qualche modo influenzare una relazione di aiuto. In questo ambito determinante dovrebbe essere la consapevolezza che la persona si può «guarire» solo con le sue forze e che ogni relazione di aiuto può quindi avere solo lo scopo di svegliare o risvegliare nell'altro questa autonoma capacità di guarigione.

11 LE MOTIVAZIONI Personali e di gruppo Umane e religiose

12 IL MOMENTO CULTURALE DI OGGI Alcuni aspetti in particolare 1.Lo spostamento del baricentro della medicina dal paziente come persona malata al paziente come corpo patologico, ha accelerato il progressivo indebolimento del prezioso equilibrio tra SCIENZA e SAPIENZA. 2.Il rischio che il sociologo Vanni Codeluppi chiama il BIOCAPITALISMO. Il biocapitalismo è la forma più avanzata di evoluzione del modello economico capitalistico che si caratterizza per il suo crescente intreccio con le vite degli esseri umani: verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli, emozioni… Il paziente rischia di essere “cosificato”!

13 3.La morte del prossimo. Dalla morte di Dio alla morte del prossimo. «Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico- cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comandamento perché sappiamo sempre meno di cosa parla. “Il tuo prossimo” è una cosa molto semplice; la persona che vedi, senti, puoi toccare». (Luca Zoja, La morte del prossimo) 4.L’eccedenza aziendalistica. Il primato dell’economia (sulla persona) 5.La questione delle cure della fine vita: il rapporto medico-paziente tra autodeterminazione, consenso informato e direttive anticipate di trattamento. Alleanza terapeutica tra il medico e il paziente e l’ultima parola spetta al medico? Testamento biologico e quindi libertà di coscienza e principio di autodeterminazione? E l’obiezione di coscienza sanitaria? L’accanimento terapeutico? L’eutanasia? Qual è il discrimine tra eutanasia e accanimento terapeutico?

14 LE CURE PALLIATIVE Le cure palliative, gli hospices sono una rivoluzione culturale sia per gli operatori che per i cittadini. «Una sfida alla medicalizzazione del morire e al tabù della morte, anzitutto. Una sfida alla negazione della “scena pubblica”, della dimensione pubblica alla sofferenza e al morire. Riportare la malattia cronica e terminale dentro le reti delle relazioni vitali e negli spazi della vita quotidiana delle persone può essere una scelta umana, desiderabile, preziosa per molte storie di vita, di prossimità, di vita familiare. Perché le storie possano avere ancora una stagione carica di attenzione, ricca nei gesti e nei significati, aperta alla consegna e alle indicazioni: nel gioco delle fraternità, nel gioco delle generazioni».

15 Parto da un’esperienza-testimonianza in hospice «La vita è come un viaggio e la durata è legata al destino. Quando nasciamo, salpiamo da un porto tranquillo e sicuro e ci avventuriamo in un mare tormentato di gioie e dolori a bordo di una piccola barca con poca esperienza. A ogni approdo aumentiamo le nostre esperienze e dopo un periodo in un porto tranquillo e sicuro si prende di nuovo il mare pronti ad affrontare nuove gioie e nuovi dolori, perché ogni porto lasciato ci ha sicuramente reso più uomini, ma anche più… vulnerabili. Quindi, se è vero che la morte è un’isola in questo mare tormentato un fatto è certo: tutti dovrebbero avere l’occasione di fare quest’ultimo viaggio a bordo di un vascello sicuro. Mio padre ha avuto questa occasione e ha trovato un vascello sicuro dal nome Hospice e un equipaggio preparato e dolce; ha raggiunto in un soffio l’ultimo approdo sicuro, senza ansie né timori».

16 HOSPICE: CHE COS’È? “Non lasciare solo un uomo con la sua morte” (E. Levinas) PER HOSPICE INTENDIAMO UN PROGETTO STRUTTURATO ED ORGANICO DI ASSISTENZA AI PAZIENTI INGUARIBILI IN FASE AVANZATA DI MALATTIA CHE FORNISCA LE CURE ADEGUATE, NEL SETTING PREFERITO DAL PAZIENTE, PRENDENDOSI CURA ANCHE DELLA SUA FAMIGLIA

