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4.1 TEORIA DEI CONSUMI E DEL RISPARMIO.

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1 4.1 TEORIA DEI CONSUMI E DEL RISPARMIO.
Le caratteristiche principali del consumo sono le seguenti: la spesa per il consumo è la categoria più rilevante del PNL; il consumo è il flusso di spesa più stabile del PNL (per lo meno i beni di prima necessità); all’interno della spesa per i consumi si nota una certa instabilità, con bruschi spostamenti da un settore all’altro, dovuti a variazioni di prezzo e ad altri fattori quali la variazione della scala di preferenze o la legge di Engel. Questa instabilità della spesa per consumo tende ad aumentare al migliorare del tenore di vita e con il crescere dell’importanza dei servizi (fattori moda ed imitazione sociale determinanti); il rapporto Consumi/PNL è soggetto a notevoli fluttuazioni (PNL = C + I + G + Exp. Nette e se I è instabile, il rapporto C/PNL è anch’esso instabile).

2 La funzione classica del consumo, quella di Keynes, è abbastanza stabile in quanto correla la sua propensione media e marginale al suo complemento: la propensione media e marginale al risparmio. L’ipotesi fondamentale di Keynes o legge fondamentale di Keynes sottolinea che, in media, le persone tendono ad aumentare il loro consumo al crescere del reddito, ma in modo meno che proporzionale all’aumento del reddito stesso. Inversamente, una diminuzione del reddito causa una diminuzione meno che proporzionale dei consumi.

3 La propensione marginale e media al risparmio può essere ascritta ai seguenti fattori:
necessità di accumulare ciclicamente dei risparmi per acquisti di beni durevoli (auto, casa, ecc.); motivo precauzionale (emergenze finanziarie durante il ciclo vitale); colmare discontinuità dei redditi (CIG, prepensionamento, pensionamento, disoccupazione); desiderio di trasmettere capitale finanziario o fisico alle prossime generazioni (ricordare che da 1/3 a 2/3 della ricchezza individuale è trasmessa da una generazione all’altra e solo il rimanente è attribuibile al ciclo vitale); l’incapacità di spendere una parte del proprio reddito (ragioni soggettive ed oggettive); desiderio di percepire un interesse sul capitale risparmiato quale premio per la rinuncia al consumo immediato in vista del consumo futuro.

4 In termini algebrici, il consumo C in funzione del reddito è rappresentato dalla seguente relazione:
C = C* + cY C* > 0 e 0 ≤ c < 1. Di seguito elenchiamo le caratteristiche della funzione di consumo di breve periodo: il consumo è funzione dell’unica variabile indipendente Yd (reddito disponibile del periodo) e delle variabili esogene C* e c (entrambe costanti); l’intercetta è positiva (C* > 0) in quanto vi è il consumo indispensabile alla sopravvivenza;

5 PMC = C / Y = (C* + cY) / Y = c + C* / Y
il risparmio (Y-C) risulta negativo per livelli di reddito inferiori al valore di C, mentre è positivo, proporzionalmente al reddito, per valori del reddito superiori al valore di C. Il valore Y0 che eguaglia il consumo (con risparmio pari a 0) si ottiene Y = C* + cY Y = C* / (1-c); la propensione media al consumo viene definita come rapporto tra il consumo globale ed il reddito globale PMC = C / Y = (C* + cY) / Y = c + C* / Y dove c e C* sono delle costanti ed Y è il reddito. All’aumentare di Y la propensione media al consumo tende a diminuire, dato che il reddito compare a denominatore; viene così confermato che all’aumentare del reddito diminuisce la propensione media al consumo, mentre aumenta quella media la risparmio;

6 la propensione marginale al consumo ed al risparmio (PMgC e PMgR) indicano rispettivamente la quota di reddito consumato / risparmiato per unità di reddito guadagnato: PMgC = c PMgR = 1-c = s Le due espressione sopra descritte si ottengono calcolando la derivata prima (dC/dY) della funzione rispetto al reddito Y e corrisponde al coefficiente angolare c della retta dei consumi (PMC > PMgC).

7 Detto questo è chiaro che il consumo dipende da una definizione più complessa di quella individuata da reddito corrente, in quanto dipendente anche da altre variabili economiche ed extraeconomiche (demografiche, politiche, tecnologiche ed istituzionali). È per questo che sono stati formulati modelli più complessi come quelli della teoria del ciclo vitale del reddito permanente e del reddito relativo, teorie di lungo periodo e a carattere microeconomico.

8 L’ipotesi del ciclo vitale fu formulata alla fine degli anni Quaranta da A. K. Ando, R. E. Brumberg e F. Modigliani. Secondo tale teoria, gli individui pianificano spese e risparmi su tutto l’arco della loro vita in modo da massimizzare l’utilità derivante dal consumo. Questa ipotesi è basata su constatazioni che valgono per l ‘individuo medio e per il suo ciclo vitale: il reddito degli individui non segue un andamento regolare; i consumi hanno un andamento più regolare del reddito perché gli individui non gradiscono sbalzi nel loro tenore di vita; la ricchezza è in parte la risultante dell’evoluzione del reddito e dei consumi, in quanto è costituita dalla somma dei risparmi individuali e di quanto ereditato.

