La presentazione è in caricamento. Aspetta per favore

La presentazione è in caricamento. Aspetta per favore

Una prospettiva cristiana

Presentazioni simili


Presentazione sul tema: "Una prospettiva cristiana"— Transcript della presentazione:

1 Una prospettiva cristiana
Il dramma del male Una prospettiva cristiana

2 Interscambiabilità fra sofferenza e male
Singolarità irriducibile e personale nel vivere il dolore Carattere globalizzante del dolore: anche se soffre un aspetto soffre tutta la persona Il dolore rivela la stoffa di chi lo prova

3 La distinzione fra sofferenza fisica e interiore
Situazioni di sofferenza indicati nella Scrittura La sofferenza come ciò che mette in scacco il desiderio dell’uomo di vivere Il male come obiezione all’esistenza di un Dio provvidente

4 Si Deus est unde malum? La testimonianza di Lucrezio:
«Dio o vuole cancellare il male e non può; o lo può e non lo vuole; o lo può e lo vuole. Se vuole soltanto e non può, è debole, cosa che non vale per Dio. Se può e non vuole è malevolo, cosa che ugualmente è estranea alla natura di Dio. Se non vuole e non può, è sia malevolo, sia debole, e con ciò non è Dio. Ma se vuole e può, l’unica condizione che si addica a Dio: allora da dove vengono i mali e perché non li sconfigge?»

5 Le parole de La peste di A. Camus:
«ma se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace» La protesta di Dostoevskij: il dolore innocente “Ascolta: posto che tutti si debba soffrire, per comperare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu, per favore? È assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch’essi, e perché, essi, debbano comperare quell’armonia con le sofferenze. La solidarietà nel peccato, fra gli uomini, io la comprendo, e comprendo quindi la solidarietà anche nelle sanzioni, ma non già la solidarietà, nel peccato, con i bambini”

6 Risposte circa la natura del male
Insostenibilità sul piano cristiano di un’interpretazione della realtà come male L’esempio di Leopardi: “il non vivere è sempre meglio del vivere”, l’essere come male (pessimismo ontologico) “siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se medesimi importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi” (Zibaldone, 4317)

7 Nella prospettiva biblica la realtà è buona in quanto creata da Dio:
“Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani, perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale” (Sap 1, 12-15)

8 Improponibilità di spiegazioni dualistiche:
Per dualismo qui s’intende l’affermazione di due principi trascendenti, in perpetua lotta tra di loro, a cui riferire l’origine del bene e del male La resa dinanzi alla misteriosità del male (reductio in mysterium): “l’incomprensibilità della sofferenza è un frammento dell’incomprensibilità di Dio” Finché si rimane nella storia, sul male è possibile solo tacere; sarà alla fine dei tempi che Dio stesso risponderà all’interrogativo della sofferenza L’immagine di Dio che ne emerge è quella di un despota che dagli uomini pretende cieca obbedienza e non ammette interrogativi critici

9 Il male come privazione del bene (privatio boni)
«L’uomo soffre a causa del male, che è una certa mancanza, limitazione o distorsione del bene. Si potrebbe dire che l’uomo soffre a motivo di un bene al quale egli non partecipa, dal quale viene, in un certo senso, tagliato fuori, o del quale egli stesso si è privato. Soffre in particolare quando “dovrebbe” aver parte – nell’ordine normale delle cose – a questo bene, e non l’ha. Così dunque nel concetto cristiano la realtà della sofferenza si spiega per mezzo del male, che è sempre, in qualche modo, in riferimento ad un bene» (Salvifici Doloris)

10 Due premesse (cf sant’Agostino)
1) La bontà di tutto ciò che esiste (originario è il bene non il male) 2) Il principio platonico della partecipazione, per cui la pienezza dell’essere è graduata ed esiste una gerarchia dell’essere