17 DOVE E QUANDO NASCE L’HOSPICE? Nella vicina Inghilterra già nel 1968 nasceva e si divulgava la cultura delle cure palliative e Dame Cecily Saunders, leader carismatica del movimento promuoveva a Londra la nascita del primo Hospice (St. Cristopher Hospice): una casa di accoglienza dove i malati gravi, prossimi alla morte potessero trovare accoglienza, competenza e umanità ed una risposta ai molteplici bisogni che spesso accompagnano le ultime fasi della vita: il bisogno di cure adeguate e sollecite per un buon controllo del dolore e di altri sintomi, il bisogno di sapere adeguatamente a ciò che si è in grado di accogliere come verità circa il proprio futuro, il bisogno di potersi fermare a pensare al momento presente, il bisogno di non sentirsi un peso per la propria famiglia, il bisogno di rassicurazione dall’abbandono, il bisogno di dare significato alla propria vita anche nella sua ultima fase, il bisogno di ascolto, di silenzio, di compagnia, il bisogno di rafforzare i legami, ma anche di iniziare a separarsi dalla vita ed essere accompagnati fino alla morte. Era già ben chiara la forza innovatrice di questo nuovo modo di fare medicina guardando all’uomo nella sua globalità, riconoscendo non solo la sua parte fisica ma anche quella emotiva, affettiva, sociale e spirituale.

18 Cecily Saunders: «Tu sei importante perché sei tu e sei importante fino alla fine». «Sono stata infermiera, sono stata assistente sociale, sono stata medico. Ma la cosa più difficile di tutte è imparare a essere paziente».

19 HOSPICE STRATEGIA DELL’ACCOMPAGNAMENTO Tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia L’HOSPICE elabora una strategia dell’accompagnamento Tra la congiura del “silenzio” e l’ipocrisia

20 HOSPICE STRATEGIA DELL’ACCOMPAGNAMENTO Accetta i limiti della medicina Sposta lo sforzo terapeutico del “guarire” al “prendersi cura”, il che significa provvedere al sollievo dei vari disturbi, sintomi, che affliggono il malato, primo fra tutti il dolore Resta vicino al malato, dandogli la possibilità di esprimere tutto i suoi sentimenti, quelli negativi in particolare. Più che parlare all’ammalato bisogna saperlo ascoltare

21 LA CURA-MEDICINA PALLIATIVA “La medicina palliativa è cura attiva e caritatevole del malato terminale, che non risponde più ai trattamenti tradizionali capaci di prolungare la vita. Il controllo dei sintomi fisici, emotivi e spirituali è l’obiettivo principale della medicina palliativa. È un approccio multidisciplinare al malato e alla sua famiglia, fatto da persone con qualifiche diverse, che hanno in comune l’intenzione di apportare un miglioramento alla qualità di vita prima e di accompagnare ad una morte dignitosa, poi, il malato inguaribile”. Definizione del dott. Corli tratta dal libro «Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia» (1988)

22 LE CURE PALLIATIVE Sono il prendersi cura attivo e globale del paziente la cui malattia non è più responsiva alle cure specifiche. È fondamentale il controllo del dolore e degli altri sintomi unitamente all'attenzione ai problemi psicologici, sociali e spirituali. Organizzazione Mondiale della Sanità, 1990

23 LE CURE PALLIATIVE L'obiettivo delle cure palliative è di ottenere la miglior qualità di vita per il paziente ed i suoi familiari. Molti aspetti delle cure palliative sono applicabili precocemente insieme alle terapie antineoplastiche. Organizzazione Mondiale della Sanità, 1990

24 LE CURE PALLIATIVE Affermano la vita e vedono il morire come un processo naturale, da non anticipare né da posporre Offrono un sistema di supporto che aiuti il paziente a vivere il più attivamente possibile fino alla morte Offrono un aiuto alla famiglia per adeguarsi alla malattia del paziente e per elaborare correttamente il lutto Organizzazione Mondiale della Sanità, 1990

25 IL PROGETTO ASSISTENZIALE

26 PROGETTO HOSPICE Equipe Famiglia Paziente

27 L' ASSISTENZA IN HOSPICE Équipe multiprofessionale MEDICI INFERMIERI OPERATORI SOCIO SANITARI PSICOLOGI ASSISTENTE SOCIALE ASSISTENTE SPIRITUALE TERAPISTI RIABILITAZIONE VOLONTARI

28 L’INTEGRAZIONE FRA OPERATORI SANITARI E VOLONTARI GARANTISCE QUALITÀ DI CURA  L’esperienza dell’Hospice “Aurelio Marena” della Fondazione "Opera Santi Medici Cosma e Damiano - Bitonto - Onlus" e dell’Assistenza Domiciliare oncologica  Il nostro modello di sussidiarietà

29 HOSPICE CRITERI DI ELIGIBILITÀ MALATTIA CRONICA EVOLUTIVA IN FASE AVANZATA ESAURIMENTO O INAPPROPRIATEZZA DELLE RISORSE TERAPEUTICHE SPECIFICHE VOLTE AD UN PROLUNGAMENTO SIGNIFICATIVO DELLA VITA PROGNOSI QUO AD VITAM UGUALE O INFERIORE A TRE MESI NECESSITÀ DI CURE PALLIATIVE