9 Secondo la teoria del ciclo vitale, i consumi ed i risparmi risultano funzione di:
parametri istituzionali (ammontare delle pensioni; ammontare medio delle eredità ricevute e lasciate; imposizione fiscale sui redditi da lavoro, da patrimonio, sulla ricchezza e sulle eredità; lunghezza del periodo lavorativo e di quello del pensionamento; regole stabilite dallo Stato, dalle corporazioni e dalle consuetudini che determinano una certa distribuzione del reddito da lavoro in generale); parametri demografici (lunghezza media della vita; incidenza di malattie ed invalidità; età media del matrimonio; numero di figli per famiglia e distribuzione delle nascite nel ciclo vitale dei genitori; saggi di occupazione per sesso; varie disuguaglianze derivanti da regole in generale); parametri economici (andamento medio dei salari; interesse medio percepito sui risparmi e quello medio versato sui mutui; costo medio della vita e composizione della spesa; spese per l’istruzione dei figli; probabilità di disoccupazione e prospettive di carriera; risparmi accumulati).

10 Nel lungo periodo il rapporto consumo/reddito presenta una maggiore stabilità che nel breve periodo, dato che, per massimizzare la loro utilità, gli individui preferiscono una certa continuità nei loro consumi, senza consistenti variazioni. Il reddito, poi, presenta un andamento sovente irregolare (guadagni straordinari, vincite al gioco, improvvise eredità, perdite impreviste, periodi di disoccupazione). Un’altra teoria microeconomica di lungo periodo, e complementare a quella del ciclo vitale, è detta teoria del reddito permanente, inizialmente formulata da M. Friedman e caratterizzata dai seguenti elementi: il consumo non viene deciso i funzione del reddito attuale, ma del reddito atteso; l’individuo dovrà decidere quale sarà il livello di reddito permanente e quali saranno le sue entrate di natura transitoria, individuando così il reddito permanente atteso in base al quale prendere le proprie decisioni (eliminando le componenti di natura transitoria).

11 J. Duesenberry (1952) formula un’altra teoria definita come ipotesi di reddito relativo che, rafforzando quanto sostenuto nelle teorie precedenti, sottolinea che il consumo corrente non dipende unicamente dal reddito presente e futuro, ma anche dal consumo passato (abitudini di consumo). Negli anni Trenta del secolo scorso R. Kahn e J. M. Keynes svilupparono la teoria del moltiplicatore, strettamente collegata con le teorie del consumo e del risparmio. Il moltiplicatore permette di calcolare l’effetto globale di un aumento o di una diminuzione della spesa pubblica quando lo Stato vuole applicare una politica di pieno impiego e di riassorbimento della disoccupazione o del fenomeno inflazionistico nel caso di surriscaldamento congiunturale.

12 In termini tecnici, il moltiplicatore (M) è l’inverso del rapporto tra la variazione iniziale della spesa e la variazione finale del reddito nazionale ed è pari a: M = 1 / (1 – PMgC) = 1 / PMgR dove PMgC e PMgR sono rispettivamente la propensione marginale al consumo ed al risparmio ( con PMgC + PMgR = 1). L’azione del moltiplicatore non vale unicamente per la spesa pubblica, di consumo o di investimento. Ogni variazione della spesa, se di natura esogena, cioè esterna al flusso di reddito già in atto, provoca delle ripercussioni a catena e genera nuovi redditi.

13 Ricordiamo le seguenti considerazioni:
l’impatto del moltiplicatore dipende dalla propensione marginale al consumo; il risparmio ha un effetto negativo sul moltiplicatore, in quanto sottrae potere d’acquisto al flusso generato dalla spesa iniziale; l’effetto moltiplicativo di un aumento straordinario della spesa pubblica, al fine di rilanciare l’economia, è osservabile nei suoi effetti positivi solo nel caso in cui ci si trovi in una situazione di sottoimpiego, altrimenti si riscontreranno fenomeni di surriscaldamento ed inflazione; l’imposizione fiscale, diretta ed indiretta, e l’acquisto di beni importati rappresentano una fuga o perdita per il meccanismo del moltiplicatore, come per il risparmio; il valore del moltiplicatore non può essere inferiore all’unità (è uguale a 1 nel caso in cui la PMgC = 0); nel caso in cui la PMgC = 1 esso tenderà all’infinito); il moltiplicatore può essere calcolato per qualsiasi tipo di shock o spesa esogena, sia essa di consumo, di investimento privato o pubblico o di reddito affluito dall’estero attraverso esportazioni o gli afflussi di capitale; l’impatto più diretto appare quello provocato da un investimento promosso dall’ente pubblico.

