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delle comunicazioni di massa

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Presentazione sul tema: "delle comunicazioni di massa"— Transcript della presentazione:

1 delle comunicazioni di massa
Sociologia delle comunicazioni di massa (4 CFU) Prof. Giovannella Greco Comunicazione Media e Educazione

2 2. Comunicazione e Media

3 Comunicazione … l’esistenza dell’uomo (sia quella esteriore che quella interiore) è una profondissima comunicazione. Essere significa comunicare. Michael Bachtin

4 La comunicazione è profondamente radicata nel nostro essere nel mondo: qualunque siano le forme e gli strumenti che utilizziamo per comunicare, essa non è un evento che avviene fuori di noi, ma un processo nel quale siamo profondamente implicati, in quanto «sistemi viventi» che, attraverso una molteplicità di linguaggi, viviamo in «accoppiamento strutturale» gli uni con gli altri e con l’ambiente che ci circonda (1). (1) Maturana H., (1993), Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina Editore, Milano.

5 Oggi, le nostre possibilità d’interagire con gli altri si sono enormemente dilatate, grazie alla tecnologia che sta trasformando il nostro ambiente e noi con esso. Ma, nonostante le trasformazioni che la comunicazione umana ha conosciuto, e presumibilmente conoscerà ancora, ciò che persiste nel tempo è il senso delle motivazioni profonde che hanno dato vita al dialogo e alla narrazione, le prime forme che l’essere umano ha costruito per rapportarsi ai propri simili e al mondo:

6 «si dialoga per organizzare insieme agli altri il proprio habitat; si racconta per conferire senso a eventi, situazioni, persone che altrimenti si disperderebbero in un universo dagli spazi e dai tempi indefiniti. La narrazione e il dialogo hanno ritmato da sempre l’esistenza umana e continuano a farlo attraverso i media vecchi e nuovi» (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), Le sfide della comunicazione, Laterza, Roma-Bari. p. XI.

7 Si può far risalire al dialogo la prima forma di comunicazione messa in atto dal genere umano: se la relazione tra individuo e ambiente si realizza in un processo continuo di «reciproche influenze», e se l’ambiente comprende anche tutti gli altri individui, l’origine della comunicazione umana non può che rintracciarsi nella forma comunicativa più idonea alla costruzione dell’ambiente sociale. In ciò trova fondamento l’ipotesi di un’antecedenza del dialogo nello sviluppo del linguaggio il quale sorge, infatti, dall’esigenza originaria di cooperare per sopravvivere.

8 Ne è testimonianza la contemporanea comparsa nella storia della civilizzazione umana di due tipi di artefatti, materiali e linguistici, che sono all’origine della nostra separazione dal mondo animale: «… quando l’homo faber comincia a fabbricare i primi utensili, egli avverte contemporaneamente la necessità di ‘comunicare’ ciò agli altri per avere la loro collaborazione e di ‘tramandare’ ai più giovani la tecnica acquisita affinché non vada perduta. (…) l’homo loquens è più o meno contemporaneo dell’homo faber» (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 42.

9 La comunicazione sottende sempre un dialogo, dunque la presenza di un altro (compreso l’altro che è dentro di noi), e la possibilità di una risposta alla quale Michael Bachtin attribuisce la funzione caratterizzante del linguaggio: parlare è sempre rivolgersi a qualcuno e, di conseguenza, andare incontro ad una risposta (1). (1) Bachtin M., (1988), L’autore e l’eroe, Einaudi,Torino.

10 La nostra esperienza di parlanti è pervasa dalla dialogicità, dal nostro essere implicati in una trama comunicativa, da sempre iniziata e mai interrotta, nella quale nessuno è mai il primo a parlare: «il nostro discorso, cioè tutte le nostre enunciazioni (comprese le opere creative), è pieno di parole altrui» (1). La nostra esperienza di parlanti trova dunque la sua ragione d’essere nel legame con gli altri, nel nostro essere immersi in una infinita «catena dialogica», dove ogni anello è legato all’altro, sia a livello sincronico (nella contemporaneità) sia a livello diacronico (nella doppia proiezione verso il passato e verso il futuro). (1) Bachtin M., (1988), op. cit., p. 278.