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31 LA MORTE E IL MORIRE OGGI: TRA SCIENZA E FEDE, FRA ATTEGGIAMENTO CULTURALE E DIGNITÀ DEL MALATO

32 L’urgenza di una riflessione. La morte scandalo e doloroso paradosso Della morte non sappiamo nulla. Alcuni interrogativi. Ci si può preparare alla morte? Esserne preparati, aiuta ad andare incontro a una “buona morte”? E ancora: che cos’è diventata la morte nell’epoca della tecnica? Marguerite Yourcenar, in chiusura delle Memorie di Adriano fa dire all’imperatore ormai anziano: “Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…”. Una frase che condensa la migliore lezione egli antichi. Entrare nella morte a occhi aperti significa temerla, ma insieme essere preparati. Adriano sa di dover morire: “Le medicine non mi soccorrono più”. Così ha predisposto tutto: il mausoleo in cui le sue ceneri verranno custodite, l’aquila incaricata di recare agli dei l’anima dell’imperatore, l’avvenire per i propri amici, che già piangono per lui. Adriano “fino all’ultimo istante sarà stato amato d’amore umano”, scrive la Yourcenar. È anche questo amore che gli dà il coraggio di compiere l’ultimo passo: “Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…”.

33 Iona Heath: “La morte ci dà la possibilità di dare compiutezza alla vita”. Morire sul colpo è il nuovo sogno, la fine che ciascuno augura a se stesso. Siamo così impreparati di fronte alla morte che l’unica risposta che la nostra cultura ipertecnologica sa offrirci è fingere che non esista. Costruire una nuova cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile, è l’unica strada possibile. Di più: è un compito di cui essere all’altezza.

34 “A chi vive seriamente” – scriveva Kiekegaard – “il pensiero della morte indica la giusta direzione nella vita e la giusta meta verso cui indirizzare il viaggio”. È proprio questa la sfida: la morte acquista un senso soltanto se intrecciata a un rinnovato sguardo sull’esistenza. La riflessione sulla morte diventa così una riflessione sulla vita: una lente di ingrandimento con cui osservare la quotidianità, strappandoci a quel “sonnambulismo” che ci condanna a vivere senza lucidità gran parte del nostro tempo. Conferire di nuovo dignità alla morte, strappandola dalla terra di nessuno in cui è stata confinata.

35 E la tecnologia? “La tecnica non è né buona, né cattiva, è la ragione umana a dover integrare la scienza in una visione razionale del mondo”, dice Aldo Schiavone. Che però avverte: mai come ora abbiamo bisogno di uno scatto in avanti, di un “nuovo umanesimo” capace di riequilibrare i valori in gioco perché “il rischio è lo sbilanciamento: una scienza e una tecnica sempre più potenti di fronte a un’etica sconclusionata, un diritto asservito, una politica timorosa, una percezione di noi stessi debole”. Per ridare un senso alla vita e alla morte l’unica via è, dunque, cambiare mentalità.

36 Per Giovanni Reale la via da percorrere è un ritorno ai concetti di natura (creata da Dio), persona e amore che stanno alla base del pensiero cristiano: “La cultura scientifico-tecnologica, con le sue sorprendenti e continue vittorie, ha travolto tutto: ciò che resta fuori del suo mondo – il sacro, il mistero dell’uomo – viene eliminato. I corpi dei defunti sono diventati materiale da smaltire. Anche il senso della morte è stato vanificato, rimosso”. Roberta De Monticelli: “Occorre aprire gli occhi prima: la consapevolezza, in vita, della propria mortalità pare essere la condizione per una buona morte”. “La morte è intrinseca al vivere fin da subito, dal primo istante. Non è una condanna venuta a seguito del peccato originale: è uno dei punti che contesto della visione cristiana tradizionale – dice Vito Mancuso. – La scienza ci spiega che la morte è nata con gli organismi pluricellulari e la riproduzione sessuata: non c’è vita organizzata che non sia mortale. Saperlo, aiuta a riconciliarsi con il pensiero della fine”. La morte rimane uno scandalo, un doloroso paradosso. Il filosofo Emanuele Severino mischia di nuovo le carte. Non è mortale, l’uomo: è eterno Eterni i suoi gesti, la sua storia, eterno questo attimo in cui io scrivo e voi leggete, eterni i peli della barba spuntati ogni mattina. La morte non è evidenza, dice Severino, e il precipitare nel nulla che si porta dietro è solo un’opinione. Serve una nuova cultura, perché il diritto sacrosanto alla vita non diventi una gabbia con sbarre fin troppo fitte per potere – con dignità – scegliere di uscire.