14 Chiaramente una maggiore velocità di circolazione della moneta contribuisce ad accelerare il processo moltiplicativo di una spesa esogena, in quanto tende a diminuire il tempo intercorrente tra fase iniziale e fase finale. È da notare che se lo Stato aumenta in modo straordinario la spesa per rilanciare l’occupazione, riproponendosi però di recuperarla nella sua totalità più tardi attraverso maggiore imposizione fiscale, l’effetto moltiplicativo sarà uguale a 1, cioè uguale alla spesa inizialmente iniettata o immessa nel sistema economico.

15 4.2 GLI OBIETTIVI DELL’IMPRESA MODERNA.
Un’impresa è un’organizzazione di tipo economico che svolge un’attività di produzione di beni e servizi destinati alla vendita; essa gestisce ed amministra i fattori di produzione all’interno della sua organizzazione e controlla, attraverso la loro proprietà o mediante finanziatori esterni, le risorse finanziarie necessarie per portare a termine la produzione. Essa può sopravvivere nel tempo solo se è in grado di aumentare, o per lo meno mantenere, quelle risorse che sono necessarie alla sua attività.

16 Le attività di un’impresa sono organizzate secondo gli interessi di coloro che la controllano. Gli obiettivi sono influenzati dai seguenti elementi: la caratteristica della proprietà; il tipo di mercato sul quale si opera; lo statuto dell’impresa; l’orizzonte temporale nel quale l’imprenditore intende agire; i rapporti di forza all’interno dell’azienda fra gruppi portatori di differenti interessi.

17 È chiaro che bisogna, quindi, ammettere l’esistenza di una pluralità di obiettivi:
le imprese in sé e per sé non hanno obiettivi, i quali invece caratterizzano le persone o i soggetti in essa coinvolti; le aziende medio-grandi sono diverse dalla classica impresa familiare riguardo la dimensione, l’organizzazione, le quote di mercato ed i rapporti di natura istituzionale; esiste un notevole grado di incertezza nell’attività d’impresa.

18 All’interno di un’organizzazione in cui sono presenti gruppi d’interesse diversi è importante definire le modalità di assunzione del rischio d’impresa: secondo l’approccio tradizionale il rischio viene assunto dai proprietari dell’azienda e non dai managers, i quali sono inquadrati a livello operativo ed orientati alla massimizzazione del profitto ed a minimizzare il rischio; secondo un approccio più moderno, se non dovesse esserci una netta separazione di competenze, i managers dovranno incorporare nelle decisioni un elemento personale di rischio.

19 Il profitto (super-profitto o extra-profitto) di un’impresa, almeno nel casi in cui il capitale sociale rimanga invariato, è semplicemente uguale alla differenza tra ricavi e costi totali, relativamente ad un arco di tempo ben determinato. Questa ipotesi è posta allo scopo di determinare il livello di produzione e/o di prezzo che massimizza il super-profitto in base alle funzioni di costo (lato dell’offerta) e di ricavo (lato della domanda) dell’impresa.

20 Questa convinzione circa la massimizzazione del profitto si basa sulle seguenti considerazioni:
per isolare ed identificare precisamente ed analiticamente (quantitativamente) la variabile profitti, che deve essere massimizzata, bisogna conoscere il valore di costi e ricavi totali per livelli di produzione che vanno da zero a quantità molto elevate, dato che la conoscenza di tali variabili per intervalli troppo ristretti non può dare sufficienti garanzie; è riscontrabile un concetto d’impresa di carattere olistico, in cui l’imprenditore è un’unica unità decisionale (imprenditore individualista) e la sua definizione è di stampo classico (imprenditore-padrone-dirigente); l’informazione è certa e completa; vi è l’ipotesi di comportamento razionale o completa razionalità; la funzione d’utilità di coloro che governano l’impresa è definita unicamente come correlazione con il profitto, unica variabile endogena.

21 Le ragioni del successo di questa teoria possono essere così riassunte:
notevole semplificazione dell’analisi industriale; rapida diffusione del calcolo differenziale in concomitanza con tale teoria; stretto rapporto con la teoria marginalista. Questa ipotesi, comunque, si è dimostrata scarsamente attendibile a livello di previsione economica (F. Machlup), cioè nello spiegare i movimenti delle variabili aziendali microeconomiche. Innanzitutto, la teoria della massimizzazione del profitto è scarsamente rilevante, secondo D. Hay e D. Morris, in quanto il saggio d’interesse normale sul capitale è già incluso nei costi aziendali, ed inoltre aveva l’appoggio di M. Friedman solamente perché non erano ancora apparse teorie alternative, che nulla tolgono all’ovvietà, ma non all’unicità, dell’obiettivo profitto.

22 La teoria della massimizzazione delle vendite o dei ricavi totali di W
La teoria della massimizzazione delle vendite o dei ricavi totali di W. Baumol, alternativa a quella della massimizzazione del profitto, è la prima teoria manageriale dell’impresa che consideriamo; l’impresa è intesa manageriale nel senso di insieme di agenti (amministratori, proprietari) con diversi obiettivi. Baumol considera due modelli distinti: un modello statico uniperiodale; un modello multiperiodale dinamico di crescita e di massimizzazione delle vendite.