11 Secondo la tipologia proposta da Massimo Bonfantini (1):
Ciò premesso, il dialogo può assumere funzioni diverse, a seconda del contesto. Secondo la tipologia proposta da Massimo Bonfantini (1): Un primo tipo di dialogo è quello «funzionalizzato all’ottenimento», sulla cui base si è stabilito il primo contatto tra esseri umani, i quali hanno cominciato a dialogare per ottenere e darsi aiuto reciproco nel procacciamento delle risorse. (1) Bonfantini M.A., Martone A. (a cura di), (1991), Specchi del senso. Le semiotiche speciali, ESI, Napoli.

12 Un secondo tipo di dialogo è quello «fine a se stesso» o «disinteressato», la cui stessa gratuità testimonia «come esso sia un elemento fondamentale nella nostra esperienza di vita, dal momento che non possiamo non dialogare soprattutto perché abbiamo il piacere di farlo» (1). Oggi, questo «piacere delle parole che ci legano agli altri» è amplificato dai media la cui proliferazione conferma come e quanto la comunicazione sia «collegamento permanente col mondo» e, al tempo stesso, ambiente che dà forma all’esperienza soggettiva. (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 49.

13 Un terzo tipo di dialogo è quello “di riflessione” o «filosofico», che presenta tre varianti individuabili rispettivamente: nella «ri-scoperta» o «rivelazione», la cui funzione è quella di portare alla luce il già noto; nella «ricerca e costruzione di un’indicazione precisa», tipica della scienza che, sia pure all’interno di determinati paradigmi e discipline, attiva processi d’indagine volti alla scoperta di nuovi orizzonti di conoscenza; nella «esplorazione e problematizzazione», che trova la sua espressione più compiuta nella filosofia e, in particolar modo, nel dialogo platonico.

14 A questi tre tipi di dialogo Agata Piromallo Gambardella ne aggiunge un quarto, definibile come «esercizio dell’intendersi», la cui funzione consiste nella reciproca «conoscenza e comprensione dell’altro», e quindi anche di sé.

15 Nessuno di noi è un «centro autosufficiente», ma esiste e si definisce attraverso il dialogo, che è anche dialogo con se stessi e con i testi che il linguaggio ha creato e sedimentato nel corso dei secoli: è attraverso il dialogo che costruiamo il comune orizzonte di senso in cui siamo immersi e nel quale acquistano significato le nostre azioni; è sul dialogo che si fonda la conoscenza, intesa nella duplice accezione del «comprendere» e del «comprenderci».

16 A tale proposito, Piromallo Gambardella sostiene che la conoscenza può edificarsi solo in una dimensione relazionale, che preesiste a noi e «si perpetua in quelli che vengono dopo di noi – come è stato per noi rispetto al passato – in quanto, anche dopo l’estinzione della vita di ciascuno, di un gruppo, di una cultura, tutto ciò che è stato continua a circolare come tacita comunicazione che in genere chiamiamo ricordo, eredità spirituale, tradizione e che continua ad alimentare l’infinito albero della vita e del sapere» (2). (2) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., pp

17 Se la dimensione dialogica ci ha consentito all’inizio di sopravvivere, quella narrativa ci è servita – e ci serve – per vivere, perché è attraverso questa che si compie la ricerca di senso del nostro essere nel mondo, ovvero la nostra esperienza fondamentale della conoscenza: la narrazione è stata, infatti, la prima forma mediante la quale l’essere umano ha cominciato a cercare e trovare una risposta alle sue inquietanti domande di senso sulla propria esistenza nel mondo.

18 Possiamo collegare l’origine del narrare e del narrarsi all’irruzione dell’immaginario nella storia della civilizzazione umana. Come ci ricorda Edgar Morin (1), la nascita dell’homo sapiens è contemporanea al rito della sepoltura e alla comparsa dei primi segni pittorici nelle caverne, che proiettano l’essere umano in un’altra dimensione (immaginaria) nella quale, per la prima volta, egli può sfuggire all’angoscia della morte e dare vita alla rappresentazione simbolica della realtà. Il racconto nasce pertanto da una sorta di «spaccatura antropologica» segnata dall’avvento dell’immaginario e, con esso, della possibilità di raccontare e raccontarsi. (1) Morin E., (1974), Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano.