37 Remo Bodei imbocca un’altra strada: vive l’epoca dell’antidestino. Il testamento biologico è la versione aggiornata della moneta che Greci e Romani mettevano nella bocca dei morti, pagamento a Caronte per essere traghettati attraverso lo Stige: è il moderno lascia – passare per un viaggio, senza spiacevoli intoppi, fino al capolinea del nostro destino. Ma il testamento biologico porta con sé altri interrogativi e il discorso sulla morte è ben lontano dall’aver trovato una nuova sponda su cui radicarsi. Non possiamo pensare di cavarcela solo firmando una carta. Quale testamento biologico, poi?

38 Il bioeticista Paolo Cattorini, nel libro Bioetica clinica e consulenza filosofica, racconta la vicenda di Milena, una storia che va nella direzione opposta all’impotenza di Eluana, ridotta a corpo in mani d’altri, senza voce e senza volontà. «Suo padre aveva sofferto di complicanze polmonari dovute alle metastasi di un cancro ed era ancora lucido quando si decise di non portarlo in unità di terapia intensiva e di non ventilarlo artificialmente. Lui diceva di essere stanco e di considerare inutili altri trattamenti invasivi. Preferiva essere lasciato a morire nel reparto medico di cui ormai conosceva tutti gli operatori. Ma era davvero capace di prendere quella decisione? La sua stanchezza non era forse il segno di una depressione?». A Milena, schiacciata dal senso di colpa per non aver fatto tutto il necessario a tenere in vita il padre il più a lungo possibile, servirà poi un lungo lavoro di analisi per riuscire a dare il giusto senso a ciò che aveva vissuto. Cosa farei io al suo posto? Io, in quello stato, cosa vorrei per me?

39 Che cosa vuol dire morire? Due brevi lettere, la prima è quella che il cattolico professor Giovanni Reale ha scritto a Mina Welby, la moglie di Piergiorgio, l’altra è la sua risposta. Gentile signora Welby, mi pare che sull’eutanasia si siano fatti numerosi errori da varie parti. L’eutanasia è morta provocata con mezzi o con sostanze su un malato terminale, non rispettandolo sviluppo naturale della malattia e la sua conclusione naturale. La terapia imposta a suo marito e la nutrizione artificiale imposta per diciassette anni alla Englaro rientrano, a loro modo, in forme di accanimento terapeutico. Chiedere la loro sospensione, pertanto, non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, ma rientra in quella libertà che non può essere negata a nessun uomo che chiede che la sua sorte sia riconsegnata alla natura stessa e sottratta a costrizioni tecnologiche che non sono affatto naturali ma artificiali. Come un malato deve sottoscrivere l’accettazione di essere sottoposto a operazioni chirurgiche (anche alle più semplici), e in questo modo lo si considera “libero” anche di non accettare l’intervento, così deve essere anche nel caso in cui venga a trovarsi nella necessità di terapie in vario modo invasive (e quindi di forme di accanimento terapeutico). Il malato deve avere la libertà di accettarle o di non accettarle e deve essergli riconosciuta la libertà di non essere costretto a sottoporsi a quelle terapie, quando esse divengano per lui insostenibili.

40 In questo caso il malato chiede che gli venga concessa la libertà di essere rimesso in mano all’evolversi degli eventi stabiliti dalla natura stessa. Io, come credente, sono sicuro che questo sia lecitissimo e giustissimo: la natura l’ha creata Dio, la tecnologia è opera dell’uomo: se io preferisco, alla fine della mia vita (che Dio stesso mi ha dato) lasciare alla natura (che lui stesso ha creato) il suo corso, e non alle tecniche messe in atto dall’uomo, sono ben lontano dal commettere un atto irreligioso, anzi addirittura mi sento molto religioso, in quanto dico a Dio: è venuta per me la fine, sia fatta la tua volontà (come vuole la natura), senza bisogno che intervenga l’uomo con le sue tecniche. Ciò non toglie, naturalmente, che altri uomini dicano invece: fatemi sopravvivere il più a lungo possibile; la tecnica mi difenda dalla morte per tutto il tempo possibile. La decisione, in ogni caso, deve essere lasciata all’uomo, che ha avuto da Dio il grande dono della libertà, perfino quella di non credere in lui e di opporsi a lui.