23 Entrambi i modelli offrono due versioni, con o senza attività pubblica, ma è sufficiente esaminare gli elementi che giustificano la sua ipotesi di massimizzazione delle vendite: separazione della proprietà dell’azienda (azionisti) dall’effettiva conduzione o controllo (management), tipici dell’impresa moderna. Quale consulente di grandi imprese, Baumol aveva constatato che i direttori-managers sono maggiormente preoccupati dalla massimizzazione delle vendite che non dalla massimizzazione dei super-profitti; gli stipendi, compresi i fringe benefits (fuori busta) dei dirigenti con alte responsabilità, sono maggiormente correlati con il livello delle vendite che con il livello dei profitti;gli istituti di credito tendono a dare maggiore enfasi al volume delle vendite in occasione di richieste di finanziamento per investimenti o per rinnovare prestiti già concessi;nei mercati non perfettamente concorrenziali, la quota di mercato è molto importante perché è uno degli strumenti che permette di controllare e scoraggiare l’entrata di nuovi competitors, di limitare i concorrenti già presenti sul mercato in questione, di esercitare un maggiore controllo sulla determinazione del prezzo, sui fornitori di materie prime e sui canali distributivi;

24 la politica del personale viene condotta in modo più soddisfacente quando assistiamo ad un’espansione delle vendite;la politica di gestione aziendale è sovente collegata ad un processo di costante espansione delle vendite, in quanto, avendo bisogno di certezze, è preferibile presentare un’immagine basata su un costante e non troppo vistoso incremento delle vendite che non su un’altalenante andamento dei profitti. Inoltre, rilevanti vendite danno prestigio nel tempo ai direttori-dirigenti, mentre rilevanti profitti vanno a vantaggio degli azionisti-comproprietari; il desiderio di una regolare crescita dell’impresa, l’avversione al rischio ed il desiderio di avere una buona immagine pubblica spingono i direttori-dirigenti a dare priorità alle vendite piuttosto che ai super-profitti.

25 A questo punto diviene rilevante considerare il vincolo del saggio di profitto minimo:
il saggio di profitto minimo assicura nel lungo periodo una retribuzione costante del capitale azionario, disgiunta dall’apprezzamento o dal deprezzamento del capitale azionario stesso; un saggio di profitto minimo evita che l’impresa possa rivelarsi improduttiva (liquidazione) ed inoltre permette di mantenere un basso profilo, scoraggiando quindi i tentativi di scalata (takeover) dall’esterno; nel caso di monopoli, oligopoli o monopsonio è importante non dare nell’occhio con vistosi livelli di profitto per non attirare l’attenzione delle commissioni antitrust o similari; il profitto minimo concede maggiore autonomia alla direzione esecutiva dell’impresa, concedendo così di perseguire anche obiettivi alternativi dei quali potranno beneficiare anche gli azionisti nel lungo periodo.

26 È necessario precisare che l’obiettivo della massimizzazione delle vendite è da raggiungere nel medio-lungo periodo, e Baumol ipotizza che tutti i profitti eccedenti il livello di profitto minimo siano destinati ad altri obiettivi di medio-lungo periodo, come ad esempio il miglioramento del processo di ricerca e sviluppo e le campagne pubblicitarie per la conquista di nuovi mercati. In conclusione di tutto questo discorso, ci sembra doveroso comunque sottolineare il fatto che non esiste una serie di argomentazioni omogenee a proposito del duplice e distinto rapporto salari manager-profitti e salari manager-vendite (duplice natura degli emolumenti percepiti).

27 La teoria della massimizzazione delle vendite porta come diretta conseguenza la preoccupazione di battere sempre la concorrenza e di essere sempre efficienti, concetti vicini alla massimizzazione del saggio di crescita dimensionale dell’impresa, quasi a definirla un’istituzionalizzazione. Le teorie della crescita dell’impresa comportano, secondo D. Hay e D. Morris, i seguenti elementi: le decisioni manageriali più importanti non riguardano unicamente prezzi e quantità, ma anche nuove tecniche di produzione, nuovi investimenti con individuazione delle relative fonti di finanziamento, strategie di mercato/pubblicità/r&d di nuovi prodotti, nuovi rapporti con competitors, enti pubblici e mercato internazionale; circolarità dell’imprenditorialità:

28 Scelta della tecnologia e del livello di produzione
Livello dei profitti Struttura dei costi e dei prezzi Domanda e Offerta

29 si presuppone che l’azienda sia un’organizzazione capace d’influenzare parzialmente l’ambiente circostante, quindi non un operatore passivo, specie per i gusti dei consumatori, per la composizione della domanda, per la composizione della concorrenza presente e potenziale, per la struttura dei costi, della tecnologia e per lo sfruttamento dei brevetti; il fenomeno della crescita a lungo termine delle imprese è giustificato dalla presenza sul mercato di aziende multi-prodotto di grande dimensione e dalla concentrazione del potere nelle mani dei managers al crescere delle dimensioni competitive.

