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Natalia GINZBURG senza una mente politica

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Presentazione sul tema: "Natalia GINZBURG senza una mente politica"— Transcript della presentazione:

1 Natalia GINZBURG senza una mente politica

2 Opere 2001 Non possiamo saperlo 1942 La strada che va in città
1952 Tutti i nostri ieri 1961 Le voci della sera 1962 Le piccole virtù 1963 Lessico famigliare 1967 Ti ho sposato per allegria 1970 Mai devi domandarmi 1973 Caro Michele 1974 Vita immaginaria 1977 Famiglia 1983 Famiglia Manzoni 1984 La città e la casa 1990 Serena Cruz o la vera giustizia 2001 Non possiamo saperlo

3 Gli arabeschi della memoria Saggi, articoli, interventi
L’Unità (’47-51 e poi negli anni Ottanta), La Stampa (dagli anni Sessanta, specialmente ’77-’78), Il Corriere della Sera, Il Mondo (1975, “Cinema e altro”), la Repubblica Elzeviri, Recensioni, Articoli di prima pagina Scritti autobiografici, scritti di critica, di costume, polemici e di attualità Assoluta impronta originale, incompetenza come arma di libertà Da alcuni anni, scrivo degli elzeviri sui giornali. La ragione per cui li scrivo, e la ragione per cui se non li scrivo mi sento in colpa, non mi è molto chiara. […] L’unica cosa che posso dire è che, a forza di scrivere elzeviri, ho capito che quello che mi piace fare, negli elzeviri, è raccontare tutto ciò che mi passa per la testa. Elzeviri, in «Corriere della Sera», 30 giugno 1974

4 Gli arabeschi della memoria Saggi, articoli, interventi
Pensare a un mondo nuovo e migliore, avendo intorno a noi questo scenario può sembrare roseo ottimismo, un inutile roseo arabesco tracciato nel vuoto. In verità però la fede nel futuro può nascere nel cuore del pessimismo più cupo. Essa può essere illogica, incoerente, utopistica . La qualità della vita, in «La Stampa», 5 maggio 1978 È forse come tracciare degli arabeschi su un muro. Ma penso che ognuno di tanto in tanto si configuri un mondo governato come a lui piacerebbe, penso che ognuno di tanto in tanto si metta a tracciare qualche arabesco su un muro Arabeschi (1986), ora in Non possiamo saperlo, cit., p. 120. L’arabesco, vena utopica Tempo (presente, passato e futuro) Libertà e diritto di usare l’immaginazione ovvero le immagini (vd. Pasolini e le lucciole o Sciascia e Moro)

5 Gli arabeschi della memoria Saggi, articoli, interventi
1962 Le piccole virtù 1970 Mai devi domandarmi 1974 Vita immaginaria 1990 Serena Cruz o la vera giustizia 2001 Non possiamo saperlo

6 Le piccole virtù e la trilogia della memoria
Quando scrivo delle storie sono come uno che è in patria, sulle strade che conosce dall’infanzia e fra le mura e gli alberi che sono suoi. Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate e cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c’entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. Questo è il mio mestiere e io lo farò fino alla morte. Il mio mestiere (’49), in Opere I, pp

7 La trilogia della memoria
Così arrivai alla pura memoria: vi arrivai a passi di lupo, prendendo vie traverse, dicendomi che le fonti della memoria erano quelle a cui non dovevo mai bere, l’unico luogo al mondo in cui dovevo rifiutarmi di andare. E non so se scriverò ancora libri: ma so che se scrivessi ancora dovrei ritrovarmi in quello stato di assoluta e pura libertà. N. Ginzburg, Nota a Cinque romanzi brevi, cit., p 1952 Tutti i nostri ieri 1961 Le voci della sera 1963 Lessico famigliare