41 Spero proprio che non accada che lo Stato faccia una legge nella quale si sostituisce alle decisioni del malato, e che quindi costruisca un monstrum giuridico, pretendendo di arrogarsi il diritto di stabilire lui se, come e quando io possa morire. La Englaro non è stata fatta “vivere” per diciassette anni, ma con l’alimentazione artificiale si è prolungata la sua sopravvivenza biologica pagandola al prezzo di vera vita, si è in qualche modo prolungata la sua agonia per diciassette anni. La Chiesa nel suo Catechismo degli adulti dice: “Neppure la rinuncia al cosiddetto accanimento terapeutico va confusa con l’eutanasia. Le cure enormemente costose e senza consistenti vantaggi per il paziente vengono omesse lecitamente e perfino doverosamente. Il malato ha diritto a morire con dignità”. Non mi si dica che una nutrizione artificiale, con tutto ciò che essa comporta, sia “naturale” e che la sua interruzione sia una forma di eutanasia. Si tratta di sofismi nominalistici, cui risponderei con l’ironia degli antichi: nel caso in cui vengano a mancare cavalli e restino solo degli asini, si faccia una legge che stabilisca che tutti quelli che sono asini siano detti e considerati cavalli. Giovanni Reale

42 Ed ecco la risposta di Mina Welby. Gentile professore, con emozione e commossa ho letto il Suo messaggio. Lei parla chiaro e forte. Leggerò queste sue righe al nostro convegno sul testamento biologico e le persone che saranno presenti sicuramente andranno via arricchite e informate. Ci sono persone che vengono a temprarsi per intraprendere anche loro azioni di ribellione a questo stato di cose in cui si trova il nostro Paese. Poco fa mi ha chiamato la mamma del piccolo Davide, Maria Rita, che verrà insieme al marito. Sicuramente anche Lei ricorderà il bimbo nato con la sindrome di Potter e che veniva tenuto in vita per ben ottanta giorni con grandi sofferenze. Ora i suoi genitori stanno organizzando un convegno di alto livello a Foggia per la fine di aprile. Ecco, vede, professore, solo così trovo che la sofferenza possa dare i suoi frutti. Queste persone come Englaro, Coscioni, Welby, Nuvoli, Davide e altri ancora sono come semi che, macerati nella terra fertile dei cuori, portano il bene per tutti noi. Perdoni il mio sfogo. La ringrazio del Suo intervento che sarà letto al convegno. Mina Welby

43 Educare al morire Percorsi per umanizzare il morire Superare il tabù. Il primo compito in tal senso dovrebbe essere quello della sua “detabuizzazione”. Non è impresa impossibile; con la sessualità tale radicale mutamento è stato compiuto, spingendosi fino all’eccesso opposto. “Detabuizzare” la morte significa allora essere in grado di parlarne, di pronunziare il suo nome e di ogni altra realtà che ed essa conduce. Se oggi divulghiamo, ed è giusto farlo, l’educazione sessuale, è venuto forse il tempo di cominciare a pensare anche ad una “educazione tanatologica”. Certi c’è modo e modo di parlare della morte. Non nasconderne la realtà non significa scaraventarla in faccia con grezza violenza. Significa riuscire a parlarne, a non occultarla in primo luogo a noi stessi. È fin troppo evidente che la difficoltà a parlare della morte col paziente è espressione della difficoltà a confrontarsi con la propria morte. Il primo processo di “detabuizzazione” dovrà dunque essere rivolto innanzitutto a noi stessi. Il vero allontanamento della lugubre presenza della morte non si effettua con più o meno eleganti scongiuri, ma superando le barriere di “incomunicabilità” che ci separano da essa. Anche l’accanimento non si supera temendo di sospendere le terapie futili, ma andando incontro serenamente alla morte.

44 Saper ascoltare. È forse la cosa più difficile, anche se dovrebbe apparire come la più facile. Purtroppo viviamo in un’epoca che ha totalmente cancellato la capacità di “ascoltare” sostituendola con la capacità di “vedere”. Tale attitudine all’ascolto deve comportare la rinunzia attiva all’onnipotenza che spesso attribuiamo alle nostre parole. Spesso ci si accosta al malato con le migliori intenzioni consolatorie, cercando di tirarlo su con quello che possiamo dirgli, con una battuta o una considerazione religiosa. In molti incontri con gruppi di volontariato e operatori di pastorale sanitaria si chiede al relatore “cosa dire” a chi è prossimo alla morte. A parte che non esiste alcuna “ricetta” in tal senso, la domanda più corretta dovrebbe essere: “come ascoltare?”. Ascolto significa attitudine a lasciarsi riempire da quanto chi ci sta dinanzi vuole comunicarci, anche in modo non verbale, con un gesto, una smorfia, una reticenza. Significa saper cogliere “ciò che non dice” più di ciò che dice, testimoniare con la propria presenza che c’è qualcuno a cui interessa la sua vicenda, specie quando questa è l’ultima vicenda significativa che egli potrà vivere. Tutto questo comporta attenzione, calma, concentrazione: un vero e proprio esercizio all’ascolto che deve essere in grado di praticare chiunque voglia attivamente “accompagnare” il morire. Sentirsi ascoltati significa non sentirsi soli; e non sentirsi soli significa non avere bisogno di illusori presidi terapeutici per vivere gli ultimi istanti della propria esistenza.