30 Nel 1963 R. Marris presentò un primo modello dell’impresa manageriale, al quale ne seguì un secondo molto interessante e che sarà utilizzato per esaminare la massimizzazione del saggio di crescita bilanciata dell’impresa: Max g = g(D) = G(C) Questa rappresenta la nostra funzione obiettivo dove g è il saggio di crescita bilanciata dell’impresa, g(D) è il saggio di crescita della domanda per i prodotti dell’impresa medesima e G(C) è il saggio di crescita dell’offerta (o di disponibilità o di dotazione) di capitale. Esistono due vincoli con i quali questo obiettivo deve fare i conti: l’esistenza di un gruppo manageriale con competenze generali; i managers, dal lato monetario, cercano di massimizzare la sicurezza del loro posto di lavoro. Comunque, massimizzando congiuntamente il saggio di crescita della domanda e del capitale, i managers perseguono un duplice obiettivo: massimizzare la loro utilità o sicurezza e l’utilità dei proprietari-azionisti.

31 Il modello manageriale presuppone una netta distinzione tra proprietà e controllo dell’impresa. La funzione d’utilità dei managers ha come oggetto gli stipendi, il potere, la posizione sociale e la sicurezza sul lavoro; gli azionisti-proprietari hanno una funzione d’utilità che comprende, oltre ai profitti, la dimensione del capitale e dell’output, l’immagine pubblica dell’impresa, l’etica degli affari e la quota di mercato controllata. Malgrado la differenza tra le due funzioni di utilità, Marris evidenzia una convergenza per quanto riguarda la dimensione dell’impresa, variabile collegata con indicatori quali il capitale, l’output, il ricavo lordo, la quota di mercato. Quindi è comprensibile l’affermazione secondo la quale la classe manageriale non ambisce a massimizzare la dimensione dell’impresa, bensì il suo saggio di espansione o di crescita.

32 È difficile, in equilibrio, distinguere tra saggio di crescita della domanda e saggio di crescita della dotazione di capitale perché sono uguali. Per questo motivo Marris introduce un vincolo determinato esogenamente al modello fissando un livello di saturazione in relazione alla sicurezza dell’impiego, al di sopra del quale l’utilità marginale di un incremento di sicurezza è nulla, mentre al di sotto è molto alta.

33 Dobbiamo ora esaminare il significato del termine crescita:
la crescita dell’offerta si intende come crescita della struttura produttiva dell’impresa ed è riferito al capitale fisico (fisso e stock), al capitale finanziario, agli sforzi promozionali, al know-how risultante dall’attività R&D; la crescita della domanda deve considerare la composizione della domanda, il prezzo e la possibilità di differenziazione della produzione.

34 Secondo Marris uno dei principali meccanismi di crescita economica riguarda la diversificazione della produzione e l’inserimento della medesima sul mercato. Il lancio di un nuovo prodotto deve essere seguito attentamente perché, a seguito di eventuali carenze di competitività o di efficiente promozione, si può assistere ad un accorciamento del ciclo di vita del prodotto medesimo, anche se è riscontrabile un aumento temporaneo delle vendite. Inoltre, il lancio di nuovi prodotti incontra il favore dei clienti e permette di aumentare le vendite, se si riesce a stabilizzare quanto conquistato in termini di quota di mercato; non appena si registra una flessione delle vendite, bisogna ulteriormente diversificare la produzione per beneficiare della competitività così dimostrata. Assumendo che g(D) sia il saggio d’espansione della domanda e che f(d) sia il saggio di diversificazione ottimale, è possibile scrivere: g(D) = f(d) dove D è la domanda e d il saggio di diversificazione.

35 La crescita dell’impresa deve essere accompagnata da una crescita degli investimenti, effettuabili mediante utilizzo di profitti non distribuiti, di nuovi prestiti (presso istituti di credito o prestiti obbligazionari) o di aumenti del capitale sociale. Nel caso in cui si ricorra al finanziamento interno (in una proporzione r per profitto totale P) possiamo definire: I = rP g(S) = I/K = rP/K = rPr dove I è l’investimento, g(S) è il saggio di crescita dell’offerta, r è la proporzione del profitto totale P, K è il capitale impiegato e Pr è il saggio di profitto del capitale. Quindi, in un contesto dinamico, l’investimento sarà funzione del profitto medio.

36 Anche nel caso di ricorso a finanziamenti esterni è possibile considerare la proporzionalità con i profitti totali dell’impresa ed è possibile esprimere i fondi esterni raccolti in proporzione ai profitti globali, dato che più alti sono i profitti e maggiore sarà la capacità dell’azienda di saper reperire finanziamenti sul mercato. Possiamo scrivere: g(S) = I/K = δ(P/K) = δPr dove δ (delta) indica il rapporto tra l’investimento nuovo e l’ammontare dei profitti generati dall’azienda. Un valore troppo alto di δ comporterebbe una forte spesa per pagare gli interessi sul capitale, limitando le prospettive di profitti nel medio-lungo periodo, diminuendo il valore delle azioni e rendendo scalabile l’impresa.