19 (1) Bruner J., (1993), La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari.
Ciò trova conferma anche nella tesi di Jerome Bruner (1) circa la presenza di due tipi di pensiero nello sviluppo del processo cognitivo umano: quello logico-scentifico e quello narrativo. È attraverso quest’ultimo che gli esseri umani cominciano «a venir fuori dal magma indistinto del puro istinto di sopravvivenza», a prendere coscienza della concatenazione temporale degli eventi e a trovare nelle storie collettive il senso del loro agire e del loro essere nel mondo: raccontando e raccontandosi, essi «definiscono la gamma dei personaggi canonici, delle situazioni in cui operano, nonché delle azioni consentite e comprensibili, e perciò… una mappa di ruoli e di mondi possibili in conformità ai quali azione, pensiero e definizione di sé sono consentiti (o desiderabili)». (1) Bruner J., (1993), La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari.

20 La fondamentale dialogicità che pervade la nostra esperienza di vita emerge anche nella narrazione la quale non è una semplice descrizione di eventi, pensieri, sentimenti, ma il luogo d’incontro nel quale «il tema si fa sentire attraverso molte e diverse voci» (1): nell’intreccio dei discorsi che svelano le persone l’una all’altra la narrazione, intesa come messa in scena di più voci, si configura come «luogo privilegiato in cui una coscienza si proietta verso l’esterno e s’incontra con l’altra e solo qui trova la sua ragione di esistere» (2). (1) Bachtin M., (1988), op. cit., p. 192. (2) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 60.

21 Tale concezione rinvia ad una idea di comunicazione, secondo la quale attraverso «la parola liberamente scambiata» la nostra coscienza può aprirsi alla coscienza degli altri e noi possiamo reciprocamente riconoscerci come persone. Questa idea richiama quella di comunità, intesa come luogo ideale in cui la parola riuscirebbe a realizzare pienamente la sua «vocazione comunicativa», che è quella «di essere udita e di avere una risposta» (1), come spazio d’interrelazione dove l’incontro delle diverse voci «spezza la chiusura dei monologismi e permette lo svolgimento di quel “dialogo incompibile” che è la vita umana» (2). (1) Bachtin M., (1988), op. cit., p. 333. (2) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 60.

22 L’importanza cruciale della dimensione dialogica anche all’interno dell’esperienza narrativa conferma la continuità tra dialogo e narrazione come forme primigenie di comunicazione. Ma perché narriamo? «Noi raccontiamo delle storie perché in ultima analisi le vite umane hanno bisogno e meritano di essere raccontate» (1). (1) Ricoeur P., (1986), Tempo e racconto, vol. I, Jaca Book, Milano, p. 123.

23 Questo bisogno, consustanziale al nostro essere nel mondo, ha origini ancestrali e permane nel tempo dove si esprime attraverso forme che, pur variando da un’epoca all’altra, attestano «come la funzione narrativa possa subire una metamorfosi ma non morire» (2). Nella lunga e articolata riflessione di Paul Ricoeur sul rapporto tra tempo e racconto, emerge con chiarezza il duplice aspetto di storia e finzione, proprio della narrazione: (2) Ricoeur P., (1987), Tempo e racconto, vol. II, La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book, Milano, p. 54.

24 nel «passaggio dalla configurazione temporale interna al racconto alla capacità di quest’ultimo di rifigurare nell’atto di lettura l’esperienza individuale di ciascuno» (1), storia e finzione si saldano insieme. In questo senso, il racconto si configura come un «sapere incarnato» (2) che coinvolge l’individuo e la comunità in un reciproco riconoscimento. (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 70. (2) Cavarero A., (1997), Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano.

25 Media … le tecnologie non intervengono dall’esterno a determinare le modalità con cui comunichiamo, ma interagiscono simbioticamente con il nostro ambiente e quindi con noi… lungo una linea evolutiva di cui non possiamo conoscere gli esiti, ma di cui sicuramente conosciamo le premesse... Piromallo Gambardella

26 La tecnologia è una produzione umana che, in quanto tale, fa parte dell’ambiente nel quale viviamo e al quale siamo strutturalmente legati. Perciò, anche se lo sviluppo tecnologico ha progressivamente trasformato il nostro ambiente di vita, noi stessi e le nostre pratiche comunicative, i media non determinano dall’esterno i modi in cui comunichiamo ma costituiscono solo una modalità diversa di comunicare con i nostri simili, con noi stessi e con il mondo, all’interno dello spazio culturale che essi tendono, sempre più, a dilatare.