45 Saper rispettare. In ogni caso qualunque approccio al morente deve comportare l’assoluto rispetto per la persona, per il suo universo culturale e religioso. Ogni cultura e ogni religione hanno una specifica modalità di comprendere e interpretare la morte che spesso è elemento che struttura intimamente l’esistenza del soggetto. Il suo sconvolgimento rischierebbe di avere un effetto destabilizzante, producendo un fine opposto a quello che si vorrebbe raggiungere. La proposta dell’orizzonte cristiano è certamente doverosa, ma senza violentare la coscienza altrui che, in ultima analisi, non ne risulterebbe arricchita o “convertita”, ma solo “convinta”. Nessuno deve essere convinto ad accettare la fede, ma “responsabilizzato” in tal senso, e la responsabilità è realtà che coinvolge profondamente l’individuo, richiedendo tempo perché si realizzi. D’altra parte, se Dio rispetta la coscienza dell’uomo in questi ultimi istanti, l’uomo non può essere da meno. Le vie della salvezza si avvalgono di strumenti che non ci sono noti, riguardando il mistero dell’incontro personale di Dio con ogni singolo uomo. Anche nella diversità di scelte, di valori, di religiosità può esserci un incontro con il divino che l’uomo può solo assecondare. Il resto è mistero che appartiene solo a Dio.

46 Realizzare un cammino che umanizzi il morire attraverso una serie di tappe. Prendere consapevolezza del fatto chela vita è per sua natura “impregnata” dalla morte e la morte è a sua volta feconda di vita. Ogni nascita inaugura la morte e ogni morte propizia una nuova vita. Affrontare la morte in prima persona sapendo di cogliere le occasioni che si presentano, invece di evitarle o fuggirle. Talvolta, l’opportunità di visitare un amico gravemente ammalato o di vegliare un agonizzante ci permette di guardare in faccia questa realtà e di meditarne il significato. Partecipare a corsi o conferenze sull’argomento, per smussare le proprie resistenze interiori e apprendere a parlare e a riflettere più liberamente sui timori o tabù che circondano la morte, in modo da espandere i propri orizzonti conoscitivi. Valorizzare l’opportunità di comunicare con chi è disposto a parlare del proprio morire, per inquadrare questa esperienza in una prospettiva filosofica o spirituale positiva. Accrescere la propria cultura sull’argomento attraverso la lettura di libri o articoli finalizzati ad approfondire la propria preparazione in materia. Praticare il morire Da sempre, le scuole filosofiche e spirituali hanno proposto la necessità del morire come processo indispensabile per educarsi a vivere.

47 Alcuni principi etici e professionali che sono la guida per il lavoro quotidiano all’interno dell’hospice Il rispetto per la vita La proibizione di dare la morte Il rispetto della libertà e volontà del malato Il prendersi cura del morente La possibilità del sonno indotto Dare il tempo per le ultime carezze Trovare il modo per dirsi addio

48 La dignità del morente e le sfide etiche Chi sta morendo ha diritto: A essere considerato come persona fin alla morte. A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà. Al sollievo del dolore e della sofferenza. A cure e ad assistenza continue nell’ambiente desiderato. A non subire interventi che prolunghino il morire. A esprimere le sue emozioni. All’aiuto psicologico o al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede. Alla vicinanza dei suoi cari. A non morire nell’isolamento e in solitudine. A morire in pace e con dignità. Carta dei diritti del morente approvata dal Comitato Etico della Fondazione Floriani

49 Una esperienza-testimonianza “Volevo essere tutto me stesso prima di morire”. Così scrive Carlo Massa nelle ultime righe del suo “diario”, due giorni prima della sua morte, avvenuta il 19 agosto del 2007, per gli effetti di un devastante tumore alla pelle, che gli era stato diagnosticato tre anni prima, e prima di cedere al desiderio – ancora contrastato – di lasciarsi andare, finalmente, al definitivo silenzio. Ma tutte le pagine che precedono sono la testimonianza viva, palpitante, pulsante di una lotta aspra e vera, combattuta in prima istanza contro la malattia e la tentazione di assecondare le subdole seduzioni del cedimento. In seconda istanza, una volta perduta la prima battaglia e spalancatasi la prospettiva della fine, la lotta è stata per significare la propria vita e partire dal sapere della morte.