37 g(S) = δPr dove δ** ≤ δ ≤ δ*
Fisseremo, quindi, un limite massimo al rapporto indebitamento corrente/profitti correnti δ* al di sopra del quale l’incertezza è troppo grande ed il rischio notevole. Un valore troppo basso di δ comporterebbe la possibilità di crescita dell’impresa, data la mancanza di mezzi finanziari sufficienti. Possiamo perciò scrivere: g(S) = δPr dove δ** ≤ δ ≤ δ* dove δ** indica il valore minimo di δ per poter intraprendere un sentiero di crescita soddisfacente, tenendo conto dell’avversione al rischio di managers ed azionisti ed assicurando un saggio di espansione sufficiente.

38 Pr = P/K = (P/K) (Y/Y) = (P/Y) / (K/Y)
Il costo di diversificazione d viene così espresso d = f2 (1/Pr) dove Pr è così definito Pr = P/K = (P/K) (Y/Y) = (P/Y) / (K/Y) dove P/Y è la quota di profitti e K/Y è il rapporto capitale-prodotto (capital-output ratio). In base a queste considerazioni, la funzione del costo di diversificazione o di espansione diviene: d = f2 [(K/Y)/(P/Y)]. Questo significa che tale funzione dei costi è caratterizzata da un’influenza inversa delle due variabili, quota dei profitti (P/Y) e rapporto capitale-prodotto (K/Y) rispettivamente.

39 Non deve sorprendere, se non relativamente, questo fatto e la sua interpretazione deve essere fatta in base ad alcune considerazioni: il rapporto capitale-prodotto (K/Y) esprime il livello d’intensità del fattore capitale nel processo produttivo e questo valore, nella teoria marginalista, è di solito inversamente correlato con il saggio di profitto P/K; in generale, nelle teorie macroeconomiche (salvo in certi casi quelle marginaliste), non esiste sistematicamente un rapporto inverso tra intensità del capitale e rapporto P/Y. Per Marris esistono tre fattori in base ai quali la crescita dell’impresa può essere promossa attraverso un efficace processo di diversificazione: intensa campagna promozionale e particolari accordi di mercato; aumento delle spese R&D per incrementare la competitività sul mercato; diversificazione e/o diminuzione dei prezzi (non dumping!!).

40 Ora è possibile osservare il modello nella sua completezza:
g(D) = f2(d) [crescita domanda = f del saggio di diversificazione] g(S) = δ (P/K) d = f2[(K/Y)/(P/Y)] = f2(1/ Pr) g(S) = g(D) ricordando che Pr rappresenta il saggio di profitto P/K possiamo sostituire la relazione iii nella relazione i ottenendo g(D) = f3(1/Pr).

41 Questo significa che il saggio di crescita della domanda g(D) è inversamente correlato con il saggio di profitto r = P/K a seguito di questa concatenazione causale: una crescita sostenuta della domanda dovuta ad una diversificazione dell’offerta implica un margine di profitto più basso e dunque una riduzione del saggio di profitto; oppure essa implica un rapporto capitale-prodotto più alto, il che diminuisce il saggio di profitto (P/K).

42 Un certo livello di crescita lascia spazio a maggiore flessibilità, iniziativa ed esercizio dell’imprenditorialità (skills), permettendo il raggiungimento di un saggio di profitto positivo. Oltre tale livello di crescita, probabilmente sostenuta da una sempre maggiore diversificazione, il saggio di profitto P/K tende a diminuire, e per livelli elevati della crescita e della diversificazione tende ad annullarsi. Principalmente le quattro variabili che determinano il saggio di crescita/diversificazione di un’impresa sono le seguenti: gli obiettivi che sono perseguiti dai centri decisionali; i vincoli finanziari, che devono considerare eventuali rischi di scalate dall’esterno; i vincoli manageriali, connessi con il deterioramento dell’efficienza della categoria manageriale nel caso di espansione troppo rapida; i vincoli della domanda, in quanto un’improvvisa accelerazione della medesima riduce il margine di profitto (P/Y) e/o porta ad un incremento del rapporto capitale-prodotto.

43 Marris sostiene che esiste un trade-off tra crescita della domanda e redditività, quando da un modello statico di massimizzazione delle vendite si passa ad un modello dinamico, ed il tutto si basa sui seguenti presupposti logici: l’importanza della diversificazione della ricerca, della produzione e delle vendite nel processo di crescita; l’importanza della relazione tra prezzo e spesa promozionale attuale e crescita della domanda in futuro.