8 I rapporti umani E adesso siamo veramente adulti, pensiamo un mattino guardando nello specchio il nostro viso solcato, scavato: guardandolo senza nessuna fierezza, senza nessuna curiosità: con un po’ di misericordia. […]. E adesso siamo veramente adulti, pensiamo, e ci sentiamo stupiti che essere adulti sia questo, non davvero tutto quello che da ragazzi avevamo creduto, non davvero la sicurezza di sé, non davvero un sereno possesso su tutte le cose della terra. Siamo adulti perché abbiamo alle spalle la presenza muta delle persone morte, a cui chiediamo un giudizio sul nostro comportamento […]. Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l’ultima volta tutte le cose della terra, e abbiamo rinunciato a possederle, le abbiamo restituite alla volontà di Dio: e d’un tratto le cose della terra ci sono apparse al loro giusto posto sotto il cielo, e così anche gli esseri umani, e noi stessi sospesi a guardare dall’unico posto giusto che ci sia dato: esseri umani, cose e memorie, tutto ci è apparso al suo posto giusto sotto il cielo. I rapporti umani, in Opere, I, pp

9 LESSICO FAMIGLIARE Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta fra noi una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, … N. Ginzburg, Lessico famigliare, pp «un elogio dell’appartenenza (alla famiglia, alla tribù, alla comunità, all’antifascismo), un elogio della coesione famigliare come strumento di difesa della tribù attraverso il linguaggio» C. Garboli, Prefazione a N. Ginzburg, Opere, cit., p. XXXIV.

10 “la sola differenza (degli ebrei) è nello sforzo di non differenziarsi” (G.Debenedetti)
Tutti o quasi tutti siamo donne, o ebrei, o omosessuali, oppure siamo diversi semplicemente per inclinazione alla diversità, per malinconia, per timidezza, per nevrosi, per silenzio. Siamo tutti “diversi”. L’essenziale è portare giustamente la propria diversità, l’essenziale è non farne né un’insegna né un’uniforme, e mescolarla silenziosamente nelle infinite diversità degli altri, in quelle che noi riteniamo le comunità dei non diversi e normali. Ragioni d’orgoglio, “Corriere della Sera”, 5 dic. 1975, in Non possiamo saperlo, p. 45.

11 Trilogia dei “romanzi romani”
TITINA Sì, le famiglie. Ogni famiglia era una specie di guscio chiuso. Adesso non ci sono più le famiglie, chi va , chi viene, le porte sono sempre aperte a tutti, bisogna occuparsi del primo venuto come se fosse un tuo stretto parente, gli estranei vengono in casa tua e fanno il nido. N. Ginzburg, La segretaria, in Opere, I, pp Roma, la città del presente La dissoluzione della famiglia La forma epistolare (non più un io narrante, ma un punto di vista frantumato) Da Caro Michele in poi la Ginzburg «non smetterà più di sventrare la famiglia, e di farla a pezzi con gioia non meno selvaggia e tribale di quella spesa per consacrarla». C. Garboli, Prefazione, a N. Ginzburg, Opere,I, p. XXIX 1973 Caro Michele 1977 Famiglia 1984 La città e la casa

12 Caro Michele ovvero il requiem della memoria
I ragazzi oggi non hanno memoria, e soprattutto non la coltivano, e tu sai che anche Michele non aveva memoria, o meglio non si piegava mai a respirarla e coltivarla. A coltivare le memorie ci siamo forse ancora tu, tua madre, e io, tu per temperamento, io e forse tua madre per temperamento e perché della nostra vita presente non c’è nulla che valga i luoghi e gli attimi incontrati lungo il percorso. Mentre io li vivevo o li guardavo, quegli attimi o quei luoghi, essi avevano uno straordinario splendore, ma perché io sapevo che mi sarei curvato a ricordarli. Mi ha sempre addolorato profondamente che Michele non volesse e non potesse conoscere questo splendore, e andasse avanti senza mai voltare la testa indietro. Credo però che lui contemplasse questo splendore dentro di me. E tante volte ho pensato che forse mentre moriva egli ha in un lampo conosciuto e percorso tutte le strade della memoria, e questo pensiero è per me consolante, perché ci si consola con nulla quando non abbiamo più nulla, e perfino aver visto in quella cucina quella maglietta cenciosa che non ho raccolto, è stata una strana, gelida, desolata consolazione per me. Caro Michele, in Opere,II, pp