11 Le parole di Sant’Agostino
«Allora cos’altro è quello che viene chiamato male, se non privazione di bene? Per i corpi viventi, infatti, essere ammalati o feriti non è altro che perdere la salute. Del resto, quando si presta una cura, non ci si adopera perché quei mali esistenti, vale a dire malattie e ferite, si ritirino da una parte per sussistere da un’altra, ma perché scompaiano del tutto. E in effetti una ferita o una malattia sono in sé non certo una sostanza, ma il difetto di una sostanza carnale, mentre la carne è una sostanza in sé e senza dubbio un bene determinato, cui capitano quei mali, vale a dire privazioni di quel bene che è chiamato salute. Così, allo stesso modo tutti i difetti delle anime sono privazioni di beni naturali: risanarli non significa trasferirli altrove, poiché quelli che vi si trovavano non vi si troveranno più, dal momento che non si troveranno più in quel bene della salute»

12 San Tommaso d’Aquino: «il male in quanto è male non è qualcosa di reale nelle cose, ma è la privazione d’un certo bene particolare, che inerisce in un determinato bene particolare» «Bisognerebbe fare questo ragionamento: “Se c’è il male, Dio esiste”. Infatti il male non ci sarebbe, se non esistesse l’ordine del bene, la cui privazione costituisce il male. Ma codesto ordine non esisterebbe se non esistesse Dio» (Somma contro i gentili) Il male, pertanto, non esisterebbe di per sé ma sarebbe una sorta di “parassita del bene”, nel senso che può sussistere solo se c’è il bene di cui esso è privazione

13 Il male come pena-castigo per la colpa-peccato
Il male è la conseguenza necessaria a cui va incontro chi viola l’ordine morale e la giustizia di Dio il quale, volendo il bene, ricompensa chi fa il bene, rispettando la sua legge, e punisce chi invece trasgredisce la legge con il suo peccato Idea incarnata nella Scrittura dagli amici di Giobbe Il male può avere senso solo come pena per il peccato, dunque sul terreno della giustizia di Dio che ripaga il bene con il bene e il male con il male La punizione per il peccato si inserisce nel quadro di una creazione retta da un ordine morale trascendente la cui trasgressione non può non essere sanzionata

14 Giobbe contesta non la visione del male come punizione del peccato
Ma che il male possa sempre essere ricondotto alla punizione per una colpa Esiste dunque anche una sofferenza senza colpa: il dolore innocente Necessità di oltrepassare l’ordine della giustizia e illuminarlo con l’ordine dell’amore

15 La prospettiva cristiana sul male
Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»: la salvezza come liberazione dal male Salvezza come “non morire” e ricevere la vita/vita eterna

16 Il tema di Cristo come vita nel vangelo di Giovanni
Nel vangelo di Giovanni la parola “vita” ricorre 36 volte; essa come zōē è distinta da bios per indicare che la vita che Dio dona in Cristo ai credenti (zōē) è distinta dalla vita puramente naturale degli altri esseri (bios) l’idea di vita eterna significa non la vita al di là della morte la vita divina che nel presente viene donata agli uomini da Cristo, il quale è la vita La vita che l’uomo riceve in Cristo è la partecipazione alla stessa vita di Dio la vita divina donata al cristiano diventa dovere morale perché chiede di essere confermata nell’amore fraterno il dono e la promessa della vita è la risposta all’interrogativo dell’uomo sul senso della sua esistenza e della sua vera salvezza

17 Gesù dà la vita, ma il suo donare la vita non può prescindere dall’assumere in sé ciò che nell’uomo rappresenta la negazione della vita, ovvero la sofferenza Cristo per vincere il male deve vincere sia il peccato, mediante l’obbedienza al Padre fino alla morte e alla morte di croce, sia la morte, mediante la risurrezione È una vittoria che non è di là da venire, in quanto si è già compiuta nella storia, ma tuttavia non può abolire le sofferenze, le quali sono connesse con la nostra naturale finitezza Egli piuttosto getta una luce diversa sul dolore, la luce, appunto, della salvezza Il riscatto, tuttavia, non accade a parole ma mediante l’avvicinarsi costante al mondo dell’umana sofferenza, come si vede nella predilezione di Gesù verso coloro che erano nella sofferenza, e nell’indirizzare il vangelo delle beatitudini a coloro che erano provati da svariate sofferenze