50 Ferragosto: Volevo essere tutto me stesso prima di morire. Ora non ho più voglia di parlare con le persone, quelle fuori dalla mia cerchia più stretta. Mi fa piacere che gli altri mi chiamino, che si interessino, ma ho chiuso con i commiati a ripetizione. Ora si dibattono in me due esigenze. L’una è di morire, di dire serenamente basta, addio. L’altra è l’istinto vitale che dissennato ed efficace, mi tiene avvinto nei giorni al cibo. Ho forti desideri di cose gustose, cozze gratinate e cioccolato. Ho voglia anche di ascoltare parole ben scelte e mi faccio rileggere le Memorie di Adriano. Mi si forma l’immagine di me che sto in disparte e lascio che queste due opposte esigenze di combattano. Vorrei lasciarmi andare. Smettere di imporre la mia forma al mondo.

51 Dignità e umanizzazione della morte Una morte dal volto amico Nel famoso film di Bergman Il settimo sigillo, un cavaliere medievale sfida la morte, venuta a prenderlo in una partita a scacchi. Ovviamente sarà la morte a vincere, ma attraverso le alterne vicende del racconto il cavaliere dialoga con essa. Forse dovremmo riacquistare questa capacità dialogica: tanti problemi etici, come quelli connessi all’eutanasia o all’accanimento terapeutico cadrebbero da soli. In tal senso potremmo fissare alcuni obiettivi prioritari per il malato:

52 1. Conoscere la verità. È un compito difficile che ci mette in gioco profondamente, suscitando difficoltà, imbarazzo e disagio. È molto più facile non dire la verità, o lasciarla intuire senza comunicarla espressamente. D’altra parte non si deve mai dimenticare che la salute appartiene al malato e a nessun altro: non ai familiari, tanto meno al medico. Nascondergli qualcosa che lo riguarda in modo così profondo e coinvolgente come la morte, significherebbe espropriarlo di qualcosa che gli appartiene costitutivamente, defraudandolo non solo di un “diritto”, come ci piace dire oggi, ma di una dimensione essenziale della sua persona. Nel dir questo non si vuole ovviamente affermare che la verità vada crudamente sbattuta in faccia. La verità va sempre detta, ma nel rispetto delle capacità di accoglienza da parte del paziente. Questo significa che dovrà essere graduata, proporzionata, magari differita nel tempo coinvolgendo in essa i familiari, senza costruire castelli di bugie supportati da inutili e penose intensificazioni terapeutiche. Se c’è una speranza che non va tolta, è proprio quella di riuscire a vivere bene il tempo dell’ultimo tratto della vita.

53 2. Guardare oltre Nel “Rapporto” della prestigiosa “Unità dei servizi palliativi” del Royal Victoria Hospital di Montreal sono annotate alcune delle domande che comunemente occupano lo spirito dei malati gravi: Cosa accadrà alla mia morte? Vi è qualcosa nell’aldilà? Perché mi tocca soffrire? Perché devo morire ora? Naturalmente quando si parla di morte il pensiero corre immediatamente a ciò che vi è dopo, cioè all’”aldilà”. Da sempre, il vero nocciolo del problema per chi muore, non è l’esperienza eventualmente dolorosa del morire ma l’incognita del “dopo”. La costante risposta delle religioni è stata quella di un’altra realtà, intesa in forme profondamente diverse: da una vita del tutto simile alla nostra (si pensi agli alimenti o agli oggetti d’uso comune che gli egiziani ponevano nei sarcofaghi), a un’esistenza beata che, al contrario, annulla ogni dimensione terrena (come nel nirvana buddista), dai cicli di reincarnazione (come nell’induismo) alla contemplazione di Dio (come nel cristianesimo). All’interpretazione religiosa della morte si oppone quella agnostica, che dopo la morte non vede assolutamente nulla.