44 Ipotizzando che d sia il saggio di diversificazione della produzione e dell’offerta, B la sua proporzione di successo di questo ultimo e x il saggio di crescita dei prodotti attuali dell’impresa, il saggio di crescita globale dell’impresa nel lungo periodo (g) sarà: g = x + Bd ed assumendo che i parametri x e d siano costanti, ne consegue che una politica di diversificazione sostenuta (che porta ad una diminuzione del saggio di profitto) porterà ad un aumento del saggio di crescita dell’impresa. Inoltre, Marris sostiene anche che un saggio di crescita dei prodotti già esistenti (x) e la proporzione del successo (pubblicità, sentito dire, spirito di emulazione dei componenti di un particolare gruppo socio-economico, forma di dipendenza psicologica) potrebbero aumentare in seguito ad un incremento delle campagne promozionali o ad una riduzione dei prezzi.

45 Il ruolo dei clienti pionieri nel lancio di nuovi prodotti diviene essenziale per il saggio di crescita globale, il quale dipende da: qualità intrinseche del prodotto rispettose delle necessità dei consumatori, queste ultime condizionate da fattori socio-economici; grado di successo della pubblicità e della campagna promozionale in generale; prezzo di lancio sul mercato. Ogni tentativo volto ad aumentare i primi due elementi (qualità del prodotto e pubblicità) ed a ridurre il prezzo ha come conseguenza la riduzione del saggio di profitto. Infatti, secondo Marris, se i primi due elementi sono elevati ed il prezzo è basso, è relativamente meno importante trovare un maggior numero di clienti normali piuttosto che raggiungere una nuova clientela, collegata o meno alla presente, attraverso un processo di diversificazione della produzione.

46 Per concludere, Marris evidenzia l’importanza di un’estensione della clientela mediante una strategia ben precisa (diversificazione), consapevoli del fatto che un saggio di crescita dell’impresa più sostenuto comporta un saggio di profitto più contenuto: la relazione intertemporale tra livello attuale dei profitti e crescita futura della domanda è possibile solamente in un contesto di diversificazione della produzione e di espansione della clientela. Marris sottolinea, come affermato sopra, che un saggio di crescita sostenuto implica un saggio di crescita del management ancora più consistente; questo rendimento di scala decrescente del management è dovuto al coordinamento ed all’integrazione efficienti di nuove attività aziendali, dalle quali emergono nuove aree operative che necessitano di nuove funzioni, di nuove competenze, di nuove metodologie gestionali, che equivale a dire maggiori responsabilità manageriali.

47 Problemi analoghi sono riscontrabili per ciò che riguarda il settore R&D, il quale può limitare il saggio di crescita dell’impresa perché non può rispondere a sollecitazioni di breve periodo, ma necessita di tempi lunghi per il processo di preparazione. Egli ha parlato inoltre della massimizzazione del saggio di crescita del capitale societario (immobilizzazioni + scorte + attività finanziarie + disponibilità liquide), la quale può essere finanziata attraverso i profitti (interni) o l’emissione di nuovi titoli (metodo esterno), anche se questo ultimo è poco considerato dai managers per motivi di prestigio personale, di sicurezza ed indipendenza. La sicurezza finanziaria per i managers si ottiene ponendo un limite superiore al rapporto debiti/attività finanziarie ed un limite inferiore al rapporto disponibilità liquide/attivo immobilizzato per il lungo periodo. La determinazione dei profitti non distribuiti da reinvestire nell’impresa, principale fonte di finanziamento e la preferita dai managers, diventa fattore centrale nelle decisioni volte a promuovere la crescita nel lungo termine.

48 Anche se uno dei vantaggi del modello di Marris consiste nel proporre una soluzione che massimizza l’utilità o le aspettative dei proprietari e dei managers, questo potrebbe non essere sempre vero, cioè l’utilità o le aspettative non devono essere messe unicamente in relazione con la dimensione e con il saggio di crescita dell’impresa. La Koutsoyiannis, evidenziato questo, propone un altro spunto critico inerente la correlazione inversa o concorrenzialità tra crescita e profitti: nei modelli macroeconomici la crescita postula un rapporto positivo tra crescita e quota di profitti nel reddito nazionale; a livello di singola impresa, l’ambito di riferimento è fondamentalmente diverso ed il risultato di Marris è dovuto all’interazione tra obiettivi interni e vincoli esterni del mondo aziendale che non si ritrovano nei modelli macroeconomici.

49 È da sottolineare, poi, che la maggior parte dei movimenti di crescita sono da attribuire a fusioni e non tanto a semplici espansioni di quote di mercato di singole imprese; in aggiunta a ciò, nel caso di cartelli o di oligopoli in generale, le quote di mercato possono essere l’oggetto di speciali accordi (accordi di esclusiva per merchandising, particolari concessioni come franchising, ecc.).

50 Per questi motivi le debolezze delle teorie manageriali possono essere così riassunte:
le teorie manageriali non considerano i vari meccanismi di interdipendenza esistenti tra le aziende nei regimi monopolistici non collusivi; troppa rilevanza viene attribuita alla possibilità da parte delle imprese di creare nuovi bisogni presso i consumatori; i modelli manageriali non riescono a spiegare quali sono i meccanismi che stanno alla base della formazione del prezzo, in quanto l’obiettivo viene spostato sul livello produttivo o sul suo saggio d’espansione.