18 Una testimonianza di Albert Camus
Riferendosi al Cristo Albert Camus scriveva che era venuto a risolvere i due problemi principali dell’uomo: il male e la morte Ora «la sua soluzione ha consistito nell’assumerli in sé. Anche il dio uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più assolutamente imputabili, poiché è straziato e muore. La notte del Golgota ha tanta importanza nella storia degli uomini soltanto perché in quelle tenebre la divinità, abbandonando ostensibilmente i suoi privilegi tradizionali, ha vissuto fino in fondo, disperazione compresa, l’angoscia della morte. Si spiega così il Lamma sabactani e il dubbio tremendo di Cristo in agonia. L’agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall’eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare»

19 Ciò che più conta è che Cristo non solo si è avvicinato ai sofferenti ma ha assunto questa sofferenza su di sé sotto forma di fatica, incomprensione, ostilità (dei nemici, dei parenti, degli amici), persecuzione e morte ingiusta cioè il dare la vita e sconfiggere la morte, avviene per mezzo dell’assunzione della sofferenza e della morte, un’assunzione consapevole e libera che conferisce valore salvifico al dono che Gesù fa di sé nell’obbedienza al disegno del Padre Cristo per redimere deve condividere, come uomo e come Dio, ciò che va redento

20 L’esperienza del Getsemani: “Padre mio, se è possibile passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” L’esperienza del Golgota: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” “l’angoscia dell’orto degli ulivi è un com-patire con i peccatori, tale che la perdita reale di Dio (poena damni) che li minaccia è stata assunta dall’amore di Dio fattosi uomo nella forma di un timor gehennalis: poiché i peccati del mondo vengono “caricati” su di lui, Gesù non distingue più se stesso o il proprio destino da quello dei peccatori – e questo tanto meno, come dice Bonaventura, quanto maggiore è l’amore – e sperimenta perciò l’angoscia e il terrore che essi avrebbero dovuto giustamente provare” (von Balthasar)

21 L’esperienza dell’abbandono: da parte di Dio e in Dio
«Si può dire che queste parole sull’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre “fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (Is 53,6) e sulla traccia di ciò che dirà San Paolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21). Insieme con questo orribile peso, misurando “l’intero” male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell’unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire spirando: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30)» (Salvifici doloris 18)

22 Lo scandalo della forma della morte di Gesù
Il compimento dell’incarnazione è l’assunzione non solo della natura umana ma della finitezza che appartiene alla natura umana, fino al suo tratto estremo rappresentato dalla morte. La caratteristica più propria della finitezza non è la semplice vita temporale, bensì la morte, il dolore della morte, quale punto estremo della finitezza. Assumendo questa morte Gesù rivela anche il più alto amore.

23 Le parole di Hegel «la più alta finitezza non è la vera vita temporale; bensì la morte, il dolore della morte è la più alta negazione, la più astratta, lo stesso limite naturale, la finitezza nel suo più alto estremo. L’esistenza temporale, piena dell’idea divina, viene intuita nel presente solo nella morte di Cristo. La più alta alienazione dell’idea divina: “Dio è morto, Dio stesso è morto”: è una straordinaria terribile rappresentazione che porta alla rappresentazione del più profondo abisso della scissione». Eppure tale morte lungi dall’essere la fine dell’idea è il più alto amore; l’amore è questa identità del divino e dell’umano spinta fino all’estremo, la morte.

24 La grandezza dell’amore emerge soprattutto se si considera il modo della morte ovvero la morte in croce: è l’abisso della finitezza perché morte non naturale ma disonorante “La morte disonorante è la cosa più importante. Nella morte naturale viene trasfigurata la finitezza come semplicemente naturale; ma in questo caso il disonore civile, la croce, viene trasfigurato; ciò che nella rappresentazione era quanto vi è di più vile, mezzo dello stato per disonorare l’individuo, si cambia nel più alto onore. La croce, che era considerata la cosa più bassa, è divenuta la più elevata. […] La croce corrisponde alla nostra forca. Quando questo simbolo del disonore è innalzato a bandiera, è fatto segno di riconoscimento, una coccarda, è veramente come una bandiera di cui il contenuto positivo è nello stesso tempo il regno di Dio” (Hegel) agli occhi di un ebreo la morte in croce era riservata ai bestemmiatori, era una morte vergognosa l’assunzione di Cristo arriva fino a questo punto estremo, fino a identificarsi con il disonore più grande trasformando la croce da segno di maledizione a strumento di salvezza