54 Nel “Rapporto” della prestigiosa “Unità dei servizi palliativi” del Royal Victoria Hospital di Montreal sono annotate alcune delle domande che comunemente occupano lo spirito dei malati gravi: Cosa accadrà alla mia morte? Vi è qualcosa nell’aldilà? Perché mi tocca soffrire? Perché devo morire ora? Come posso credere che la vita abbia un senso quando tante speranze rimangono irrealizzate? Sto morendo per colpe passate? Posso essere perdonato? Vi sono speranze di guarigione? LA SALUTE COME COMPITO SPIRITUALE (Anselm Gr ü n)

55 “Fra tutti i miei pazienti nella seconda parte della loro vita, diciamo al di sopra dei 35 anni, non ce n’è stato uno solo il cui problema, in ultima analisi, non fosse quello di trovare una dimensione religiosa alla propria vita. E questo indipendentemente dall’adesione a una credenza particolare o alla appartenenza ad una Chiesa”. (C. G. Jung) LA SALUTE COME COMPITO SPIRITUALE (Anselm Gr ü n)

56 IL RACCONTO DI UNA ESPERIENZA IN HOSPICE “Mamma come stai ?” - “Bene” era la tua risposta. “Mamma ciao, ritorniamo presto” “Vi aspetto, ciao”. Ti rallegravi per la vista degli alberi e ti stupivi per la bellezza dei fiori. Questi giorni di calma e di serenità sembravano dovessero durare in eterno. Ti abbiamo accudito, accarezzata e baciata. Abbiamo vegliato il tuo sonno leggero. La malattia non c’era più. Grazie per averci donato il tuo sorriso sempre giovane e lo sguardo bambino dei tuoi occhi azzurri. Grazie per il tuo buon senso. Grazie per averci insegnato a vivere e a morire. Grazie all’Hospice ed al suo personale meraviglioso!

57 Cesare Pavese «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti».

58 Davide Maria Turoldo «Non chiedo che tu mi guarisca offesa sarebbe la domanda che esaudire non puoi. Chiedo che tu mi salvi e non mi lasci per sempre soggiacere a questa quotidiana morte»

59 Teilar De Chardin «Quando sul mio corpo (e ancor più sul mio spirito), il logorio dell’età comincerà a segnare la sua impronta; quando, dall’interno, nascerà in me il male che diminuisce o rapisce; nel minuto doloroso in cui, tutto ad un tratto, mi accorgerò di essere malato o d’invecchiare; in quel momento ultimo, soprattutto, in cui mi sentirò sfuggire da me stesso, totalmente passivo nelle mani delle grandi forze ignote che mi hanno formato; in tutte quelle ore cupe, concedimi, o Signore, di intuire che Tu stesso (purché la mia fede sia abbastanza grande) apri un varco doloroso nelle mie fibre, per penetrare fin nel cuore della mia sostanza e rapirmi in Te. Concedimi allora qualcosa di ancora più prezioso della grazia che ti chiedono i tuoi fedeli. Non mi basta morire comunicandomi. Insegnami a comunicarmi morendo. Così sia».

60 ALCUNE CONVINZIONI CHE DEVONO ABITARCI Una comunità, una persona la si giudica dal posto che sa riservare agli ultimi (Evangelizzazione e testimonianza della carità n. 39), alle persone più fragili, alle persone più vulnerabili. Il più grande e grave crimine è l’indifferenza. Il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza. Il contrario della vita non è la morte ma l’indifferenza. Il più grande scandalo non è l’ingiustizia ma la non-condivisione.

61 A MO’ DI CONCLUSIONE Alcune pro-vocazioni… La solidarietà non è una parentesi, un attaccapanni, non è uno slogan, è scelta, impegno di vita! È mettersi nel corpo l’occhio del più povero, del più debole. «Il Volontariato è padre di cultura, generatore di coscienza critica, più che gestore di scarti residuali della emarginazione sfuggiti alle ben renumerate ditte appaltatrici del disagio». (don Tonino Bello) «La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti». (Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis n. 38)

62 "La peggiore malattia dell'Occidente oggi non è la tubercolosi o la lebbra, ma è il non sentirsi desiderati nè amati, il sentirsi abbandonati. La medicina può guarire le malattie del corpo, ma l'unica cura per la solitudine, la disperazione e la mancanza di prospettive è l'amore. Vi sono molte persone al mondo che muoiono per un pezzo di pane, ma un numero ancora maggiore muore per mancanza d'amore. E la povertà in Occidente assume forme nuove: non è solo solitudine, ma è anche povertà spirituale. Vi è fame d'amore, e vi è fame di Dio". (Madre Teresa di Calcutta) È urgente riproporre il primato dell’amore, anzi, ripartire dall’amore. E la mancanza di amore rende “deboli” sia la fede che la ragione. L’amore è la via per un nuovo umanesimo.

63 LA SPERANZA HA DUE FIGLI PREZIOSI: si chiamano indignazione e coraggio. L’indignazione per come vanno le cose e il coraggio per cambiarle” (Sant’Agostino)

64 GRAZIE


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