51 Per completare l’analisi che abbiamo intrapreso, facciamo riferimento a due importanti teorie dell’impresa: la teoria del mark-up e la teoria della tecnostruttura di J. K. Galbraith. La teoria del mark-up assume che una certa percentuale dei costi primari venga aggiunta ai costi con i due seguenti obiettivi: includere nel prezzo un dividendo soddisfacente per gli azionisti, magari pari al saggio medio o normale di profitto del sistema, e poi includere nel prezzo una componente di finanziamento per l’espansione continua dell’impresa. La politica del mark-up è abbastanza diffusa nei nostri sistemi economici; essa può essere definita come un metodo di calcolo del prezzo attraverso il quale un venditore aggiunge una percentuale fissa ai costi totali (fissi e variabili) di produzione (inclusi i costi promozionali, di distribuzione e di stoccaggio) per definire il prezzo di vendita.

52 Nel caso di pratiche restrittive, il margine di mark-up è spesso definito dall’impresa leader e le altre vi si adeguano. La politica di mark-up è maggiormente orientata verso una strategia di espansione non a scapito dei concorrenti, evitando una guerra sulle quantità; inoltre il mark-up può essere adottato anche in una situazione di non conoscenza della struttura dei costi. In generale la politica di mark-up comporta un livello di produzione più alto che nel casi di massimizzazione dei profitti ed un prezzo di mercato conseguentemente più basso, con una curva di domanda tradizionale. Comunque è necessario prendere consapevolezza che la politica di mark-up può essere un fattore importante e scatenante per quanto concerne le dinamiche inflazionistiche.

53 La teoria della tecnostruttura di Galbraith è basata sulla convinzione che le grosse imprese, soprattutto le multinazionali, hanno la possibilità di creare la loro domanda attraverso la pubblicità, la ricerca e lo sviluppo. Quanto detto finora ci porta a concludere che non è corretta la concezione dell’impresa come struttura passiva, condizionata unicamente dalla struttura dei costi e della domanda: essa ha potere politico ed ha accresciuto enormemente il suo potere economico.

54 4.3 L’ECONOMIA DELLA FAMIGLIA
Nei primi anni Sessanta, G. Baker elaborò il primo contributo di quella che è stata denominata Economia della famiglia, in cui il nucleo familiare veniva considerato nel suo insieme, con la sua curva di utilità di tipo neoclassico. Recentemente, i modelli che descrivono il comportamento familiare hanno tenuto in considerazione il fatto che ogni membro delle famiglia ha le sue preferenze e risorse, e che il processo decisionale della famiglia è un processo interattivo. Inoltre, si sono considerati il ruolo delle istituzioni e delle strutture di mercato, quali le leggi, il sistema fiscale ed i beni pubblici, nel processo decisionale familiare.

55 Le teorie e le evidenze empiriche relative all’economia della famiglia stanno diventando uno degli strumenti più importanti di politica economica da mettere in relazione con le imposte dirette ed indirette, la sicurezza sociale ed i programmi di trasferimento di reddito e di patrimonio. Negli ultimi due decenni del secolo scorso, la Household Economics ha dato enfasi alla famiglia come insieme di individui, con le problematiche di dinastie familiari, di matrimonio inerenti l’aggregazione delle preferenze: si parla di comportamenti interni alla famiglia (tasso di riproduzione o fertilità, divisione domestica del lavoro, trasferimenti di ricchezza in modo orizzontale o verticale, distribuzione della responsabilità del tempo libero), ai comportamenti di mercato (offerta di lavoro dei componenti della famiglia, consumi e loro composizione, risparmi e loro investimento, trasferimenti intergenerazionali della ricchezza), alla formazione e dissoluzione dell’unione familiare (nuzialità, divorzialità).

56 Si è passati ad un concetto di famiglia estesa, cioè ad un gruppo o rete di consanguinei più ampio della famiglia nucleare che, oltre a risiedere insieme, cooperano ed interagiscono strettamente. Quindi essa viene vista come una coalizione organizzata in tutte le sue attività, dal reperimento di risorse economiche e di fattori produttivi, alla produzione di beni e servizi ed al loro consumo. Il problema di possibili conflitti d’interesse fra i membri della stessa famiglia è dato per risolto in modo esogeno, o aggirato mediante l’assunzione dell’esistenza di un dittatore benevolo (Rotten Kid Theorem di G. Baker).

57 Nei modelli microeconomici più sofisticati il problema del conflitto è affrontato con gli strumenti propri della teoria dei giochi e l’assetto familiare viene descritto come un equilibrio di strategie (perfetto equilibrio di Nash nei sottogiochi, del tipo dilemma del prigioniero), nel rispetto della costituzione. I modelli di recente formulazione sono stati concepiti a generazioni sovrapposte postulando una qualche forma di altruismo intergenerazionale (come quella di Barro – 1974, specie se riferita al debito pubblico), anche se per la maggior parte dei contributi teorici si parla ancora della prevalenze dell’egoismo strategico (specie nelle successioni dinastiche).


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