25 La morte è assunta, il male viene fatto proprio da Dio e solo così è vinto; come recita la sequenza di Pasqua, “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello” la morte è stata sconfitta e dunque il senso del vivere, del soffrire e del morire, non è il nulla, verso cui la morte sembra condurre i destini dei singoli come dei popoli, ma il tutto compiuto e pieno La morte di Dio è la “morte della morte” che cancella il pensiero più terribile: che tutto ciò che è eterno, che è vero, non sia La sconfitta della morte, la risurrezione di Cristo, è la parola di Dio definitiva sul mistero del dolore e del male e sulla loro non ultimatività “Questo si è compiuto nella morte: l’idea divina si è alienata fino all’amaro dolore della morte, alla vergogna del malfattore e proprio con ciò la finitezza dell’uomo si è trasfigurata fino al più alto grado, attraverso l’altissimo amore. Quella finitezza è il più profondo dolore, e questo è il più alto amore” (Hegel)

26 Non vi può essere redenzione senza incarnazione, senza assunzione nella propria carne del male in ogni sua forma e fino alla radice del suo abisso, ma allo stesso tempo non è un morto che vince la morte ma un vivente; la croce si illumina di senso nella luce della risurrezione, quell’evento fondatore e costituivo della fede senza il quale l’esperienza cristiana non avrebbe senso La risurrezione come la parola di Dio sul mistero del dolore e del male e sulla loro non ultimatività, una risurrezione cui si giunge attraversato il dolore della negazione. Il dolore in Gesù si rivela salvifico perché capace di sconfiggere quella realtà che ne è all’origine, ovvero il male Mediante il dolore, la radice del dolore è vinta, non è però cancellata; il soffrire è rischiarato di senso ma non è cancellato quanto alla sua possibilità perché legato alla libertà

27 La certezza che la sofferenza è stata vinta ci stimola e spinge a lottare contro la sofferenza; allo stesso tempo ci ricorda che, per quanto umiliante e frustrante possa sembrare, il male è ineliminabile e con esso bisogna fare i conti occorre vincere la tentazione di rimuovere nella vita ogni dolore ed ogni fatica Ma ciò che guarisce l’uomo è «la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore» (Spe salvi 37) La fede non rimuove la sofferenza ma ne rischiara il senso, ne proclama la non ultimatività e permette di viverla nella speranza, “l’àncora del cuore che giunge fino al trono di Dio”, trasformandola in luce, testimonianza,

28 Non è semplice né scontato accettare la sofferenza, attribuirgli un senso
Il “com-patire” di Dio con l’uomo, un Dio non estraneo o indifferente al destino di ogni singola creatura, infonde quella certezza che rende capaci di condividere la sofferenza e di soffrire senza disperazione « Certamente è il mondo creato che qui soffre, non è Dio. Ma dove dovrebbe essere questo mondo se non in Dio […]? Questo vuol dunque ben dire che la sofferenza di questo mondo sta a cuore a Dio […]. E’ una illusione ottica dell’uomo “filosofo”, il pensare che la sofferenza avviene “qui in basso” e che “là in alto” un Dio immerso nella sua beatitudine lo guarda disinteressato. […] L’uomo che soffre e grida nella sua agonia è in Dio. […] Questo vuol dire che l’amore di Dio ha, da sempre, assunto in anticipo tutta la sofferenza del mondo. Un amore divino intratrinitario […] che può assumere il rischio di tutte le follie e i crimini della libertà umana – ma che non ne ha bisogno, per essere amore, tutt’al più per provare al mondo intero che “l’amore è più forte della morte e degli inferi”» (Balthasar) Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis (San Bernardo): Dio si è fatto uomo per poter com-patire con l’uomo


Scaricare ppt "Una prospettiva cristiana"

Presentazioni simili


Annunci Google