27 (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 5.
Non vi è dubbio, tuttavia, che lo spostamento di prospettiva indotto dall’utilizzo di strumenti comunicativi diversi da quelli tradizionali (il gesto e la parola), oltre a porre nuove questioni relative al senso dell’azione comunicativa, e più in generale al nostro essere nel mondo, contribuisce anche ad alimentare una sterile contrapposizione tra comunicazione e informazione che «non avrebbe motivo di sussistere, non perché i due termini siano sinonimi» (1), ma perché il concetto d’informazione, metodologicamente utile per distinguere il livello digitale-informazionale da quello analogico-comunicazionale, è incluso in quello di comunicazione. (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 5.

28 La relazione analogico-digitale costituisce il fondamento teorico del paradigma sistemico-comunicazionista (1), la cui produttività innovativa consiste nella possibilità di applicare la teoria di sistemi allo studio della comunicazione. Secondo tale approccio, ogni sistema scambia al suo interno e con il suo ambiente flussi di comunicazione mediante due differenti modalità: quella analogica e quella digitale. I due termini risalgono agli anni Cinquanta del secolo scorso con riferimento a due tipi di calcolatore che funzionano in modo differente l’uno dall’altro (2): (1) Wilden A., (1978), Comunicazione, «Enciclopedia», vol. 3, Einaudi, Torino. (2) Fileni F., (1984), Analogico e digitale. La cultura e la comunicazione, Gangemi, Roma.

29 la modalità analogica è tipica di uno strumento che opera su processi e quantità reali continue e che, nella misura in cui intrattiene un rapporto con la realtà rappresentata, può essere considerato relativamente concreto, e dunque più appropriato per tutto ciò che investe il campo della simulazione; la modalità digitale è tipica, invece, di uno strumento che opera per scale discontinue sulla base di elementi discreti e che, intrattenendo un rapporto puramente arbitrario con la realtà rappresentata, può essere considerato astratto, anche se, grazie alle delimitazioni fornite dagli elementi discreti che possono essere variamente selezionati e combinati tra loro, esso ha una precisione pressoché infinita che lo rende più adatto al calcolo.

30 Lo sviluppo dell’informatica ed il successo dei calcolatori digitali hanno contributo a caricare di significati pervasivi quest’ultima modalità di comunicazione, che si è trovata ad assumere, così, un valore (pragmatico e conoscitivo) superiore a quello della modalità analogica cui, invece, non sembra più essere riconosciuta alcuna generatività euristica: l’uso e l’abuso del termine “digitale” ha fatto quasi disperdere il senso della sua provenienza e del suo completamento, l’“analogico”, il quale, pur rimanendo fondamentale in numerosi settori operativi, sembra non avere più la capacità di orientare il pensiero e l’azione.

31 Non è qui in discussione l’utilità del modello digitale in alcuni ambiti specifici di sua competenza e applicabilità (informatica, cibernetica, robotica, telematica), ma esso non può essere assunto come modello ideale di rappresentazione di tutta la realtà, se non altro perché molte delle irriducibili contrapposizioni che esso propone (per esempio, quelle tra ambiente e sistema, corpo e mente, emozione e pensiero, gesto e parola, natura e cultura, arte e scienza, società e individuo, maschile e femminile) «non sono veramente opposizioni tra termini dello stesso tipo logico, ma contraddizioni gerarchiche» (1). (1) Coe R.M., Wilden A., (1978), Errore, «Enciclopedia», vol. 5, Einaudi, Torino, p. 696.

32 Infatti, se l’ambiente (da quello inorganico ed organico a quello ecologico e sociale) è organizzato secondo ordini di complessità crescente, il discreto non può che essere generato a partire da un continuum originario; pertanto, l’analogico è di un tipo logico superiore al digitale la cui potenziale esistenza è compresa nel primo e da questo generata e vincolata. A tale proposito, Fritjof Capra afferma: «Per quanto ci addentriamo nella materia, la natura non ci rileva la presenza di nessun ‘mattone fondamentale’ isolato, ma ci appare piuttosto come una complessa rete di relazioni tra le varie parti del tutto» (1). (1) Capra F., (1984), Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano, p. 81.