13 Serena Cruz o l’ultima difesa della famiglia
Che cos’è una famiglia? - si chiede la scrittrice - è un punto dove un gruppo di persone sta insieme, in una casa o in una stanza o in una roulotte. Si formano fra loro legami che possono essere forti o deboli, labili o tenaci. Da quel punto, il bambino guarda il resto del mondo. Le famiglie possono essere pessime, repressive, ossessive, o indifferenti, o disamorate, o distratte, o tossiche, tarate, verminose. Molto spesso lo sono. Però a un bambino sono necessarie. Serena Cruz o la vera giustizia (1990), p. 76. Serena Cruz o l’ultima difesa della famiglia

14 Ritratti di amici L’amico misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all’improvviso con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della sua calligrafia larga e rapida, cancellando con furia; e celebrava, nei suoi versi, la città . Ritratto d’un amico (1957), in Le piccole virtù, ora in Opere, I, p. 798 Il passo e la voce Il primo incontro I segni del tempo Il valore dell’amicizia Era stato lontano e diverso dalla gente che camminava per strada. Adesso, sembrava mescolarsi alla gente. Al suo desiderio di stravaganza, era venuto ad accoppiarsi un desiderio di rassomigliare a tutti. Non avrei dovuto stupirmene, dato che le sventure e la guerra avevano operato trasformazioni in ognuno. … Aveva un cappotto color tabacco dal bavero liso e logoro, una cravatta logora e una magrezza nel viso e nel collo che mi faceva pensare a mio padre. Egli ora mi sembrava umile. … A Firenze, in quei giorni, scopersi che nella sua vanità poteva esistere anche l’umiltà. Fu quella l’ultima volta che lo vidi. Come sempre quando m’incontrava, citò il mio verso «Lavoratori», con un sorriso solare, e un largo gesto di benedizione. Lasciammo la trattoria, e lo vidi ancora una volta camminare nella notte romana, come tanti anni fa, al tempo di Cristo, con il suo passo ozioso, randagio e leggero Ricordo di Carlo Levi (1975), in Non possiamo saperlo, p. 22

15 Lo sguardo ovvero l’anima della scrittura altrui
Non si è mai trasformato nell’aspetto fisico, è rimasto un ragazzo: ma nella mente e nell’animo ha subíto, a un certo punto, una profonda trasformazione. Questo ha detto Citati, e l’ha detto, che io sappia, lui solo. Quali fossero le ragioni e le strade di questa trasformazione, non ci è dato saperlo. Essa è trapelata forse in un suo modo di camminare, di sorridere, di guardare. Si è riflessa nel suo scrivere … In quel libro stupendo che è Le città invisibili, secondo me il più bello dei suoi libri, questa trasformazione è già avvenuta. Il mondo è là, radioso, multiforme, variegato e screziato, e intatto nel suo splendore: ma è come se lo sguardo che lo indaga, lo scevera e lo contempla sia consapevole di abbandonarlo per sempre. D’ora innanzi, quello sguardo si poserà altrove, non più sulle immensità luminose del cielo e del mare e sull’intrico delle varie vicende umane: d’ora innanzi, quelle immensità le cercherà altrove, nei gusci degli insetti o nelle crepe delle rocce […]. Sulle «città invisibili» si è addensato il dolore della memoria. In ogni altra opera di Calvino, la memoria è assente, o meglio, quando è presente, non è mai dolorosa. Qui, nelle «città invisibili», non sognate ma ricordate, regna la memoria dolorosa di un tempo che non potrà mai ritornare. Sulle città, altissime sotto il cielo, brulicanti e splendenti, formicolanti di errori umani, traboccanti di merci e di cibi, affollate di traffici, dominio dei topi e delle rondini, cala il tramonto. Lo sguardo che le saluta è uno sguardo che dice addio, a un mondo molto amato, fissandolo da una nave che s’allontana. Il sole e la luna, in Non possiamo saperlo, pp