33 Riprendendo il tema del rapporto tra comunicazione e informazione alla luce delle considerazioni fin qui avanzate, possiamo osservare come i processi di digitalizzazione in atto nella società abbiano favorito una graduale sovrapposizione o sostituzione del secondo termine al primo. In altre parole, sotto l’influenza delle nuove acquisizioni tecnologiche in materia di trasmissibilità dell’informazione, i due termini tendono a confondersi, e il secondo s’impone sul primo.

34 Piromallo Gambardella ha affrontato la problematica del rapporto tra informazione e comunicazione, attraverso un’analisi degli ambiti in cui oggi si sviluppano i processi comunicativi:

35 Il primo è quello della comunicazione interpersonale.
Il fatto che la comunicazione è sempre «atto interpersonale» sembrerebbe scongiurare il rischio di un suo slittamento verso il modello digitale-informazionale, dominante invece negli altri due ambiti (mass media e new media). Tuttavia, anche in quest’ultimi, il dialogo di cui è intessuta la comunicazione rappresenta il riferimento ideale, sia pure in una diversa prospettiva determinata dalla presenza della tecnologia. Inoltre, il dialogo che intercorre tra il lettore e il testo (sia esso orale, scritto, musicale, teatrale, pubblicitario, radiofonico, cinematografico, televisivo, ipermediale, ecc.) taglia trasversalmente tutti e tre i domini, anche se in maniera diversa.

36 Il secondo è quello della comunicazione di massa.
In questo ambito l’informazione sembrerebbe prevalere sulla comunicazione, e in particolare sul suo aspetto dialogico-conversazionale, dal momento che il ricevente non può intervenire attivamente nella costruzione e diffusione dei messaggi. Tuttavia, per molti aspetti, il modello tradizionale della teoria dell’informazione non è più applicabile alla comunicazione veicolata dai mass media, dal momento che, così come l’emittente deve tener conto del destinatario dal quale vuole farsi capire, analogamente quest’ultimo deve farsi carico di comprendere. Entrambi si riconoscono, insomma, in una «pratica testuale comune» che costituisce la trama stessa del processo comunicativo. Inoltre, nel tentativo di coinvolgere i loro pubblici, i mass media mettono costantemente in scena situazioni di dialogo.

37 Il terzo è quello della comunicazione multimediale e interattiva.
Anche qui, sembrerebbe predominare l’aspetto digitale-informazionale, soprattutto se si tiene conto del linguaggio e del software impiegati dalla macchina, grazie ai quali è possibile controllare e manipolare la realtà di cui si vuole fare esperienza, trasferendo le operazioni di costruzione della realtà dall’interno all’esterno, mediante la proiezione sullo schermo-video (1). Tuttavia questo diverso modo di comunicare e conoscere, determinato dall’interfaccia uomo-computer, non è privo di quella componente emotiva e sensoriale, presente negli altri due domini. (1) de Kerckhove D., (1993), Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna.

38 (1) Maragliano M., (1998) Tre ipertesti, Laterza, Roma-Bari, p. 71.
E’ sufficiente osservare un bambino mentre videogioca, per rendersi conto che, attraverso l’utilizzo di una tecnologia multimediale e interattiva, egli sta comunicando «tutto se stesso e con tutto se stesso» (1), e lo fa mettendo in gioco «strategie fluide di pensiero concreto, cruciali anche dentro gli orizzonti di saperi complessi e sofisticati» (2). Pertanto il riferimento all’informazione, in questo ambito, dovrebbe essere riportato al suo significato originario di mettere in forma il quale, oltre che ad un’attività di analisi e di sintesi, rimanda «a una prospettiva di “campo dinamico di possibilità” dove la ricerca della forma migliore, dal momento che si sottrae al ‘disordine’ dell’esperienza immediata, può riuscire a esprimere meglio la spinta innovatrice della fantasia» (3). (1) Maragliano M., (1998) Tre ipertesti, Laterza, Roma-Bari, p. 71. (2) Ivi, p. 72. (3) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 9.

39 Tutto ciò premesso, quali trasformazioni hanno subito, con l’avvento dei media, le forme di comunicazione che, da sempre, hanno ritmato l’esistenza umana? Nell’inedito scenario della società mediale, come si trasformano la narrazione e il dialogo?

40 1. La narrazione nei mass media
Con l’avvento dei media, la dimensione narrativa della comunicazione non è venuta meno, né ha subito una battuta d’arresto; al contrario, si assiste ad un suo continuo incremento, persino in relazione a quei prodotti culturali legati alla sfera dell’informazione che «sono diventati modi di infinito intrattenimento e quindi di narrazione… nel senso che sempre maggiore è lo spazio dato alle tante storie di vite celebri e di vite anonime, consumate perché vogliamo ‘sapere’ degli altri e ‘far sapere’ di noi stessi» (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 81.

41 In questo senso, se la postmodernità segna la fine dei grandi racconti (1), segna anche l’avvento di tante piccole storie che oggi ascoltiamo e raccontiamo attraverso i media. La dimensione narrativa caratterizza prevalentemente i media di massa e, in particolare, il cinema e la televisione. (1) Lyotard J.-F., (1981), La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano.

42 Nel cinema la vocazione simulativa della narrazione trova la sua massima espressione attraverso un duplice livello di finzione: «alla finzione della storia narrata si aggiunge quella derivante dall’uso di una tecnologia… che permette di realizzare il massimo della verosimiglianza con il massimo dell’artificio» (1). Il cinema è il luogo per eccellenza in cui si realizza l’intreccio tra due dinamiche che, nella storia del pensiero occidentale, presentano un carattere fortemente oppositivo: quella del visibile-invisibile e quella del vero-falso. (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 89.

43 Un esempio emblematico è rappresentato dal mito della caverna di Platone, secondo cui vivere immersi nella realtà sensibile impedisce una vera visione del mondo, la quale è possibile solo grazie alla contemplazione, giacché la percezione (visibile) del mondo è illusoria, dunque falsa, e la verità risiede nella realtà (invisibile) del pensiero. Sottolineando la profonda implicazione tra visibile e invisibile, vero e falso, e rivalutando la percezione come base della nostra esperienza del mondo, M. Merleau-Ponty ha ribaltato il pensiero di Platone, affermando che il mondo non è separato dalla percezione che ne abbiamo.

44 Nell’esperienza della visione, la distinzione tra visibile e invisibile viene a cadere e, con essa, anche quella tra vero e falso: «l’occhio può spaziare liberamente dappertutto e con esso l’immaginazione che spinge la nostra mente oltre i confini del reale» (1). Questa esperienza è ulteriormente potenziata dal cinema, che è «arte del visibile» proprio perché tende a realizzare la massima visualizzazione di ciò che non è visibile: «le tecniche cinematografiche tendono a visualizzare l’invisibile proprio attraverso il superamento implicito della opposizione vero/falso, nel senso che esse realizzano il ‘falso’, presentandolo come ‘vero’». (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 96. (2) Ibidem.

45 In altre parole: nel cinema «al massimo di visualizzazione corrisponde il massimo di ‘falsificazione’» (1). In questo senso, i media non fanno altro che portare alla luce, enfatizzandola, la stessa impossibilità umana di costruire attraverso la percezione una rappresentazione ‘vera’ e ‘oggettiva’ del mondo, il quale non è separato dalla presa che noi abbiamo su di esso, e qualunque immagine ne costruiamo, per falsa che sia, farà sempre parte di una delle sue tante possibilità di esistenza. Pertanto accusare i media di fornire una ‘falsa’ visione della realtà è un’operazione inutile, oltre che epistemologicamente scorretta (2). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 98. (2) Ibidem.

46 Questo processo di graduale visualizzazione (e dunque falsificazione) è stato ulteriormente incrementato dalle immagini di sintesi che, piuttosto che riprodurre la realtà, producono una loro realtà. Nella realtà virtuale di queste immagini alcuni studiosi intravedono una frattura epistemologica e l’avvento di un nuovo modo di raffigurare il mondo, che prescinde da qualsiasi referente esterno; altri, invece, la considerano come uno stadio più evoluto di quel processo di falsificazione, già iscritto nel cinema, che ne aumenta il livello di visibilità. La realtà virtuale ha, infatti, la capacità di rendere visibile l’invisibile, in almeno tre modi diversi:

47 visualizzare ciò che l’occhio umano non può percepire (come dimostrano le sue applicazioni nel campo della ricerca scientifica); raffigurare nuovi mondi possibili, non ancora vissuti e sperimentati (come nel caso della fantascienza); aumentare il livello di visibilità di quegli aspetti propri di una dimensione non cronologica del tempo quali, ad esempio, l’affezione, l’onirico, l’irrazionale (mediante l’utilizzo degli effetti speciali) (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 99.