16 Il cinema a memoria ovvero i pensieri di uno spettatore
Il silenzio che all’inizio ci investe è come una raffica di vento che ci trasporti nelle profondità d’un pianeta diverso dal nostro. Placata quella raffica di vento, noi ci accorgiamo d’essere caduti in uno stato di immobilità, come se fossimo stati colpiti da una malattia o da un freddo improvviso, e ci sembra d’avere perduto ogni nostra sensibilità abituale. Dello sgomento che avevamo provato all’inizio, non c’è in noi più traccia. Non sentiamo né orrore, né ripugnanza, né ribrezzo. O meglio, il ribrezzo e l’orrore sono in noi leggeri e gelidi, e a poco a poco non ne avvertiamo più il minimo segno. In seguito, quando ricordiamo il film, ciò che ricordiamo con vero orrore sono degli accordi di pianoforte, un fruscio di vesti o un luccichio d’anelli, voci untuose e vellutate, e specchi e tappeti e cristalli, come se il vero orrore fosse tutto addensato nello scenario […]. Ma nel corso del film, davanti alle azioni turpi e alle risate lunghe e lugubri, e davanti agli escrementi e al sangue, non sentiamo nulla, salvo un senso di oppressione al respiro, e un senso di immobilità. «Salò» di Pasolini, «Il Mondo», 4 dicembre 1975, ora in Non possiamo saperlo, pp La memoria è l’unica vera chiave di giudizio per quanto riguarda i film. Di un film noi conserviamo unicamente quello che amiamo; tutto il resto si dissolve in cenere Cinematografo, «La Stampa», 7 novembre 1971 Impressioni e sensazioni anziché giudizi La memoria, costruisce il racconto e fonda il giudizio Nel cinema come nella letteratura: la memoria delle letture dell’infanzia (la marchesa Colombi) e della giovinezza (Proust) Autori paterni e fraterni

17 Gli intellettuali e le parole
Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che ne fa sfoggio e crede con esse di aver risanato il mondo. L’uso delle parole (1989), in Non possiamo saperlo, cit., p. 150. Si parla di «questione morale». Ma la questione morale non è soltanto invocare che nella vita pubblica ci si astenga, come ovunque altrove, da furti, da inganni o da imbrogli. È anche rispettare le parole, difendere la salute delle parole. Studiarsi di situarle sempre nella loro giusta sede . Sul pentimento e sul perdono (1988), in Non possiamo saperlo, p. 125. Stretta connessione fra ordine linguistico ed etico Confronto generazionale come confronto verbale La virtù della chiarezza “militante” e la metamorfosi delle parole (passato e presente) Scollamento fra realtà e linguaggio mediatico. La parola “pane”, p. Violazione semantica e oltraggio alla memoria (pp ) La parola “intellettuali” (p. 104)

18 Senza una mente politica
Io non credo che i romanzieri, e i romanzi che scrivono, custodiscano dentro di sé dei messaggi politici, destinati a rendere migliore il mondo. Non credo che i romanzieri, e i romanzi che scrivono, possano mai essere utili alla vita pubblica. Credo fermamente nella loro splendida, meravigliosa, libera inutilità. Penso che a volte alcuni romanzieri, come persone, possano provare un senso di collera, di sdegno civile, e l’impulso a essere utili alla vita pubblica, magari in un campo quanto mai ristretto, quanto mai limitato. Vi porteranno magari un poco della loro esperienza umana, avendo essi a lungo osservato gli eventi umani, le fisionomie umane, quando oziavano o quando scrivevano. Vi porteranno anche il carico delle loro inettitudini, goffaggini, ignoranze, incoerenze e perplessità. Vi porteranno anche il loro profondo e ostinato amore per l’ozio, per la contemplazione, per una vita solitaria e appartata, e il desiderio di un’epoca in cui vi sia vasto spazio per quelli che non hanno voglia di far nulla. Senza una mente politica (1983), in Non possiamo saperlo (2001), p. 104.