48 A differenza del cinema, per lo più considerato come il «regno della fiction», la televisione si pone come «specchio della realtà». Tuttavia, nella misura in cui ogni percezione (anche falsa) appartiene al mondo, tanto quanto nessuna immagine coincide con la realtà, risulta del tutto irrilevante la distinzione tra racconto e storia, fiction e documentario, e dunque tra cinema e televisione. In ogni caso, la dimensione narrativa della televisione, rafforzata dalla sua tendenza alla spettacolarizzazione, più che in relazione alla fiction, si esprime nella diretta, ambito televisivo per eccellenza, nel quale la dinamica visibile-invisibile e vero-falso assume un ruolo altrettanto rilevante, non tanto nella messa in scena, quanto nel rapporto comunicativo tra la televisione e il suo pubblico.

49 Per la televisione rendere visibile significa soprattutto rendere pubblico (1), nel senso che la sua vocazione – soprattutto nel caso della diretta – è proprio quella di portare alla ribalta ciò che sta dietro le quinte, ovvero rendere pubblico il privato o, volendo utilizzare la metafora teatrale di Erving Goffman (2), portare sul palcoscenico il retroscena (3). Per molti versi, nella televisione avviene l’esatto contrario di ciò che accade nel cinema: (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p.102. (2) Goffman E., (1969), La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969). (3) Sta tutto qui il successo di una serie di programmi la cui finalità è proprio quella di dare massima visibilità ai retroscena individuali, nei loro aspetti più intimi e privati.

50 (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 103.
Se la visibilità cinematografica è data dal massimo dell’artificio, quella televisiva è prodotta dal massimo della naturalità. Se la narrazione cinematografica «visualizza il tempo nel suo divenire cronologico o nella sua contemporaneità di passato-presente-futuro» (1), quella televisiva lo visualizza «dilatandolo fino a farlo coincidere con il reale scorrere della vita, come nelle soaps, o presentificandolo nell’evento colto nella sua istantaneità, come nella diretta» (2). Se la dimensione narrativa del cinema consiste nell’enfatizzare la realtà, quella televisiva «ne prende atto e ne dà conferma attraverso la percezione simultanea di milioni di spettatori» (3). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 103. (2) Ibidem. (3) Ibidem.

51 Ponendosi come specchio della realtà, la televisione è ossessionata da una «esigenza di credibilità», riassumibile nelle «perversioni» dell’autentico, dell’oggettività e della neutralità, tutte e tre destinate a fallire in virtù di ciò che abbiamo già detto in merito alla natura delle immagini. Ma ciò che mina alla base l’aspirazione a essere vera della televisione è la sua pretesa di catturare l’attenzione e la fiducia del pubblico, riassumibile in altre ossessioni che consistono nell’interesse (per lo più suscitato attraverso l’interpellazione dello spettatore e la brevità delle argomentazioni), nell’emozione, nell’accessibilità e nella rivelazione (che spesso si serve di elementi di suspense).

52 La televisione diventa, così, luogo per eccellenza della «con-fusione tra vero e falso» e, di conseguenza: «… specchio, se non della realtà, del nostro tempo in cui al concetto di verità è andato sostituendosi quello di efficacia che non è più, come in passato, affidata solo alle parole, ma a un apparato tecnologico che la potenzia di continuo… La televisione è, allora, il luogo per eccellenza dove il sapere e il credere mescolano le loro carte…» (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 105.

53 2. Il dialogo nei new media
La dimensione dialogica della comunicazione è presente anche nei new media, sia pure in una forma del tutto diversa, definita interattività. L’interattività costituisce la novità più significativa introdotta dall’innovazione tecnologica. Si tratta di una nozione centrale per l’intero assetto della comunicazione mediata, in quanto applicabile a combinazioni di strumenti diversi, il cui assemblaggio (multimedialità) consente forme di dialogo del tutto inedite. L’interattività che contraddistingue i nuovi media è qualcosa di molto diverso dall’interazione comunicativa tra le persone nell’ambito della vita quotidiana.

54 Tra le sue caratteristiche principali si possono menzionare: la pluridimensionalità dello scorrimento delle informazioni, il ritmo della comunicazione quantificato come tempo reale, e il ruolo attivo dell’utente nel selezionare le informazioni richieste. Essa consiste nella «imitazione (simulazione) dell’interazione (umana) da parte di un sistema meccanico o elettronico che contempli come suo scopo principale o collaterale anche la funzione di comunicazione con un utente o fra più utenti» (1). (1) Bettetini G., (1993), “Tecnologia e comunicazione”, in Bettetini G., Colombo F., Le nuove tecnologie della comunicazione, Bompiani, Milano, p. 15.

55 Le forme d’interattività messe in atto dalla comunicazione mediata si prestano a diverse utilizzazioni. Una di queste è rappresentata dall’ipertesto che, essendo profondamente radicato nella cultura scritta, utilizza strategie non dissimili da quelle del testo tradizionale; anche se, rispetto a quest’ultimo, presenta una struttura aperta e reticolare. D’altro canto, «ogni testo è un ipertesto», anche quando è scritto in maniera monolitica e sequenziale, nella misura in cui l’autore lo costruisce all’interno di una rete di riferimenti culturali ai quali, implicitamente o esplicitamente, rimanda (1). (1) Carlini F., (1999), Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, Einaudi, Torino, p. 47.

56 La vocazione dialogica dell’ipertesto è presupposta nel fatto che questo «come ogni dialogo, esiste solo in funzione degli interlocutori e pertanto non viene ‘dato’ ma costruito via via» (1). Un altro esempio è fornito da internet. Nell’attività dialogica di cui è intessuta la rete, si possono individuare almeno due diversi tipi di dialogo, quello «funzionalizzato all’ottenimento» e quello «fine a se stesso», cui corrispondono due differenti modalità di navigazione: (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., pp

57 la prima, volta alla ricerca di determinate informazioni, non avviene in tempo reale ed è governata dalla logica che presiede la comunicazione mediata dal computer, anche se, a differenza di quest’ultima, realizza la sua finalità conoscitiva interagendo con altri nella rete; la seconda, libera e senza meta, avviene in tempo reale e presenta la caratteristica peculiare di svolgersi in una dimensione intermedia tra oralità e scrittura, la cui forma «corale» (1) non è vincolata da alcuna logica di mercato. (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 117.

58 Non vi è alcuna contrapposizione tra queste due differenti modalità, che nella comunicazione in rete si compenetrano e si alternano l’una all’altra, esattamente come avviene nella comunicazione interpersonale. Sotto questo aspetto: «Internet… mostra con la massima evidenza come oggi uomini, ambiente e tecnologia costituiscano un unicum inseparabile in cui i processi di comunicazione, diretti o mediati, sono inscindibilmente connessi nel movimento coevolutivo che vede… il livello mentale e quello tecnologico interagenti; quindi, come non è concepibile pensare l’uomo separato dal suo linguaggio, altrettanto inconcepibile è pensarlo separato dalla macchina attraverso cui comunica» (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 118.

59 Internet rafforza, pertanto, la tesi di una struttura che connette i diversi livelli dell’esperienza comunicativa, la cui coimplicazione è quanto mai palese nella sua struttura reticolare, la quale «riflette non solo la struttura della società ma anche quella della mente che, attraverso l’esteriorizzazione dei processi di apprendimento, diventa sempre più visibilmente interagente con l’attuale ambiente tecnologico che, a sua volta, introdurrà mutamenti graduali nelle stesse mappe cognitive dei soggetti» (1). (1) Piromallo Gambardella A., (2001), op. cit., p. 118.

60 Le sfide che Internet pone alla comunicazione umana dividono, nuovamente, gli studiosi in una sterile diatriba che questa volta, piuttosto che apocalittici e integrati, vede contrapporsi tecnopessimisti e tecnottimisti. le giovani generazioni, dal canto loro, mostrano un interesse crescente verso le nuove tecnologie della comunicazione che consentono loro di padroneggiare, con velocità e in piena autonomia, i propri percorsi cognitivi e comunicativi.


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