19 Alla ricerca di grandi virtù
L’onestà non è abile, e non è affatto astuta. Non le importa nulla di essere astuta. Non adopera, nelle sue scelte, l’astuzia, ma ubbidisce unicamente a sé stessa. È intuitiva, ma solo nel discernere ciò che le rassomiglia da ciò che la offende. Non cerca vittorie. È costantemente disposta a perdere. La sola cosa che davvero le sta a cuore è non truffare, non frodare, non tradire né gli altri, né sé stessa. Vuole muoversi, quando è possibile, non al chiuso ma all’aperto, non nella notte ma nel giorno. Ama le vie dirette e detesta le vie traverse. Non si cura di essere derisa, schernita, umiliata, di essere considerata ingenua, di essere sola nelle sua decisioni, e di essere priva di pungiglioni e di artigli, quei pungiglioni e quegli artigli che la società di oggi tanto ammira e ama. L’onestà non vuol essere ammirata, né vuol essere amata. Presta fede unicamente a sé stessa, e va dritta per la sua strada… L’onestà, in «l’Unità», 20 maggio 1984, pp. 1-2 L’urlo e il sogno: - Contro le offese alla verità e alla giustizia (vari affaire, da Moro a Sofri a Serena Cruz, e vari fatti di cronaca: Il papa, Il crocifisso a scuola) - Il diritto dell’utopia (Pagate i maestri come i ministri, p. ) Commedia (la nutella) e tragedia (rammendare): giudizio sull’attualità da un punto di vista familiare Dimensione materna: discorso sui vizi e le virtù

20 Querelles Le ragioni delle viscere
Dallo sterminio degli ebrei nei lager ha preso origine quell’istinto di violenza, di dispregio dell’esistenza umana, di devastazione molto spesso calcolata a freddo e decisa a un tavolo, che vediamo oggi apparire nei più diversi punti del mondo. E del resto come pensare diversamente? Come credere che gli anni del genocidio siano passati sopra l’umanità senza segnarla, senza marchiarla a sangue, senza far sì che il mondo cambiasse di colpo connotati e colore? Come pensare che dopo il genocidio il mondo sia rimasto come prima? Non ha forse lasciato dietro di sé, il genocidio, un’idea nuova della morte, nuova e atroce, e la sensazione diffusa che la specie umana sia qualcosa che si può freddamente umiliare, atterrire, calpestare e devastare, perché il suo valore è inesistente? E non portiamo tutti sulle spalle, oggi, il peso immane d’una tragedia che ha colpito l’umanità e la grande fatica di ricostruire dentro di noi una visione del futuro dove la vita di ogni singolo possa di nuovo rappresentare, agli occhi di tutti, un bene inestimabile, qualcosa che a qualunque prezzo è necessario proteggere, difendere, salvare? 1972 la questione palestinese 1975 l’aborto 1977 coraggio e viltà degli intellettuali 1978 il caso moro 1989 Serena Cruz

21 Disegnare arabeschi su un muro … negli anni di piombo
Degradare e umiliare la qualità della vita significa spogliare di ogni reale valore e pregio sia la vita, sia la morte. Significa rivolgere alla vita delle richieste minime e miserabili, e rivolgere alla morte uno sguardo spento e vuoto. Senza luce e senza gloria le richieste indirizzate alla vita, senza luce e senza gloria lo sguardo indirizzato alla morte. Significa ritenere che alcuni beni umani, come la rettitudine, l’onestà, la misericordia, il coraggio, la fedeltà al proprio simile, la fedeltà alla propria parola e al proprio pensiero, debbano essere cancellati dalla terra e non ne rimanga memoria… Pensare a un mondo nuovo e migliore, avendo intorno a noi questo scenario può sembrare roseo ottimismo, un inutile roseo arabesco tracciato nel vuoto. In verità però la fede nel futuro può nascere nel cuore del pessimismo più cupo. Essa può essere illogica, incoerente, utopistica . Per sentire ricondotta in alto la qualità della vita, a noi singoli basta poco […]. Ad alcuni di noi, è bastato, nei giorni scorsi, rileggere le parole, che non so quale giornale ha riportato, dell’ultima lettera di Guglielmo Jervis, morto della Resistenza. «Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea». Vorremmo anche noi, nel momento della morte, riuscire a rivolgere gli occhi a un futuro alto e ignoto, e non sappiamo se ci riuscirà, essendo le forze del male così imprevedibili e così sottili, e la natura umana così fragile, così imprevedibile e così pietosa. «Muoio per aver servito un’idea» egli dice, e a noi sembra che sia proprio questo di cui oggi la gente ha una sete disperata, il servire un’idea, cioè il custodirla dentro di noi e offrirla in regalo agli altri. La qualità della vita, in «La Stampa», 5 maggio 1978


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